Maria Cristina Pesce
LIBRando. Emozioni di carta. di Jo March, alias Maria Cristina Pesce
Uno spazio di
suggestioni, significati e storie, quelle che colpiscono il cuore, la mente o
l'anima, che lasciano tracce dentro di noi.
In qualsiasi luogo
siamo quando leggiamo un romanzo, un racconto ci addentriamo in altre
dimensioni in cui troviamo spicchi di esistenze, spaccati di vita e
riflessi della nostra, frammenti delle complessità umane, pensieri e sguardi,
dolori e gioie. Storie che ci permettono di entrare in mondi immaginari
ma così colmi di realtà e della grandezza umana quanto della nostra
piccolezza e fragilità .
Pagine che
sfogliandole ci cibano di emozioni, di nuovi saperi, di scoperte, di
incontri, di illuminazioni e confronti. La lettura é un
piacere per raccoglierci intimamente con noi stessi e nel
contempo ampliare il nostro sguardo. Il profumo della carta stampata, il
rumore della carta sfogliata é sensuale, per il corpo e per la mente, per
questo vi invito al piacere di calarvi dentro alle pagine stampate e senza
paura intraprendere nuovi viaggi in altre dimensioni.
Buona lettura!
by Maria Cristina Pesce
L'orrendo delitto di Luca Varani, le sevizie e la crudeltà da parte dei due amici reo confessi, per alcune peculiarità mi ha riportato alla memoria un libro, letto anni fa.
Ambientato in Olanda “La cena” di Herman Koch, é un libro crudo e per certi versi agghiacciante che però consiglio di leggere, soprattutto a chi ha figli, per gli spunti e le riflessioni che stimola. Un romanzo che ti fa meditare, che ti sollecita a porti delle domande e ti mette di fronte al significato di genitorialità, al dilemma di come affrontare situazioni così emotivamente sconvolgenti. Come ci si deve comportare quando un figlio commette un gesto raccapricciante? responsabilizzarlo costringendolo ad assumersi le conseguenze delle sue azioni? o coprirlo e tacere per non compromettere il suo futuro e non macchiare il ‘buon nome’ della famiglia? Quali sono i valori che trasmettiamo oggi ai nostri figli in questa società ‘liquida’? Li accontentiamo per ogni capriccio e richiesta, per nostra immaturità o per tacitare i sensi di colpa per l'inconsistenza della nostra presenza o il poco tempo che gli dedichiamo? Quanto essere genitore, biologico o non che sia, rende un genitore “sufficientemente buono”, come diceva Winnicott ?
La storia si consuma attorno a un tavolo di un lussuoso ristorante per la durata di una cena con quattro personaggi, due famiglie imparentate dell'alta borghesia, apparentemente felici e benestanti che tra una prelibata portata e l’altra chiacchierano e progettano le future vacanze. La cena, è stata fissata però per affrontare insieme l’efferato omicidio compiuto dai loro figli adolescenti su una barbona che si proteggeva dal freddo all'interno di un bancomat. I ragazzi sono stati ‘fortunati’ a non essere ripresi dalle telecamere, ma non sono stati altrettanto ‘furbi’, infatti hanno inserito in rete il filmato dell'orrendo omicidio, ripreso con i loro cellulari. L’arresto dei due ragazzi è imminente, una questione di ore, ma solo dopo le prime portate le due famiglie entrano nel vivo della discussione, ipotizzando cosa fare, quale comportamento adottare. Una conversazione animata nella quale si snodano anche i ricordi del loro passato, flashback che tracciano chiaramente l’imprinting che i genitori hanno avuto sui figli. Si scoprirà che non é il primo delitto di cui si é macchiata la prole, figli annoiati, alla ricerca di emozioni, di stordimento, che tanto sono consapevoli dei loro diritti quanto non lo sono dei loro doveri.
Quattro personaggi, Paul, insegnante in pensione, padre immaturo, psicologicamente labile, che non ha la consapevolezza di aver trasmesso al figlio l'istinto di violenza che lui stesso possiede, un uomo che non é stato in grado di sostenere il percorso di sviluppo psichico del figlio. .“Io e Claire abbiamo sempre pensato che Michel debba poter andare avanti con la sua vita. Non vogliamo instillargli alcun senso di colpa. Voglio dire, ha sì una colpa, ma non si può neanche sostenere che una senzatetto che si mette a dormire nella cabina di una bancomat sia l’innocenza in persona.” Claire, la moglie, al contrario del marito, è una donna forte, che per amore di apparenza ha sempre nascosto la violenza, la natura disturbata del marito e, anche in questo caso, vuole coprire il figlio per non rovinare l'immagine di famiglia ‘perfetta’.
Serge, il fratello di Paul, invece é un uomo ambizioso, determinato con punte di supponenza, che sta puntando tutto sulla carriera politica e ha fatto della moralità e della legalità la sua bandiera politica, mentre la moglie Babette è dedita alla beneficenza, al volontariato, una donna però poco disposta a sprecare il suo tempo 'prezioso' per l'educazione del figlio o a rinunciare al ruolo di Lady del Primo ministro olandese.
Per una buona parte del romanzo la conversazione tra le due le famiglie fa intendere che i genitori vogliono utilizzare una strategia condivisa per coprire i ragazzi e non compromettere il loro status, l'apparente rispettabilità, ma la conclusione sorprenderà. Nel vuoto umano dei personaggi Serge si rivelerà essere il personaggio umanamente più responsabile, realmente preoccupato dello stato psicologico del figlio.
Un libro scorrevole che si legge in tempi brevi, dalla narrazione fluida, che tratta un tema molto delicato, in cui emerge l’abilità di Koch di tracciare con grande precisione i profili psicologici dei protagonisti e i loro stati d'animo. L'autore olandese disegna lo sfacelo di una realtà che vede l'amoralità nelle nuove generazioni e il fallimento genitoriale, educativo di quelle vecchie, che come gli struzzi nascondono la testa nella sabbia e fingono di non vedere per non compromettere il loro status sociale e non mettersi in discussione.
Lo scrittore lo fa con uno stile, apparentemente molto 'disimpegnato', nel quale non lascia trapelare un coinvolgimento etico od emotivo, riuscendo però ad innescare nel lettore un processo riflessivo. La narrazione coglie i vuoti, la mancanza di etica degli adulti, presi dai loro egoismi, dalle ambizioni, dalle loro posizioni sociali. Kock, pur non assumendo posizioni, è abile nel mettere a nudo i processi mentali e l’incomunicabilità tra genitori e figli, come all’interno delle due coppie, e a evidenziare come i figli siano specchio dei loro genitori.
Come ci comporteremmo noi, se i nostri figli si dovessero macchiare di azioni così gravi? Saremmo straziati e avremmo la forza di affrontare la verità e le conseguenze, per quanto dolorose siano? Un romanzo per certi versi agghiacciante e sconvolgente, proprio come l'omicidio Varani.
Quello che non uccide di David Lagercrantz
by Maria Cristina Pesce
“...Mikael non poteva fare a meno di chiedersi se la sua visione di Millenium, per quanto bella e giusta in un mondo ideale, fosse anche funzionale alla sopravvivenza della rivista...”
Quando scoprii che nelle librerie stava per uscire la continuazione della trilogia di Millenium di Stieg Larsson, scritta su 'commissione' da un altro autore, ero molto scettica sul possibile gradimento dei lettori. Avrebbe avuto l'impatto e il coinvolgimento del magnifico thriller “Uomini che odiano le donne” o de “La ragazza che giocava con il fuoco”, o ancora de“ La Regina dei castelli di carta”? Avrei ritrovato lo stesso spessore nei protagonisti: il carismatico, puro giornalista Mikael Blomkvist e le sue scottanti inchieste, la dark borderline e geniale hacker, Lisbeth Salander, o la bella anticonformista editrice Erica?
Lo scrittore David Lagercrantz, a me sconosciuto, sarebbe stato degno erede di Larsson o avrebbe assecondato solo una mera operazione commerciale?
Il giallo non ha la portata dei precedenti, più breve, più lineare e meno complesso, più narrativo si perde in dettagli informatici, più comprensibili agli addetti ai lavori. Gli avvenimenti che man mano si snodano mancano di colpi di scena e di sospensioni eppure é un thriller da leggere. La tematica sul mondo digitale é attuale e la scrittura di Lagercrantz é buona, con un suo stile seppure non intrigante come quella dello scrittore scomparso prematuramente. La trama riesce a coinvolgere, é ben costruita, inizialmente troppo lenta diventa poi sempre più scorrevole. C'é meno violenza rispetto alla trilogia e i personaggi sono ben tratteggiati, Lagercrantz é riuscito a dare loro la continuità di quelli della saga di Millenium, anche se Mikael in questo noir appare più spento e Lisbeth meno sociopatica.
La storia si snoda attorno al personaggio di Frans Balder, un genio informatico che scoperta una nuova forma di intelligenza artificiale ha abbandonato gli Stati Uniti ed é ritornato in Svezia, ma minacciato vuole fare rivelazioni scottanti al giornalista Mikael Blomkvist. Il giornalista di Millenium che sta vivendo una fase professionalmente demotivata spera di imbattersi in nuovo materiale per un' inchiesta che aumenti le tirate della rivista in cattive acque, ed evitare che il gruppo editoriale Serner che ha già acquistato una quota, possa imporre una linea politica che tarperebbe la loro indipendenza. Mikael scoprirà che anche l'amica con cui ha condiviso momenti di 'alta tensione' e un profondo senso di giustizia, Lisbeth, é stata coinvolta dall'informatico.
Lo scienziato viene però ucciso mentre il giornalista sta entrando a casa sua, da qui in poi entrano in scena i servizi segreti, figure dell'industria informatica, organizzazioni criminali, assassinii, guerre in rete. Il figlio August, autistico, che Balder, dopo aver scoperto alcuni lividi su di lui, provocati dal nuovo compagno della exmoglie, aveva portato a vivere con sé, ha ereditato il genio matematico paterno ed é stato testimone dell'omicidio. Scatterà una vera e propria guerra in rete tra hacker e il violento passato di Lisbeth ritornerà con i suoi inquietanti fantasmi, con la presenza della bella gemella, magnetica capo di un'organizzazione criminale che ha ereditato dal padre la stessa crudele perversione. Attratta dal potere digitale, della sorveglianza globale é disposta a tutto, con mezzi illeciti e spargimento di sangue pur di ottenerlo, ma Lisbeth riuscirà ad ostacolarla.
L'indomita hacker collaborerà ancora una volta con Mikael e riuscirà ad intrufolarsi nei complicati sistemi informatici, a comprendere il linguaggio del bambino e salvarlo.
Lagercrantz, pur non essendo il replicante di Larsson, pur non avendo esperienza come giallista, é stato comunque bravo a costruire l'impianto di “Quello che non uccide” mantenendo gli ingredienti del thriller di stampo nordico. Lo scrittore deve aver fatto non pochi sforzi per tentare di entrare nei contorti profili psicologici dei protagonisti, nel cercare di addentrarsi nei baratri della perversione della mente umana e in quella che era la fervida mente di Larsson. Un noir che consiglio di leggere, tanto più che il suo finale mi fa supporre (e sperare) in una prossima continuazione.
La figlia sbagliata di Raffaella Romagnolo
by Maria Cristina Pesce
Raffaella Romagnolo tocca sempre le nostre corde più profonde e si conferma, ancora una volta, autrice di densi contenuti con La figlia sbagliata, un altro libro molto coinvolgente, colmo di umanità ma anche di amarezza e di crudo realismo.
Un romanzo pervaso da tematiche come la complessità delle relazioni, la genitorialità, il rapporto di coppia, l’amore castrante che tarpa le ali e l’amore negato, la predilezione per un figlio rispetto ad un altro, i dolori, la solitudine, le rinunce e l'abitudine dei rapporti che si 'consumano' nella routine.
Protagonista é una famiglia, Branchero, all'apparenza normale i cui componenti sono imprigionati nella morsa del dovere, condizionati da scelte ‘dovute’, da apparenze, da aspettative deluse, da sogni non realizzati, da dolori e sensi di colpa che non trovano pace e che segneranno il tenue confine tra normalità e pazzia.
Una moglie insoddisfatta che in nome della sicurezza, del dovere, dell'apparenza sociale, della paura della solitudine ha rinunciato al suo lavoro, ai suoi sogni e al suo talento grafico e che tenta di realizzarsi attraverso il figlio. Un marito camionista poco presente e che ha delegato alla moglie l’educazione e le responsabilità genitoriali, un figlio ‘remissivo’ che ha indossato l’identità che la madre desiderava, nascondendo i suoi veri desideri per soddisfare le aspettative che la genitrice riversava su lui. Una figlia che si sente in colpa per non aver letto i segnali del malessere, del disagio del fratello, per non essere riuscita a farsi amare dalla madre e salvarla dal baratro del dolore.
La storia, in un'atmosfera surreale, si snoda intensamente tra presente e passato e ha il suo incipit con l’infarto di Pietro di cui la moglie Ines, occupata a riassettare la cucina e ad osservare un talk show, si accorge diverse ore dopo “ Se tra una passata e l'altra si fermasse a guardare in volto Pietro Polizzi, cosa che Ines fa di rado, si accorgerebbe dell'incipiente pallore e di una lieve impressione di secchezza della pelle, causata dal blocco del flusso sanguigno...”. Ines non si comporta come farebbe qualsiasi persona in una situazione del genere, non chiama nessuno, non si dispera, lo lascia li. Il tempo per lei si é fermato di colpo, persa nei meandri del passato, consumata dal dolore, lascerà passare quattro giorni vicino al corpo del marito, ormai freddo per il rigor mortis, mentre percorrerà un viaggio interiore, crudo e lento, sulla sua vita e quella dei suoi famigliari, tra fantasmi, dolori e segreti. La sua mente rivangherà la sua vita, il figlio, la sua bellezza, i suoi talenti come nuotatore e come studente, i suoi traguardi. Un figlio che le aveva sempre dato ‘soddisfazioni’, dalla carriera scolastica eccellente fino ad arrivare ad una promettente carriera lavorativa a differenza di Riccarda, la figlia, “la signorina crisi isterica” che aveva scelto di fare l’attrice, di intraprendere un lavoro dal futuro incerto e ben lontano dalle aspettative così conformiste della madre. Una vita normale, all'esterno, sempre attenta alle apparenze, ma per certi versi una famiglia malata, in cui tutti i componenti, ad esclusione di Riccarda, la più autentica e solida, hanno indossato un'identità che non era la loro, a partire da quel figlio che si ribellerà alle aspettative materne tragicamente.
Una trama ricca, ben strutturata, scorrevole, una scrittura introspettiva e molto toccante che come i precedenti libri della Romagnoli stimola riflessioni sulla complessità delle relazioni, sull'identità reale e 'pubblica', sulla fragilità dell'essere umano, sul labile confine tra normalità e pazzia.
Rileggendo L'Angelo di Avrigue
by Maria Cristina Pesce
Riponendo alcuni libri negli scaffali delle mie librerie stracolme, prossime al rigurgito, tanto sono pressati e stratificati, é scivolato a terra L’angelo di Avrigue di Francesco Biamonti. Un segno? Forse. Tanto è che memore di quanto avevo amato questo libro, presa dall’impellente desiderio di rileggerlo ho abbandonato il senso del dovere che mi ‘ordinava’ di riassettare, per sprofondarmi nella rilettura di un libro che ha avuto su di me un forte impatto emozionale. Volevo ritrovare alcuni passi che ormai, dopo tanti anni, erano confusi nelle retrovie nebbiose della memoria.
Una scrittura essenziale e profonda quella di Francesco Biamonti, alla Montale, che mi viene naturale associare ad un altro grande scrittore ligure che ho studiato e amato molto, Camillo Sbarbaro “Scarsa lingua di terra che orla il mare, chiude la schiena arida dei monti; scavata da improvvisi fiumi, morsa dal sale come anello d'ancoraggio; percossa dalla fersa; combattuta dai venti …aromi di selvagge erbe. Liguria, l'immagine di te sempre nel cuore, mia terra..” Poeti dalla potente voce silente ma così viva, pittori di penna di lirici paesaggi, scrittori di profili umani essenziali, di scarne parole.
Il contesto é il paesaggio ligure, il mare, la luce del cielo che la illumina, i profumi marini e silvestri che l'avvolgono, le asprezze dei sentieri scoscesi dell'entroterra al confine con la Francia. Un romanzo che suscita forti emozioni sensoriali con i suoi quadri impressionisti: l’ulivo agitato dalla brezza marina «C’era brezza di mare e qualche bagliore s’aggrovigliava agli ulivi toccati da questa brezza», il paese che domina su una roccia tra sfumature di cielo e di mare, incorniciato dal verde di una vegetazione selvatica, schiaffeggiato dal vento, baciato da una luce dorata di giorno e d'argento la sera. “Una luce radente spianava il mare e lo sollevava nelle insenature; anche al largo esso si alzava sino a cozzare contro il cielo. Un altro mare, d’ombra, scendeva dalle catene rocciose…l’ora viola l’avvolgeva, l’ora della nostalgia tra due mari”.
Una narrazione intrisa della magia dei luoghi sospesi nel tempo, in cui, anche gli uomini sembrano in attesa, del fascino riposante di una quiete profonda, densa di una profonda solitudine che aleggia in tutto il racconto, della dolce malinconia di esistenze piegate dalla fatica di vivere di montaliana memoria e di quella rassegnazione impastata di silenzi che profumano di eterno.
Nell'antico borgo di Avrigue si respira l'odore di salsedine intrecciato al profumo di rosmarino selvatico, a quello della ginestra, dei pini e degli ulivi ma anche a quello della miseria. Un luogo che non regala molte risorse di sopravvivenza, da cui i giovani si allontanano per cercare un lavoro. Terra di confine, un tempo percorsa da contrabbandieri e soldati con vecchie case in pietra, dove in quelle abbandonate, si rifugiano personaggi forse drogati o soltanto ambientalisti o mistici, un paese abitato da pochi giovani ma da molti vecchi, ancorati ai ricordi di un mondo antico, nostalgici di un tempo passato. Sotto la roccia, vicino, la costa ligure con il suo turismo, il lavoro, il divertimento, il miraggio per la gioventù di una vita che scorre, piena, emozionante.
La voce narrante é di Gregorio, un marinaio che ritorna dopo un lungo viaggio sul mare al suo paese natale, nella sua casa, per recuperare la pace della terraferma, “saturo d'acqua e lamiera”, per riabbracciare i luoghi delle sue radici e gli affetti. “La collina era irruvidita nel lungo tramonto. La notte non riusciva a toccare gli ulivi soprani trasformati in vaste farfalle nere. Era arrivata una di quelle tristissime sere in cui sul mare si sentiva lo stridio del ferrame”. Una bella figura Gregorio, un marinaio che ha studiato il latino, che non giudica, una testa 'pensante' dal profondo senso umano, comprensivo ma anche inquieto “Hai già lo sguardo perduto dei vecchi marinai. Non si capisce mai cosa cerchino”. Diverse figure femminili animano la vita nel borgo, Ester, dall'andatura elegante e sciolta, dolce e accogliente ma anche determinata, legata affettuosamente a Gregorio, ma che alla fine lascerà con una lettera di addio “Tu sei sempre stato gentile, ma non ho mai trovato il costante tepore a cui mi ora mi voglio aggrappare”. C'é Martine, la madre di Jeanne Pierre, confusa e impietrita dal dolore per la perdita del figlio con cui aveva un rapporto conflittuale, la sua protettiva amica Lawrence, appassionata giocatrice di Casinò, divorata dal desiderio di un’ingente vincita provocata non tanto dal bisogno ma dalla sfida con il destino. Bello anche il profilo umano del parroco del paese, “... sembrava molto impressionato, non era vago e sbrigativo di fronte alla morte”, così diverso dal cameriere del bar dell'olandese, con le sue approssimazioni e i suoi pregiudizi.
La struttura narrativa si snoda in dialoghi che sembrano quasi mormorati e sospesi, in silenzi di attese che accompagnano le riflessioni di Gregorio sulla morte di Jeanne Pierre. Una morte accidentale, provocata o un suicidio? Un romanzo non recente, dalla scrittura essenziale, ermetica, ricca di pause, che suscita straordinarie emozioni, in cui la descrizione della luce e del paesaggio é autentica poesia che parla all'anima.
Storia di una ladra di libri, di Markus Zusak
by Maria Cristina Pesce
Mi meraviglia sempre la forza degli esseri umani, che riescono a rialzarsi, seppure barcollando, persino quando fiumi di lacrime inondano i loro occhi.
E' il potere della parola, della sua capacità di nutrire la mente e l'anima. E' la sua forza ristoratrice e la magia delle parole come amuleto e come rifugio da un mondo impazzito.
La storia di una ladra di libri di Markus Zusak é una storia d'amore, d'amicizia, la storia di una famiglia, di Liesel, di un popolo, del nazismo, degli ebrei nella Germania hitleriana. E' il racconto di una giovane ladra che salva i libri che verrebbero distrutti, bruciati nei roghi nazisti,“...ai tedeschi piaceva bruciare cose. Negozi, sinagoghe, case e libri”, restituendo alle parole una sorta di nuova 'vita'.
Un romanzo colmo di sentimenti, di nobiltà d'animo, di compassione, di dolore, di personaggi imperfetti ma assolutamente autentici, umani.
La storia inizia tristemente con la madre di Liesel in viaggio su un treno, sta accompagnando la figlia e Warner, l'altro figlio, vicino a Monaco, in una nuova casa, in una nuova famiglia, affidataria. Si sta separando da loro per offrire ai figli una vita più serena, per proteggerli dalla follia nazista perché è una kommunist, nell'elenco dei 'reietti', da isolare, imprigionare, distruggere. Durante il viaggio però il fratellino morirà, dopo la sepoltura lo sguardo di Liesel sarà colpito da un testo per terra “Il manuale del necroforo”, forse sfuggito all'officiante del funerale, il primo libro che ruberà pur non sapendo ancora leggere. Sarà Hans, il padre adottivo che le insegnerà a leggere. Liesel crescerà con l'amore di una famiglia, tra la scuola e l'amicizia di Rudy, con il quale, nell'innocenza dell’età, nonostante la tragedia del periodo storico, della povertà, vivrà scorribande e avventure. Ma saranno assolutamente significative per la sua crescita, le parole dei libri, che l'aiuteranno a guardare il mondo con uno sguardo diverso e a superare i difficili momenti del nazismo, della guerra, delle perdite affettive che la toccheranno da vicino.
La voce narrante é la Morte, co-protagonista con Liesel della storia.
Una Morte che non é lo spettro del nostro immaginario, ma quasi ironica, altre commovente, che trasporta il lettore in mezzo al dolore, alla sofferenza dell'Olocausto, della seconda guerra mondiale. “Dicono che la guerra sia la migliore amica della morte ma debbo dissentire. Per me la guerra é come un nuovo padrone che pretende l'impossibile. Ti sta con il fiato sul collo, ripetendo senza sosta 'lavora, lavora'. Tu lavori. Ti affanni. Il capo però mica ti dice grazie,anzi esige ancora più impegno da te”. Una morte che svolge il suo compito, che sa quando traghetterà le anime delle persone, che racconta la storia di Liesel 'camminandole' sempre vicino e che la 'porterà via', solo quando sarà molto anziana. Una Morte dalla sorprendente pietas umana.
Di ogni personaggio é ben disegnato il carattere: Hans, dolce e pacato, musicista, ma per necessità decoratore, tedesco che non condivide la follia nazista e persegue silenziosamente i suoi ideali, a costo della vita, la moglie Rose, apparentemente arcigna, dura, dal linguaggio da 'scaricatore di porto', ma in realtà con un gran cuore. Bello anche il personaggio di Rudy, l'amico del cuore di Liesel, “dai capelli del colore dei limoni”, che costantemente vorrebbe rubarle un bacio e quello della moglie del sindaco, Ilse, distrutta dalla scomparsa del figlio, complice silenziosa che permette a Liesel di rubarle i libri della sua ricca biblioteca. Lirico il personaggio di Max, il sensibile ebreo ospitato e nascosto sotto le scale della cantina della casa degli Hubermann e che instaurerà con Liesel una straordinaria amicizia che durerà tutta la vita, sarà lui che le insegnerà il valore simbolico della parola e della scrittura.
Uno stile di scrittura inconsueto, con frasi brevi, anticipazioni, disgressioni, sospensioni e metafore, singolare anche nel contenuto. Inizialmente la lettura può apparire ostica, eppure dopo poche pagine ti prende e ti coinvolge per la sua intensità. Ringrazio l'amica che mi ha invitato a leggerlo prestandomelo, per certi versi mi ha 'incoraggiato', da molto tempo, per chissà quale oscuro motivo, pur essendo tentata, rimandavo l'acquisto e la sua lettura. Una storia appassionante dai passi molto toccanti, non da divorare ma da leggere con calma e in totale silenzio.
Il quarto potere di “Numero Zero” di Umberto Eco
by Maria Cristina Pesce
“Ne ferisce più la lingua che la spada”
“Numero Zero”, l'ultimo libro dell'esimio e talentuoso semiologo Umberto Eco che rispetto ai precedenti dello scrittore ho letto in 'un batter d'occhio', è già nelle vette delle classifiche. La fama dello scrittore alessandrino, pilastro della nostra letteratura, è ormai garanzia di successo e di picchi nelle vendite. Un thriller dai toni ironici, talvolta sarcastici ma ‘appetibile’ anche se non possiede lo spessore del magnifico noir medievale “Il Nome della Rosa” . Non ricorda “Il Pendolo di Focault”, “Baudolino”, ne “Il Cimitero di Praga”, non é storico come quasi tutti i romanzi del Professore, pur tracciando avvenimenti della nostra storia contemporanea. Il racconto parte infatti dallo scandalo dell'Albergo Trivulzio (1992), per passare al caso Gladio, a Licio Gelli, la P2, la storia giudiziaria, la mafia, la Cia, i servizi deviati e le stragi dell’ Italia tra la fine della Prima e la Seconda Repubblica. Una narrazione che svela il meccanismo della menzogna del quarto potere, la strumentalizzazione dell'informazione per scopi non edificanti, che si sviluppa tra intrighi, informazione e notizia e gli inganni della politica.
La trama si dipana in una fantomatica redazione nelle mani di un editore senza scrupoli, Vimercati, proprietario di emittenti televisive, di case di riposo, di giornali scandalistici, che pur di entrare nel giro “di chi conta nel salotto buono della finanza”, della politica, é disposto a usare il ricatto. Simei, il direttore, é una mente machiavellica che nei brainstorming redazionali coltiva nei presenti la cultura dei dossier, dell’informazione fittizia, deviata, del sospetto “I sospetti non sono mai esagerati. Sospettare, sospettare sempre”, che suggerisce le linee a cui devono attenersi “I giornali insegnano alla gente come deve pensare”.
Un team di giornalisti 'rottamati', di basso spessore professionale ed etico, che attiverà, su lauto compenso, una “macchina di fango”, che raccoglierà notizie e manipolerà l'informazione “Per coprire e non per diffondere le notizie”, per insinuare, creare supposizioni e sospetti. Una redazione che quando non avrà notizie le inventerà e che dovrà alimentare il sospetto che sta lavorando ad informazioni scottanti, 'esplosive'.
La voce narrante, Colonna (cognome simbolico?), é un colto ghost writer che oltre a coordinare il gruppo dei sei redattori deve raccogliere, ad insaputa degli altri, il materiale per un libro-scandalo. A differenza dei colleghi della redazione è un uomo che nonostante il disincanto e le necessità pecuniarie ha ancora “vergogna”, possiede una morale come la giovane Maia. Romano Braggadocio é invece un giornalista paranoico del complotto, che vede ombre dappertutto (assolutamente allucinatoria quella che riguarda Mussolini), mentre dalle parole del Direttore si intuisce che Lucidi é una spia dei servizi, infiltrata nella redazione. Giornalisti scribacchini, una testata usata come arma di ricatto, ma anche una liason d'amore tra Colonna e la tenera Maia che ogni volta che ascolta il secondo movimento della Sesta di Beethoven si commuove.
Una storia in cui realtà e fantasia si intrecciano all’interno di una Milano surreale “non più simile ad Amsterdam,... non più bellissima come diceva Stendhal,... non più con le case di ringhiera di una volta”, con vicoletti scuri e malfamati. E in un 'carrugio' milanese viene trovato il cadavere di Braggadocio. Quelle sue ipotesi di complotti che sembravano così farneticanti e macchinose acquisteranno un altro significato. E Colonna che era stato designato come confidente sarà in pericolo di vita? Un alternarsi di verità e di finzione, di farneticazioni che si concluderanno con un finale inaspettato.
“Numero zero”, é surreale e grottesco, un libro dal taglio noir, che come tutti i libri di Eco trasuda dotte citazioni, ma la bulimia dell'erudito Professore é parte del personaggio. La narrazione è stranamente breve, scorrevole e coinvolgente con alcuni picchi davvero brillanti, ma é anche troppo condensata di fatti non sviluppati. Un libro che lascia un po' di amaro in bocca, in cui si intravede la disillusione dello scrittore sul giornalismo di oggi, una palese critica ai giornalisti, poco autonomi, burattini nelle mani dei loro direttori o 'servi' dei potenti, deontologicamente poco corretti. Non solo, Eco pare rivolgere una critica più o meno velata anche alla politica “Tangentopoli non é morta. La politica é sempre corrotta”, incapace di cambiare il sistema, di ricostruire un'Italia moralmente più dignitosa.
Avrò cura di te.
by Maria Cristina Pesce
Amarsi é l'opera
di due architetti dilettanti...che sbagliando e correggendosi a vicenda
imparano a realizzare un progetto che prima non esisteva. Noi. (Massimo
Gramellini, Chiara Gamberale)
“Avrò cura di te”, un
romanzo a due voci, un dialogo epistolare, tra una donna, Gioconda, e un
angelo, Filèmone, in scena i tormenti e i dolori sentimentali di una
trentaseienne.
Scritto a quattro
mani, da Massimo Gramellini e da Chiara Gamberale, ricorda lo stile di ambedue,
quasi un continuum di
“Cuori allo specchio” del giornalista de La Stampa e di “Per dieci
minuti” della scrittrice romana. Un racconto che concilia, attraverso la
formula della corrispondenza, due penne e due generi diversi che nella
differenza e nella contrapposizione trovano la loro forza e logica
espressiva. “Avrò cura di te” non è “Fai bei sogni”, non ha la stessa
profondità né la stessa forza avvincente ed é probabile che molti
lettori siano stati sfiorati dal sospetto che sia un prodotto editoriale ‘sfornato’
ad hoc, di sicuro
gradimento, visti i
precedenti successi dei due scrittori.
Ma è un romanzo che
sa toccare le nostre corde più intime, è denso di sentimenti e di concetti dal
taglio psicologico in cui molte donne possono rispecchiare i malesseri, le
complessità e le difficoltà delle dinamiche affettive, delle storie d'amore. “La
vita per chiunque abbia l’ardire di credere in lei è un ingegnoso gioco di
specchi”.
Due personaggi in
primo piano, uno emotivo e confuso, l’altro saggio e poetico, ma é attorno
all’amore, che si snoda la storia, quel sentimento che tutti vogliamo e che per
incapacità di costruire, di ascoltare l’altro, per quella tendenza umana di
tentare di plasmare l'altro in base alle nostre aspettative, per inseguire la
nostra personale idea dell'amore, perdiamo. O ancora per paura, per possesso,
per impazienza, per narcisismo o per la ricerca di una perfezione assoluta,
poco umana, tendiamo a incrinarlo, a distruggerlo. Solo quando l’abbiamo perso,
pur essendo fautori della sua scomparsa, cerchiamo disperatamente di
riconquistarlo, aggrappandoci fino all’ultimo per non doverci
guardare dentro, per non essere messi di fronte ai nostri sensi di
colpa, alle nostre carenze, ai nostri errori, all'inevitabile cambiamento di
noi stessi, dell’altro e del rapporto. “L'amore perfetto non esiste. Quello
reale é la somma di tante le imperfezioni. L'amore più duraturo spesso é il più
improbabile”.
In secondo piano, ma
non certo di meno spessore, altri personaggi, l'eccentrica madre, un padre
chiuso nel suo mondo, un'amica travagliata da una relazione extraconiugale, il
ricordo della dolce figura della nonna, l'ex marito.
La difficoltà ad
elaborare la perdita affettiva, il vuoto “Nessuno potrà mai
riempire da fuori il vuoto che porti dentro”, il fallimento, l’ansia, la solitudine, la
confusione, la rabbia, queste le tematiche che dovrà affrontare Gioconda,
abbandonata da Leonardo, dopo il suo tradimento con il padre di uno
dei suoi alunni.
Giò vive
drammaticamente la separazione dal marito dibattendosi tra i due modelli
antitetici che si porta dentro, l'espressione dell'amore coniugale incarnato
dai nonni, eterno e perfetto e quello dei genitori,
precario e conflittuale. Due modi di amare diversi, la pazienza,il sacrificio,
la tenerezza contro l'impulsività, l’egoismo, l'individualismo. Gioconda, Giò, é un'anima inquieta,non si ama,"E'
faticoso essere obbligati a frequentare noi stessi, quando siamo i primi a
detestarci", ha alle spalle
un'infanzia difficile che il fallimento del suo matrimonio porterà a galla,
spingendola a rifugiarsi nella casa che era dei nonni per ritrovarsi, un
viaggio interiore che inizierà, non a caso, il 14 febbraio. Un
percorso di crescita e di dinamiche interne che durerà un anno e che
la metterà di fronte a se stessa, scaverà sui suoi reali bisogni,
sull'essenza, che le insegnerà a passare dall'Io al noi, ad ascoltare meno
la testa e più il cuore. “Sai quanto é difficile far intendere il linguaggio
dei sentimenti a chi crede che esistano soltanto i pensieri e le emozioni”.
L'immaginario angelo
Filèmone non é altri che l' Io più profondo con cui intimamente
Giò ha il coraggio di parlare mettendo a nudo la parte più fragile,
peggiore e disorientata di sè. Da questo scambio Gioconda, accompagnata
dall'angelo 'Custodde' nel viaggio alla scoperta di se stessa metterà i
tasselli a posto, una donna più consapevole del suo narcisismo, dei suoi errori,
dei suoi egoismi e vittimismi.
"Saper amare.
Un'impresa ostinata che non richiede ricompense nè riconoscimenti
ufficiali, spesso nemmeno da parte dell'oggetto del nostro amore"
Un romanzo che si
snoda attraverso la corrispondenza tra la professoressa e il
magico angelo, una narrazione che nonostante la forma epistolare che
talvolta rallenta la lettura, é scritto molto bene, con un linguaggio forbito,
colto, ricco di aforismi. Un racconto che si declina tra passato,
presente e futuro, tra ricordi e scoperte, che concilia la
spiritualità e la liricità di Gramellini con l’intensa emotività
femminile della Gamberale, narratrice di donne 'smarrite', sempre in
'viaggio' per ricostruire se stesse.
Chi di noi non
vorrebbe avere un angelo con cui instaurare un dialogo continuo e che si prenda
cura di noi, che puntualmente risponda ai nostri interrogativi, alle nostre
paure? che sa magicamente toccare le nostre corde più intime ed emotive, che sa
alleviarci e guarirci dal dolore?
L'amore che ti meriti
di Daria Bignardi
by Maria Cristina Pesce
Un titolo che lascia
spazio a molte interpretazioni e un romanzo, un giallo che non ha la
struttura del classico giallo. Una storia narrata a due voci. Un mistero, una
giovane donna alla ricerca della verità e di radici perdute, un giovanissimo
congiunto scomparso, il rapporto simbiotico tra due fratelli adolescenti e
quello conflittuale tra madre e figlia, la storia di una buona famiglia con i
suoi scheletri, questi alcuni degli ingredienti de L'amore che ti meriti di Daria Bignardi. Diverse le tematiche all'interno
del romanzo, storiche, generazionali, la droga, l'appartenenza ma é sopratutto
l’amore le fil rouge del romanzo,
nelle intenzioni, nelle azioni e nelle parole, l’amore nelle sue diverse
declinazioni, tra genitori e figli, tra uomo e donna, nell’amicizia e nella sua
duplicità, nel bene e nel male, nella creazione e nella distruzione che il
sentimento genera.
Non apprezzo la
giornalista come intervistatrice televisiva ma é gradevole e accattivante la sua
scrittura e quest'ultima sua produzione é assolutamente superiore alle
precedenti. Si percepisce la sensibilità dell'autrice e un'intensa
partecipazione affettiva alla sua terra, a Ferrara, agli antichi palazzi,
come lo splendido Palazzo del Diamante, alle piazze, alle “strade lastricate
di ciottoli lucenti,... di una
bellezza malinconica e composta, solitaria”.
Una città di
provincia dalla vita apparentemente sommessa e sonnecchiante, con le sue
tradizioni, i suoi ritmi, i suoi punti d'incontro, la sua nebbia ma anche i
suoi segreti. Ed é da questa città emiliana che si dipana la trama
e la ricostruzione della memoria di un passato, di un puzzle i cui tasselli,
uno per uno, andranno al loro posto.
Alma, una delle due
voci narranti, é una professoressa universitaria, colta e amatissima dai suoi
studenti, schiacciata dal pesante fardello di essere la causa della scomparsa
del fratello e del suicidio del padre. Una donna che cela il suo dolore e i
suoi sensi di colpa da oltre trent'anni “Ho rovinato tutto e mi merito
l'inferno che ho vissuto istante per istante”. Una sofferenza e un segreto mai condiviso con lo schivo marito e la
figlia e che solo quando comprende che Antonia è ormai matura e forte per
affrontare la verità, gliela rivela.
Antonia (Toni),l'altra
voce narrante, é una giovane scrittrice di gialli, quando la madre le
svela la scomparsa dello zio, decide di andare nella città estense sulle sue
tracce “ per aiutare mia madre, è ancora convinta che sia colpa sua, dopo
tutto questo tempo”, alla ricerca
della verità ma anche per ridare ad Alma un po' di serenità “i segreti ti
rendono più forte ma anche solo. Fanno soffrire soprattutto chi li porta”.
Una figlia che
comprende in pieno il carico che la madre si é portata sulle spalle per tutta
la vita “Non sa cosa sia la leggerezza. Non è una persona pesante, è solo
intensa. Concentrata. Profonda.”
Ma torniamo indietro
di trent'anni. Una 'buona' famiglia, unita, i figli, Alma e Maio, sono due
adolescenti, legatissimi, curiosi e avidi di vita e di esperienze, lui più
influenzabile, dipendente da quella sorella che decide insieme ad alcuni amici,
nell’incoscienza e nell’audacia dell’età e dell' atmosfera trasgressiva degli
anni'70, di provare, l'eroina. Ma se per Alma rimane un episodio circoscritto,
per lui più fragile inizia la dipendenza dal “male”.
Una dipendenza che
distruggerà la famiglia, incrinerà il legame tra i due fratelli, fino alla
scomparsa di quest'ultimo, a cui, dopo pochi mesi, seguirà il suicidio del
padre e dopo poco la morte della madre, lasciando Alma in uno stato di
stordimento totale. Sola, confusa intreccerà anche un legame con un
malavitoso.
Toni nella città
ferrarese inizierà le ricerche a ritroso nonostante la polizia fosse, a suo
tempo, arrivata alla conclusione che Maio con molte probabilità avesse fatto la
stessa fine di due ragazzi che la notte della sua scomparsa erano morti per
un’overdose. Bello il raffronto che farà tra Bologna, solare e aperta e
Ferrara, ovattata e riservata.
Nella città delle sue
radici conoscerà l'enigmatico e affascinante commissario, Luigi D'Avalos,
la fidanzatina dello zio, Michela e Lia, un’anziana elegante
signora che abita ancora nei pressi della loro casa, da trent’anni abbandonata
dalla madre e mai venduta. Sarà proprio Lia che a poco a poco le rivelerà la
storia del nonno e dei suoi bisnonni.
La conclusione però
lascia un pò di amaro in bocca come pure l'impressione che non sia stata
sviluppata come poteva essere, ma la lettura è accattivante, scorrevole e si
snoda in capitoli che diventano sempre più incalzanti sino a tracciare il
quadro finale.
Una scrittura
femminile ma senza fronzoli, asciutta, introspettiva, dai toni che passano
dalla leggerezza ai toni sofferti ma che sa disegnare molto bene i profili dei
personaggi, anche psicologici, e ne coglie la solitudine esistenziale, i
sentimenti, il dolore “ Il mondo é pieno di dolori. Perché alcuni lo
sopportano e altri no?”
“Per dieci
minuti”. Una cura.
by Maria Cristina Pesce
“Leggiamo per
noia, per curiosità, per scappare dalla vita che facciamo, per guardarla in
faccia, per sapere, per dimenticare, per addomesticare i mostri fra la testa e
il cuore, per liberarli“.
A pochi mesi dalla
sua uscita nelle librerie“Per dieci minuti “di Chiara Gamberale é uno dei libri
più venduti nelle classifiche della narrativa. L'ho letto un pomeriggio di una
domenica lattiginosa di fine novembre, totalmente assorbita l'ho divorato, a
differenza dei precedenti della giovane scrittrice, più densi. Ho conosciuto
personalmente Chiara Gamberale nel 2008, dopo averla contattata e
invitata a uno degli appuntamenti della rassegna dei Caffè Letterari in
Galleria Guerci, promossi dall’allora assessore comunale delle pari opportunità
.
Mentre mi perdevo
nella lettura avevo quasi la sensazione fisica di averla di fronte, di
udirne la voce mentre gesticolava, minuta e vivace nelle sue espressioni ma
profonda nei contenuti. C’è molto di lei in questo libro, nel suo stile, nel
narrarsi e della sua storia. Ma il successo di questo racconto-diario a cosa é
imputabile? all'apparente levità e ironia del contenuto, alla struttura snella,
alla scrittura scorrevole e sciolta o alla possibile identificazione con
la protagonista?
Probabilmente a tutti
questi ingredienti, ma non solo, é un libro che entra nella vita di chi lo
legge, tocca corde esistenziali ma ti cura, e alla fine della sua lettura ti
lascia un gradevole sapore di speranza e di allegria e il desiderio di cambiare
qualcosa della tua esistenza.
Nella vita capita di
essere investiti improvvisamente da un ciclone che frantuma impalcature che
credevamo solide, che sfuma in un batter d’occhio i nostri rassicuranti punti
di riferimento, certezze costruite nel tempo. Storditi, destabilizzati e
confusi brancoliamo nel buio mentre si frantumano progetti di
vita attentamente pianificati. Cosa fare per ricostruirsi, per ridare un
senso alla perdita e al proprio vivere e non
soccombere al dolore?
Scoprire nuove prospettive, nuove possibilità, cambiare, ricostruirsi e
ritrovare il proprio “senso perduto”.
Sarà proprio questo
percorso di rinascita che affronterà la protagonista di "Per dieci
minuti".
Chiara é una giovane
donna del nostro tempo, appartenente a una classe medio alta, scrittrice,
segue una rubrica che l'appassiona in un settimanale e ha un'
appagante vita coniugale. Un'esistenza apparentemente perfetta che scorre
entro binari ben definiti, fino al giorno che il marito la lascia con una
telefonata e il direttore del settimanale la licenzia per sostituire la sua
rubrica con la posta del cuore di una ex concorrente del Grande Fratello.
Disperata per l’amore
perso, per la beffa di essere sostituita da una “sciacquetta”, sola, in una
casa di una città che non sente sua, con la nostalgia del paese che ha
lasciato, smarrita si rivolge ad un'analista per uscire dal baratro nel quale è
sprofondata "Cosa devo fare per uscire dalle sabbie mobili in cui si é
trasformata la mia vita?" La terapeuta le prescriverà un gioco,
suggerito da Steiner, per dieci minuti ogni giorno e per un mese, dovrà sperimentare
qualcosa che non ha mai fatto e che mai avrebbe pensato di fare. “E poi,
dottoressa, alla fine che succede? Avrò indietro la mia vita?”
Chiara si metterà in
gioco, impegnandosi, ballerà l'hip-hop, si metterà uno smalto violaceo,
seminerà lattuga e peperoncino, camminerà all'indietro, cucinerà, e molto
altro, una sfida a se stessa che innescherà un percorso di cambiamento ”Mescolo
gli Arcani maggiori e ne pesco uno. Il Matto. Il Matto consiglia di non
resistere al cambiamento e di buttarsi” che andrà a toccare emozioni
dimenticate , riflessioni, scoperte, dando finalmente colore alla sua
esistenza.
Sarà il quadro “La
stradina” della mostra di Vermeer alle Scuderie del Quirinale che
squarcerà il velo e le rivelerà quello che c'era già ma che lei non
vedeva "Mi appare la vita. Che scorre, semplicemente. Lungo questa
stradina di Delft" e la farà uscire dalla strette maglie di Egoland,
“dove ciascuno vive in un palazzo dipinto di un solo colore ...l’unico
possibile e immaginabile”.
Emozionanti le pagine
che raccontano la riscoperta della madre come persona, non solo più nel suo
ruolo materno, sempre disponibile ad anteporre le necessità dei suoi figli, del
marito e della sua casa a se stessa, la rivelazione del suo volontariato presso
un ospedale e le sue amicizie “Ma io dove ero?...Perché non me l'hai
detto?...Non me l’hai chiesto…Scusa mamma per non chiederti mai di parlare di
te”.
Chiara uscirà dalla
rassicurante grigia bolla narcisistica in cui viveva, per scoprire nuove verità
come aver dato per scontate persone e sentimenti, senza mai andare oltre se
stessa, esplorerà mondi colorati che aveva li vicino, che c’erano sempre
stati.
Sarà una donna nuova,
consapevole e più realista, che sa quello che vuole, non più disposta a
sopravvivere ma a vivere guardando avanti e senza più lasciarsi
intrappolare dal dolore delle macerie che si è lasciata alle spalle.
by Maria Cristina
Pesce
Avevo letto di Irene Nemirovsky, tempo fa “I doni della vita” e
lo splendido romanzo ‘sociale’,“Suite Francese”, la straordinaria scrittrice, morta a soli 39 anni nel
campo di concentramento di Auschwitz ci ha lasciato romanzi che sono autentici
gioielli della narrativa.
Mi aveva affascinato
della scrittrice ucraina la potente capacità di raccontare personaggi, di
scandagliare l’animo umano con i suoi pregi e meschinità e di descrivere con
minuzia ambienti e atmosfere con una scrittura fluida, che incanta.
I suoi libri sono
intensi, profondi, lucidi nella descrizione, così è il “Il vino della solitudine”,
denso ed evocativo, dalla narrazione pungente, cruda, spietata, colma di quella
crudeltà reattiva ad un lacerante dolore affettivo. Un affresco di tipologie
umane, di sentimenti, autobiografico, dalle superbe descrizioni ambientali che
riflettono gli stati d’animo dei personaggi, spesso cupe, in un’Europa dei
primi decenni del ‘900 travolta da tragici avvenimenti storici.
Sfondi storici che
rimangono volutamente in secondo piano per dare spazio e risonanza ai paesaggi
dell’anima, alle urgenze interiori, alle dinamiche relazionali.
“Il vino della
solitudine” si dipana attorno ad una relazione-non relazione tra madre e
figlia, l’io narrante, ambientato prima in Ucraina, poi a Parigi, allo scoppio
della guerra a San Pietroburgo, in seguito al confine della Finlandia per
concludersi nel la Ville Lumière.
Pagine colme di
profonda malinconia e solitudine, intrise della sofferenza di una bambina e
della rabbia di un’adolescente, lacerata dall’indifferenza affettiva materna,
attenta spettatrice dell’immaturità e dell’aridità della madre, donna
ossessionata dalla bellezza, narcisista, concentrata sui suoi amori
extraconiugali. .Una carenza affettiva che segnerà profondamente Hélène e che
tenterà di compensare con l’amore della tata francese anche se un destino
crudele se la porterà presto via.
Già nell’incipit che
dipinge il ritratto di un interno di famiglia nelle ore serali si coglie
disarmonia affettiva, mondi vicini ma lontani, la madre, Bella Karol, con “un’espressione
annoiata e stanca”, la figlia “
Quando vedeva accanto a sé quelle carni nivee, quelle mani bianche e inoperose,
Helène provava una sensazione strana, molto simile alla ripugnanza”., il padre,“...aveva occhi e carezze solo per la
moglie, che allontanava la sua mano con un’aria seccata e capricciosa”. “
Un padre assente,
debole, soggiogato dalla seduttività della moglie, ciecamente vigliacco, pur
avendo sotto agli occhi le continue infedeltà della compagna di vita, un
arricchito che frequenta “uomini d’affari febbrili, inquieti, dallo sguardo
impaziente, le mani tese e avide come gli artigli”, e nasconde il suo vuoto affettivo e la
rassegnazione dietro agli affari e al gioco.
Con la cruda
impietosità dell’infanzia e dell’adolescenza che rivendica come innegabile il
diritto di essere amati “il cuore pesante e colmo di un dolore complicato,
strano e indecifrabile” “Sarei
meno infelice in collegio”, Hélène
registrerà emotivamente ogni critica e indifferenza della madre nei suoi
confronti. Invidierà l’atmosfera, il calore della famiglia di una conoscente e
piano piano coverà propositi di omicidio e di vendetta verso Bella.
Scorrerà la sua
infanzia e adolescenza chiusa nel suo dolore, soffocando il suo legittimo
bisogno d’amore, bevendo boccali di solitudine, profondamente intimista, “mi
sento come una valigia dimenticata al deposito bagagli”,.
Ma la ‘brutta
anatroccola”, si trasformerà nel tempo in una giovane e bella donna
consapevole del suo potere attrattivo, dei suoi diciotto anni e della bellezza
ormai sfiorita della madre. Finalmente è arrivato il momento che per tanto
tempo nella sua mente lucidamente ha agognato, punire Bella “Ti farò
piangere come tu hai fatto piangere me”,
seducendo il suo giovane amante.
Ma il sapore della
vendetta non è sempre così dolce tanto più se si rischia di diventare il clone
di una madre tanto odiata ed Hélène ha ormai un carattere forte, gli anni
passati sono stati "Terribilmente duri, è vero, ma che mi hanno
temprata, hanno rafforzato il mio coraggio e il mio orgoglio. E questo mi
appartiene, è la mia ricchezza inalienabile. Sono sola, ma la mia solitudine è
aspra e inebriante”.
Per questo sceglierà
alla morte del padre, di allontanarsi dalla sua casa, per cancellare quel
passato greve che tanto l’ha plasmata, per guardarsi avanti, consapevole di
avere ancora una vita tutta da giocarsi "non si può essere infelici
quando si ha questo: l'odore del mare, la sabbia sotto le dita... l'aria, il
vento..."
Un romanzo del 1935
ma assolutamente contemporaneo nel dipingere un mondo di parvenus, la finanza
con le sue ciniche speculazioni, donne attente solo ad inseguire il mito della
bellezza eterna e i figli vissuti come accessori sociali. Vi suggerisco di
leggerlo, impossibile non esserne catturati!
“Gli sdraiati” di
Michele Serra
by Maria Cristina Pesce
“Ma dove cazzo sei?...ti
ho telefonato almeno quattro volte, non rispondi mai” questo l’incipit
dell’ultimo libro di Michele Serra, “Gli sdraiati “, in cima alle classifiche
delle vendite.
Se alcuni articoli o
commenti del giornalista e scrittore talvolta sono troppo caustici non si
può negare che il pungente sarcasmo della sua penna alleggerisce
il tono del monologo “Gli sdraiati”. Un racconto ironico e
amaro ma anche esilerante e commovente , che più che autobiografico
é collettivo, appartiene a una schiera di genitori post moderni che
si rispecchia nello stesso disagio vissuto per l’incomunicabilità
adolescenziale.
E' la nitida, cruda
fotografia del modus vivendi del figlio diciassettenne di un padre borghese di
sinistra, voce narrante, disorientato dallo straniamento del giovane, dalla sua
presenza-assenza, dal suo consumismo e indifferenza ma che,
con la stessa inclemenza non risparmia nulla a se stesso e alla sua
generazione.
Un figlio come tanti
altri adolescenti che privilegia la posizione orizzontale a quella
eretta, costantemente ‘divanato’ con le ‘scarpacce’, che sparge in ogni
dove briciole, calzini ‘odorosi’ e asciugamani umidi, che lascia
incrostazioni di dentifricio nel lavandino “Per piacere, se passi dal
ferramenta compra uno scalpello, dobbiamo rimuovere dal lavandino i tuoi sputi
di dentifricio calcificati”. Un che vive di notte “nel fuso orario di
Anchorage”, costantemente connesso con il mondo tecnologico, “…Sopra la pancia
tenevi appoggiato il computer acceso. Con la mano destra digitavi qualcosa
sullo Smartphone. …La televisione era accesa, a
volume altissimo…” ma
non con il padre, al quale concede rari e impercettibili biascicamenti.
Due generazioni
accanto, di fronte ma senza inter-azioni e confronti, due atolli separati che
vivono vicino senza un’apparente anello di congiunzione, senza un trait d’union
che permette l’interscambio, il fluire di un’ impercettibile comunicazione, di
un dialogo.
Un padre
dibattuto tra affetto e rabbia , che non comprende l’apparente
abulia del figlio “ Quante volte invece di mandarti a fare in culo avrei
dovuto darti una carezza. Quante volte ti ho dato una carezza e invece avrei
dovuto mandarti a fare in culo”. Ma tenero è il suo sguardo quando si
posa sul figlio addormentato, in bilico tra adolescenza e giovinezza e
scorge sul volto le tracce di un' innocenza che sta sfumando mentre nuove si
stanno già delineando, segnali inequivocabili di una metamorfosi in
atto. Un figlio ‘mutante’ che sale sul tetto della scuola per ammirare il
cielo, le nuvole.
L’autorevolezza
paterna che confermava il suo ruolo e che lo rendeva
co-protagonista della vita del figlio appare sfumata, senza più presa, la
sua identità genitoriale in crisi , un padre trasparente, invisibile anche come
soggetto da contestare.
Come potrà come
padre trasmettere i ricordi, i saperi, le esperienze vissute, la
sua etica, in una sorta di passaggio del testimone? Tra sensi di
colpa, impotenza, rabbia e delusione ma anche amore si aggrapperà alla
speranza di riallacciare un dialogo con-dividendo con il figlio l'emozione
dell’alba autunnale di un paesaggio langarolo, il profumo della sua vendemmia,
la scalata della vetta del Colle della Nasca, esperienze a suo tempo
vissute come figlio con il padre.
Di struggente
tenerezza e malinconia è la parte conclusiva che narra la scalata al
Colle con il figlio, la sua commozione e stupore quando sentirà la sua voce
dall’alto della cima “Sono quiiiii! Papààààà!” .
Un’esperienza
illuminante che porterà la consapevolezza al padre che il mondo del
figlio non è più il suo, che deve farsi da parte, cosciente del proprio
tramonto, ma non per questo mancante o meno presente"sfugge giorno dopo
giorno dalle nostre mani, perché così è la vita” .
Comprenderà che
dietro le manifestazioni pseudo-autistiche c’è il disagio del cambiamento
adolescenziale, la mutazione di chi sta entrando in un’altra fase della vita e
sta tentando di afferrarne il senso e la struttura da una prospettiva
diversa dalla sua.
Molto esilarante ma
anche toccante la parte che racconta La grande guerra finale, il romanzo
che il padre immagina di scrivere, che ha come trama la lotta all’ultimo
sangue tra giovani e vecchi e splendida é la figura del
grande vecchio Brenno Alzheimer , consapevole della legge del tempo e della
sua fuggevolezza "è la bellezza che deve vincere la guerra. La natura deve
vincere la guerra, la vita deve vincere la guerra. Voi giovani dovete vincere
la guerra”.
In questo racconto
c’è tutta l’inquietudine, la confusione e la fragilità affettiva di
un’adultità che si sente impotente e incapace a comunicare, a trasmettere
pensieri e linfa vitale ai giovani figli, che fa i conti con i
propri vissuti , con le ideologie che possedeva. Un adulto contemporaneo
che forse non é più in grado di fornire e passare verità esistenziali,
pensieri e modelli al proprio figlio perché a lui stesso si sono
rivelate inutili o fatue, e forse storie di un tempo passato che
non hanno più ragione di essere.
Segantini. Il
pittore della luce e dei paesaggi
by Maria Cristina Pesce
Milano apre la
stagione autunnale con un ventaglio di offerte di magnifiche
retrospettive a Palazzo Reale, una dedicata a Chagall, l'altra a Segantini e
dal 18 ottobre a Van Gogh, quest'ultima anticiperà le tematiche portanti della
grande manifestazione universale di Expò 2015. L'antologica “Segantini”, una
delle più complete in Italia sul pittore apolide, che sarà aperta fino al 18
gennaio 2015, con 120 opere, molte delle quali mai esposte, ripercorre
l'evoluzione artistica tra Italia e Svizzera di uno dei più significativi
artisti dell’800 italiano. Otto sezioni tematiche che spaziano dagli intensi
autoritratti e ritratti ai lirici paesaggi agresti e delle Alpi svizzere, dalle
perfette nature morte sino agli ultimi emozionanti capolavori di matrice
simbolista.
Se l'infanzia di
Giovanni Segantini (1858-1899) fu infelice e tormentata, dalle sfumature
dickensiane, dall'iscrizione all'Accademia di Belle Arti di Brera in poi,
grazie allo straordinario talento, all’incontro con Grubicy che divenne il suo
committente, a una vocazione artistica totalizzante, fu costellata da
riconoscimenti e ricchezza. La straordinaria sensibilità artistica e
l'impareggiabile tecnica segantiniana si formarono attraverso i contatti con i
movimenti artistici della Scapigliatura e del Divisionismo di cui sarà uno dei
più pregnanti esponenti, pur rielaborando poi lo stile con lunghi pennellate di
colore puro per la resa del dato naturale, percorso che si concluderà (morì
prematuramente a soli 41 anni ) con l'ideismo del Simbolismo.
La città meneghina
con la sua nascente modernità post unitaria, pur essendo stata la culla
della sua evoluzione non rappresentava il milieu ideale di Segantini, la vita
nell'urbs non apparteneva ai suoi progetti di vita, tanto che si trasferì prima
in Brianza poi definitivamente nei Grigioni. Affascinato dalle montagne le
scelse come luogo di vita, la contemplazione della bellezza delle vette, della
natura, del mondo umile
dei pastori
come quello contadino, ispirò molte sue opere che dipinse en plein air.
Le atmosfere sfumate, brumose della pianura Padana, che avevano caratterizzato
i suoi primi lavori furono abbandonate e le sue opere, sollecitate dalla sua
natura mistica e panteistica si trasformarono in inni alla montagna. Le scene del
mondo contadino non sottintendono proteste sociali, il 'solingo' pittore é
centrato soprattutto a cogliere la poesia e la spiritualità del paesaggio, lo
stretto legame tra natura e uomo, tra l'uomo e il mondo animale.
La poetica di
Segantini si é nutrita della dolce malinconia e della maestosa solitudine delle
montagne, del silenzio e degli orizzonti infiniti, tangibile in opere come in
Primavera sulle Alpi (1897), e della purezza dei colori della natura,
della limpidezza della luce abbagliante impressa in tele come in quella
divisionista di Mezzogiorno sulle Alpi (1891). I suoi paesaggi alpini, fissati
nella loro immutabilità, scandita solo dal trascorrere del tempo, delle
stagioni, trasmettono serenità e armonia come catturano i giochi di luce sulla
neve delle vette, rappresentazioni poetiche che coniugano naturalismo e
realismo pur possedendo valenze simboliche e spirituali. Ma se il paesaggio, la
natura sono i filoni preponderanti, nelle sue opere ricorrono anche tematiche
come la vita, la morte o la maternità che per il maestro é un aspetto
imprescindibile della natura femminile. Superlativo il dipinto Le due madri
(1894), manifesto del divisionismo, che accosta la maternità umana a quella
animale, in una sorta di parallelismo: una giovane contadina seduta su uno
sgabello, con in braccio il suo piccolo, addormentati, accanto una mucca con
il piccolo vitellino accucciato vicino. Nell'oscurità della stalla, la
luce dorata della lanterna illumina le figure umane e gli animali, permeando di
soffusa dolcezza l'umile scena. Sulla maternità anche quattro tele simboliste e
visionarie Le cattive madri (1896), figure sensuali imprigionate tra i
rami degli alberi di un nudo, gelido paesaggio invernale, che simbolicamente
scontano il rifiuto della maternità.
Una panoramica di
opere indimenticabili di grandissima qualità pittorica e stilistica già dalla
sezione “Esordi milanesi” con alcuni scorci del capoluogo lombardo come in Il
Naviglio sotto la neve (1879-1880) o Il Naviglio a Ponte San Marco (1880)
splendido nella luce e nella cromia del cielo. Sono di notevole espressività
gli autoritratti, che rappresentano anche il passaggio dal realismo al
simbolismo, dal primo del 1879-1880 che man mano si evolve secondo i
cambiamenti che il pittore intravede di se stesso fino a quello simbolista del
1895, dove assume un volto dalle sfumature mefistofeliche. Tra i ritratti
quello della Signora Torelli (1885-1886), scrittrice femminista e moglie del
fondatore del “Corriere della Sera”, mentre nella sezione che raccoglie i dipinti
sul mondo agreste sono esposte opere come La raccolta dei bozzoli (1890),
rappresentazione verista di un interno con alcune contadine che lavorano nella
penombra della stanza, una luce dorata proveniente dall'uscio semi aperto si
irradia sui bozzoli di seta e sulle mani delle figure femminili. Un'
atmosfera permeata di liricità e di un senso di sospensione del tempo,
ripreso anche in altre opere di Segantini. Interessante artisticamente
anche L’ultima fatica del giorno (1884) o la celeberrima Alla stanga (1885)
dalle tonalità mistiche riforzate dalla luce morente del giorno e
dal profondo senso d' infinito. Nella sezione “Natura e simbolo”,
l'opera di manzoniano ricordo Ave Maria a trasbordo (1886) che raffigura con
estremo realismo e armonia paesaggistica un pastore con famiglia e le sue
pecore su una barca mentre trasbordano sull'altra riva “nell'ora che volge al
disio”. La moglie stringe a sé il figlioletto, qualche agnellino osserva la
trasparenza dell'acqua increspata, la scena sembra sospesa nel tempo,
quasi surreale trasuda di spiritualità esaltata dalla luminosità del
tramonto.
Splendidi anche
il volto con lo sguardo stupito della compagna Bice al risveglio nel
Petalo di rosa (1890), e il dipinto dalle connotazioni simboliste e preraffaellite
“L’amore alla fonte della vita” (1896) che raffigura una coppia di
innamorati abbracciati all'interno di un paesaggio primaverile con le
vette alpine sullo sfondo. Il bianco delle vesti dei due giovani, a
rappresentare l'essenza e la purezza dell'amore, un angelo vicino alla fonte
dell'acqua che li osserva, la natura circostante che occupa un ampio spazio
nella scena, l'amore sono tutti elementi che simboleggiano l'eternità e
l'infinito. Chiude la magnifica rassegna la sezione con i dipinti di chiara
matrice simbolista Le Lussuriose (1894) o l’incompiuto trittico La
Natura, La Vita e La Morte (1896-1899).
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