L’e’ el di’ di mort, alegher!, by Dario Fornaro
by Dario Fornaro
(La recente chiusura in sordina dell’ultimo “glorioso”
calzaturificio alessandrino, ha suscitato lo sconcerto di Renzo Penna (v.”Città
Futura” e altri). Ci inseriamo nel dibattito suscitato riprendendo l’intervento
del nostro collaboratore. Ap).
Dell’editoriale di Renzo Penna (Città Futura,10.01.15)
condivido la constatazione di partenza (“Chiude l’Alexandria senza far rumore);
l’assunto che sul “declino” della città si siano spese, finora, soprattutto
generiche e polemiche considerazioni; l’auspicio, infine, che l’analisi e la
discussione dell’indubbio
arretramento socio-economico di Alessandria, prenda
quota con contributi adeguatamente formulati e documentati. Specie per quanto
riguarda il settore industriale, sospinto ormai, aggiungo, ai margini del
dibattito politico, salvo che ne offra occasione la cronaca dei malauguri.
Non mi ritrovo invece – sarà deformazione professionale – in
una sentenza sommaria e non appellabile, che definirei di disastro colposo, a
carico del tessuto umano e produttivo delle aziende locali (tipo: crisi/crollo
dell’industria alessandrina e sostanziale azzeramento delle famiglie
imprenditoriali).
Certo che se si contano semplicemente i “morti” (imprese
cessate e occupazione dispersa) in un certo arco di anni, è difficile sottrarsi
all’impressione di un sensibile calo di presenza industriale alessandrina, di
una vicenda ineluttabile che sembrerebbe tutt’ora volgere al peggio.
Ma se si tratta di una storia di elementare evidenza – quale
il fare memoria dei caduti sul campo – diventa superfluo rimuginarci sopra, riandare
alle cause, alle modalità e, perché no?, alle eccezioni che hanno determinato e
accompagnato la ristrutturazione del comparto industriale (e artigianale)
alessandrino. Ciò che appunto sta avvenendo da qualche tempo e che
conduce al “pensiero debole”: bella l’industria, ma non è fatta per noi (o noi
non siamo fatti per lei), ergo cerchiamo altrove, magari nel gran mare del
terziario di fortuna, le vie del riscatto.
Che se invece volessimo esplorare questo fenomeno (robusta
ristrutturazione industriale, lungi però dalla ventilata desertificazione),
dovremmo rifarci ad una serie di premesse, criteri e dati che preludano ad una
decorosa risposta ai canonici tre “dove”: da dove veniamo, dove siamo,
dove stiamo andando o potremmo andare.
Provo ad esplicitare, in ordine sparso, alcune questioni
preliminari alla sbrigativa dichiarazione d’emergenza a carico
dell’industria, assunta con mutuo riferimento al “piove sul
bagnato” del dissesto comunale.
Attitudine al confronto – Per sentirsi particolarmente
maltrattati dalla sorte, in periodi di crisi generalizzata, occorrerebbe
attivare confronti con territori e comunità di consimili caratteristiche (se ne
possono enumerare almeno mezza dozzina solo tra Piemonte e bassa Lombardia) per
capire se e dove, in uno stesso intervallo di tempo, la crisi ha colpito
l’industria con speciale durezza, atteso che vittime illustri, per storia e/o
dimensioni , se ne contano dappertutto.
Dimensione adeguata – Circoscrivere la
valutazione di un fenomeno economico entro i confini del comune capoluogo
può essere fonte di mal intendimento ove, come spesso accade, il centro, il
comune maggiore (es. Alessandria) abbia nel tempo generato, per motivi fiscali
(aree depresse) o urbanistici, una corona di minori comuni-satellite interessati
da episodi di rilocalizzazione, o nuovo insediamento, di matrice chiaramente
derivata (vedi da ultimo l’area produttiva di Castellazzo contermine a
Cantalupo). Non tener conto di questa dimensione “comprensoriale” (tipica del
settore industriale) può indurre elementi di pessimismo non completamente
giustificati dalla realtà dei fatti.
Dati: carenze e supplenze – Quando le statistiche sono
parziali (o carenti)e i dati indisponibili o di difficile rintraccio, è
giocoforza, per chi voglia trarre giudizi complessivi, affidarsi al “lume di
naso” e/o alle notizie di cronaca della stampa che, di natura, tendono a
privilegiare gli episodi di crisi, con relativi riflessi sociali,
rispetto alla pur faticosa continuità. In tal senso è molto difficile
contrappore, sull’ipotetica bilancia, al piatto dei necrologi il piatto delle
nuove aziende ( di nome o sigla normalmente ancora sconosciuti al pubblico)che
muovono i primi passi concreti. Non che di questi tempi si possa mai pensare di
riequilibrare, pescando nuovi dati, la situazione di disagio (o disastro, come
qualcuno preferisce) industriale, ma una migliore conoscenza della realtà
aiuterebbe alquanto a orientare, extra depressione, le azioni
politico-amministrative in campo economico.
Questione di settori produttivi – Per giungere
sollecitamente dalle singole crisi aziendali ad un mesto giudizio negativo
sull’intero andamento industriale, vengono spesso trascurate, o date per
risapute – anche se in materia i dati traboccano dalle pagine economiche – le connessioni
strette, e talora drammatiche, degli eventi locali con le vicende più generali
dei vari settori produttivi. Sembra darsi per scontato che una viva e vitale
capacità imprenditoriale dovrebbe, ove presente, trovare la via per
superare anche le sfide più assillanti, o uscirne con danni circoscritti. Non è
così. In presenza di crisi di settore devastanti – per crollo di domanda
e/o drastiche concentrazioni d’attività – la sopravvivenza dell’azienda finisce
per essere più l’eccezione che la regola (certe situazioni di asfissia non le
capovolge neanche Mandrake!). Gli esempi alessandrini rimandano subito, per
esempio, alle storie dell’argento (vasellame, posateria) e del comparto
calzature-pelli (scarpe, cinturini). Vedi, volendo, alla voce “destino cinico e
baro”.
La diversificazione – Una maggiore attenzione ai settori
richiamerebbe, per un verso, l’attenzione sul tasso di “diversificazione
produttiva”, considerato risorsa anticiclica, ancora presente nel panorama
industriale alessandrino, e consentirebbe, per altro verso, di
evidenziare anche i comparti che “tengono”, nonostante tutto (settore
chimica-gomma-materie plastiche e rispettive qualità tecnico-gestionali), e che
possono per ciò stesso moderare, almeno pro-tempore, il pessimismo dilagante.
Ho annunciato prima “alcune questioni preliminari”, da
riprendere eventualmente in seguito, e qui mi fermo. Resta la strana
titolazione di questa nota. Giacché il riferimento poetico alle lapidi di Spoon
River l’avevo già impiegato in recensione (Riv.CCIAA-AL, 02/13) del volume “Il
lavoro perduto – Fabbriche chiuse 1970-90”, di Paola Giordano e Grazia Ivaldi
(Ed. Camera del Lavoro AL, 2012), mi è sembrato, ove si possa mai
immaginare un “filone del cordoglio” tra gli storici alessandrini dell’economia,
di poter scomodare, con innocente colpo di memoria, la sapida raccolta di
versi del poeta meneghino Delio Tessa (1886-1939).
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