Una donna nei lager dei nazisti (per il giorno della memoria)
Domenicale ● Agostino Pietrasanta
Non è facile trovare il modo di proporre il giorno della
memoria, senza cadere nella retorica della sola celebrazione istituzionale;
eppure l’iniziativa dell’Amministrazione provinciale di Alessandria, per
l’opera di Gian Piero Armano, da parecchie stagioni, riesce a trattare di
questioni assolutamente emblematiche della deportazione nazista, entrando nel
merito di esperienze inquietanti, anche per la nostra contemporaneità. Basti
ricordare che negli anni più recenti, grazie alle attività che ne sono
derivate, abbiamo saputo della vita sportiva nei campi, della vicenda degli
addetti forzati ai forni crematori, del religiosi deportati , anche in odio
alla loro fede ed alla loro
testimonianza.
Quest’anno l’argomento scelto ha individuato l’identità
specifica della deportazione femminile con il suo carico di violenza gratuita e
di offesa alla dignità della persona. Il registro, come al solito è stato
quello della conoscenza diretta e della testimonianza concreta di protagonisti
che finalmente, e da pochi decenni, riescono a parlare, al tramonto di una loro
giornata di vita, ovviamente non particolarmente lontano; anche per loro,
l’anagrafe non mente e non perdona.
In questo quadro di scelte, personalmente ho potuto
ascoltare, direttamente, l’intervista che è stata fatta a Ida
Desandrè e che è stata proposta durante la serata promossa il 22 scorso
dall’Associazione “Cultura e Sviluppo” all’interno dei giovedì culturali.
Mi sono trovato di fronte ad una persona pienamente
consapevole della straordinaria esperienza vissuta, cosciente della resistenza
opposta ai suoi aguzzini, prima nel campo di Ravensbruck, poi in quello di
Salzgitter ed infine nel lager di Bergen Belsen, dove è stata infine liberata
il 5 maggio 1945 dalle truppe inglesi.
La storia di questa donna che ha cominciato a narrare
della sua drammatica esperienza solo dal 1976, se da una parte ribadisce
reazioni, sensibilità e denunce ascoltate più volte da tutti i deportati,
dall’altra dice con scarna testimonianza della specifica spersonalizzazione
della donna nella vicenda concentrazionaria. Come tutti i deportati, a lungo e
per circa trent’anni, non è riuscita a parlare: la straordinaria gratuità della
sofferenza patita, l’annientamento della personalità, l’offesa alla dignità
dell’uomo erano di tale livello da non essere proponibili ad orecchie
disponibili all’ascolto; non è riuscita a credere che qualcuno potesse prestare
fede alla sua memoria colpita dalla violenza. Come tutti i deportati ha subito
umiliazioni e degradazioni del vissuto personale, ha sofferto la fame più
orribile, ha vissuto il terrore dei forni crematori, ben visibili da tutte le
parti frequentate nel lager.
Tuttavia rimane, in questa donna, la capacità di analisi
spietata e concreta della particolare umiliazione della donna. In un contesto
culturale di riservatezza, tutta la vita di Ravensbruck era fatta di offesa
alla femminilità. La donna era letteralmente spogliata della sua identità e
colpita soprattutto nei suoi ritmi di vita; veniva omologata alla volgarità ed
all’abiezione. Era un’ ulteriore sofferenza vedersi nuda davanti ad estranei,
visitata ed esposta senza rispetto della sua corporeità e del suo pudore.
Colpisce, con la forza di un’emozione resa stupefacente dal
ricordo diretto, la crudeltà sofferta dalla donna/madre. Ida Desandré racconta,
con un ritmo tanto incalzante quanto essenziale di donne incinte fatte
partorire anzitempo per controllare la resistenza dei neonati, pressoché
abortiti, al freddo ed alla fame. Colpisce la capacità di evocare la specifica
offesa alla maternità abbandonata alla ferocia di aguzzini impazziti.
Non stupisce che di tanta infamia, le vittime non siano
riuscite a parlare a lungo perché non si può credere ad una ferocia disumana
tanto cruenta da parte di uomini fatti belve impazzite. Eppure anche
nella contemporaneità, stiamo assistendo ad un ripetersi di atteggiamenti che,
alla fine e purtroppo, rendono anche più drammatica la testimonianza dei tanti
deportati ancora viventi.
Drammatica ed anche più credibile; certe aberrazioni
potrebbero ripetersi e, lo constatiamo tutti i giorni, si ripetono sotto i
nostri occhi. I media non ci risparmiano le immagini della loro tremenda
attualità.
Eppure non mancano taluni che vorrebbero negare la violenza
di ieri e magari giustificare quella di oggi.
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