Chi ha paura del presidenzialismo?, by Daniele Borioli
by Daniele Borioli (*)
Credo sia giunto il momento di provare a fare un passo
avanti nella discussione che riguarda il futuro assetto costituzionale e
istituzionale del Paese. Può sembrare un paradosso dirlo ora, nel momento in
cui così tanta carne al fuoco è già stata messa sul braciere delle riforme in
corso. Ma proprio questo è il punto da cui voglio prendere le mosse.
Credo, infatti, che il completamento di questa prima
stagione riformatrice, che mi auguro arrivi a compimento, dopo decenni di
impasse e di passi falsi, non possa essere considerato che un primo,
fondamentale step: di un
processo molto più lungo e articolato.
Un processo che dovrà necessariamente coinvolgere, in
futuro, l’assetto della giustizia, nel suo rapporto con gli altri poteri dello
Stato, la forma di Governo e le forme di articolazione del sistema dei poteri
locali, solo parzialmente toccati dalla riforma del titolo V oggi in atto.
Parto dalla giustizia, sulla quale non ho competenze
specifiche e rispetto alla quale mi limito a porre una questione di fondo.
Oggi, l’articolazione dei diversi ambiti giudiziari, penale, civile,
amministrativo, contabile, nella loro sviluppo verticale e orizzontale, per
gradi di giudizio e per organizzazione territoriale costituisce nel suo insieme
un labirintico ginepraio nel quale, alla fine, si perdono, l’efficienza del
sistema e la domanda di giustizia.
Prova migliore, in negativo, di questo poco confortante
stato è la sostanziale incapacità di far fronte a fenomeni ormai endemici nel
nostro Paese, quali la corruzione e il rapporto corruttivo tra “affari” e
pubblica amministrazione, e la diffusione ormai estesa ben oltre le aree
regionali d’origine delle diverse specie di criminalità organizzata.
Una condizione che non può non risaltare nella sua
disarmante anomalia se posta a fronte della selva di uffici, gradi e ordini di
giudizio di cui l’Italia e cosparsa e per il cui funzionamento vengono ogni
anno spese risorse ingenti, la cui efficienza in termini di risultato appare
tutt’altro che soddisfacente.
Mi astengo in questa sede dal proporre ricette e priorità,
ma mi appare evidente come questo nodo non possa non essere affrontato, anche
sul livello costituzionale, attingendo ai principi della semplificazione e di quella
uguaglianza di fronte alla legge di tutti i cittadini. Uno dei presupposti
fondanti di ogni democrazia liberale, negato nel nostro Paese dagli squilibri
che i bizantinismi del sistema determinano a favore di chi, per censo, può
consentirsi di galleggiare nel mare dei cavilli e delle paludi procedurali.
L’altro fronte riguarda l’assetto definitivo
dell’articolazione dei poteri territoriali. A cominciare dalle Regioni, toccate
nella ridefinizione delle competenze e dei poteri, in rapporto allo Stato, dalla
riforma costituzionale in cantiere, che in qualche modo costituisce un po’ un
movimento “macchina indietro”, rispetto alla precedente riforma del titolo V.
Un movimento, a mio parere, in parte sbagliato e in parte
insufficiente: tale da richiedere un successivo passaggio di precisazione, più
intensa razionalizzazione, e parziale restituzione di potere.
Certo, rimanendo inalterata l’articolazione territoriale
delle Regioni determinatasi sin dalla loro prima attuazione, e dopo il
fallimento del modello federale, naufragato tra gli scogli della propaganda
leghista e la cogenza della crisi verticale della finanza pubblica, era
difficile nel breve-medio periodo immaginare si fare qualcosa di differente da
ciò che si sta facendo.
Ma a me appare evidente che sul tema si dovrà tornare.
Personalmente, ritengo che si debba avere il coraggio di intervenire su due
punti qualificanti: la riduzione del numero delle Regioni e un ripensamento più
profondo di quello in corso sul ruolo delle autonomie speciali.
Sul primo aspetto si stanno già muovendo alcune iniziative,
che mi auguro possano procedere. Per quanto ci riguarda più da vicino,
l’accorpamento di Liguria, Valle d’Aosta e Piemonte in unico ambito regionale,
in grado di mettere insieme un fronte territoriale esteso tra le Alpi e il mare
e popolato da circa sette milioni di persone, sarebbe senz’altro utile a
razionalizzare costi e a mettere in campo una Regione in grado di avere peso
ben diverso nel rapporto con l’Europa e con lo Stato.
Analogamente, la stessa cosa si potrebbe fare per il
cosiddetto “Triveneto”, e per le altre aree dell’Italia, costituendo così un
nuovo assetto della suddivisione in regioni del Paese: dando più forza al
sistema regionale, superando in quel contesto il regime delle “specialità”, ormai
appesantito da molti elementi di anacronismo, a rilanciando in modo più
appropriato e incisivo un progetto di organizzazione federale della
Nazione.
Peraltro, attraverso questo passaggio, si potrebbe da un
lato aprire con maggiore intensità, in particolare nelle aree di confine, quel
lavoro di costruzione delle macro-regioni europee, già contemplate quale
opzione di coordinamento tra territori transfrontalieri, e dall’altro
riarticolare, dopo il superamento delle Province così come le abbiamo conosciute
sino alla riforma Delrio, un sistema di amministrazioni di area vasta più
coerente con le odierne esigenze di organizzazione di un sistema di servizi
efficiente.
Su quest’ultimo aspetto, alcuni spunti molto utili sono
forniti dagli studi recentemente prodotti dalla “Società geografica italiana”,
che ha ipotizzato la suddivisione del territorio del Paese in “dipartimenti”
definiti in base ai flussi concreti di relazioni sociali, economiche,
culturali, ecc. Secondo un modello che è stato oggetto, alcuni mesi fa di un
primo approfondimento svoltosi presso la sede della Fondazione della Cassa di
Risparmio di Alessandria.
Da ultimo, ma non per importanza, voglio aprire anche
“provocatoriamente” un tema che, a mio giudizio, è o diverrà prima o poi
ineludibile. Un tema che si è riaffacciato, seppure indirettamente, nel
dibattito in occasione delle dimissioni di Napolitano e nella riflessione su
quello che è stato il “suo” modo di interpretare il ruolo di Presidente della
Repubblica: secondo molti osservatori andato ben al di là del ruolo di “arbitro
e garante” delle regole che la Costituzione formale gli affida.
Naturalmente, non è secondario constatare come il
“protagonismo” del Presidente, rimasto comunque ben dentro i limiti che la
Carta formalmente prevede, si sia avvicinato in più di un’occasione a tali
confini anche in ragione delle inadeguatezze e alla crisi verticale che le
altre istituzioni democratiche e gran parte del sistema politico hanno
conosciuto in questi anni.
Inadeguatezze e crisi accentuate dalle difficoltà
economiche, dalla frammentazione del sistema politica, dalla mai risolta
transizione tra prima e seconda Repubblica: che solo ora, forse, cominciano ad
essere affrontate con un serio ancorché ancora incompiuto processo riformatore.
Ora, tornando a bomba sulla questione di fondo, e guardando
oltre la discussione circa il “modo” con cui Napolitano ha assolto il proprio
compito, credo si debba avere il coraggio di squarciare una volta per tutte,
anche a sinistra, il velo dell’ipocrisia e confrontarsi seriamente sull’opzione
di un passaggio, con tutte le gradualità e i contrappesi costituzionali
necessari, a un sistema che comprenda l’elezione diretta del Capo dello Stato,
secondo un modello che non ricopii, ma consideri le esperienze da decenni già in
atto in altri Paese che, certo, non hanno nulla di meno dell’Italia in quanto a
democraticità.
Naturalmente, so bene come questo orizzonte confligga con
l’impostazione di una Carta costituzionale che ha nel Parlamento e nel
parlamentarismo il suo impianto di fondo. Ma so anche bene come la
“costituzione materiale” determinatasi nel corso degli ultimi vent’anni è
andata in direzione “ostinata e contraria”.
Il primo strappo in questa direzione l’hanno dato le norme
che hanno introdotto l’elezione diretta dei Sindaci e dei Presidenti delle
Province, estesa successivamente ai Presidenti delle Regioni. Un passaggio
successivo e rafforzativo di tale direzione di marcia è venuto dai partiti
politici e/o dalle coalizioni che, in occasione delle elezioni politiche, hanno
adottato la prassi di indicare sin dalla campagna elettorale la personalità di
riferimento cui, in caso di vittoria, attribuire il compito di futuro capo del
Governo.
Un processo reso plasticamente evidente dalla scelta, in
molti casi e con non troppe eccezioni, di indicare apertamente sul simbolo e
sulla scheda elettorali il nome del “candidato premier”. Intervenendo così, qui
si in modo diretto e “costituzionalmente discutibile” su una prassi che prevede
sia prerogativa del Presidente della Repubblica incaricare e poi nominare il
Presidente del Consiglio, non in base all’esito diretto della consultazione
degli elettori, ma in virtù delle consultazioni effettuate con le forze
presenti in Parlamento.
La pagina clou di questo processo di personalizzazione della
leadership l’ha scritta il Partito Democratico che, nell’esplicitare e tradurre
in norma statutaria il proprio essere “partito a vocazione maggioritaria”, ha
stabilito l’elezione diretta, attraverso le primarie aperte a tutti i
cittadini, del proprio segretario, individuando in esso il futuro candidato
alla Presidenza del Consiglio.
La domanda è, perché non fare l’ulteriore miglio che separa
questo complesso edificio di stampo presidenziale a un modello presidenzialista
compiuto, inserito in un quadro di regole costituzionali e di contrappesi di
potere certi ed efficaci? Invece di perseguire, un po’ diabolicamente, nella
finzione?
(*) Senatore PD della provincia di Alessandria
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