Barbara Rossi - Film





La corrispondenza (Giuseppe Tornatore, Italia, 2015)
by Barbara Rossi
Chi è realmente Ed Phoerum - Jeremy Irons? O meglio: chi è stato, e chi ancora continua ad essere, in quel dedalo a tratti ingannevole e depistante che è il sentimento amoroso.
«Non puoi lasciarmi in un labirinto senza via d’uscita!», protesta Emy Ryan-Olga Kurylenko, che lo ama nella rarefazione dei loro appuntamenti clandestini, dentro la virtualità di un sms, di un collegamento via skype, di un numero imprecisato e potenzialmente infinito di mail, sottoposti - come la maggior parte delle epifanie di Ed - alla legge della sincronicità e insieme misteriosi come quell’universo di cui lui, da astrofisico, sembra conoscere i segreti. 
Ipernove tramontate da miliardi di anni ma la cui luce è ancora viva, la nebulosa del Granchio, che ha la stessa forma dell’astrocitoma - un raro tumore cerebrale - di cui Ed soffre, un piccolo granchio nelle mani sorprese di Emy; teoria delle stringhe, universi paralleli e una serie limitata di doppi, di replicanti, la cui contemporanea esistenza azzera le più consolidate leggi della fisica. 
In questo gioco tra filosofia e scienza, tra terreno e immateriale, in cui la domanda cardine riguarda la tangibilità di ciò che pare esistere solo nella trasparenza di un’immagine video, e la posta in gioco è la sopravvivenza di un rapporto d’amore al di là della finitezza del tempo umano, Ed, Emy, la stessa storia del loro legame in absentia ma più palpabile di tanti altri, sono fantasmi, in senso etimologico: cioè apparizioni, manifestazioni del possibile, eterni proprio in virtù del loro travalicare la soglia di ciò che noi chiamiamo reale.
Dopo le ambigue derive dell’umano ne La migliore offerta, Tornatore firma un racconto atipico d’amorosi sensi (a dispetto della convenzionalità dell’assunto di partenza, l’estremo tentativo di accudimento da parte di chi se ne va nei confronti di chi rimane, e della retorica di alcuni dialoghi), riflettendo su destino, coincidenze significative, distanze siderali e vicine lontananze, nel tempo non cronologico di ciò che noi chiamiamo amore. 

«Del resto c’è una logica in tutto. Per quanto ne so, al momento della nascita ogni essere umano possiede la virtù dell’immortalità. Tu dirai: “Ma poi muoiono”. Sì, perché nel corso della loro esistenza commettono un errore fatale, uno soltanto, che gli fa perdere la dote della vita eterna. […] Io il mio errore l’ho capito. Nessuno ci riesce, io sì. Il mio errore è stato non averti incontrata prima».                             



Revenant - Redivivo (The Revenant, Alejandro González Iñárritu, Usa, 2015)
by Barbara Rossi
“Solo quando ci siamo perduti, in altre parole, solo quando abbiamo perduto il mondo, cominciamo a trovare noi stessi, e a capire dove siamo, e l'infinita ampiezza delle nostre relazioni”.
(Henry David Thoreau, Walden ovvero Vita nei boschi)
E’ un uomo perduto, Hugh Glass, il trapper americano interpretato da un Leo Di Caprio profondamente mutato in fisico e fattezze, cui la finalmente raggiunta maturità anagrafica e l’esperienza d’attore hanno regalato forza espressiva, autorevolezza; quasi sventrato dall’assalto di un grizzly, tradito e abbandonato dal gruppo di cacciatori di pelli di cui faceva parte - e, in particolare, dal cinico e depravato John Fitzerald - sfiancato dalla febbre, dalla fame, dal tentativo di sottrarsi alla ferocia degli indiani Ree e di altri come loro. 
Per una serie di tragiche coincidenze si trasforma, insomma, in un revenant: termine che etimologicamente fa riferimento a chi ritorna dopo una lunga assenza, ma anche - qui non a caso - alla figura dello spettro, di chi non appartiene più al mondo dei vivi. Revenant, nella letteratura e nel cinema del fantastico, serve ad indicare il non morto, o morto vivente. 
Hugh Glass è proprio questo, e così tutte le pallide e stanche ombre - uomini e animali - che si trascinano, soffrono, muoiono malamente nei gelidi e arcigni territori del Sud Dakota, nel 1823.
Il film del messicano Iñárritu - reduce dall’Oscar per il surreale Birdman e conosciuto nel mondo per le sue cinematografiche riflessioni su destino, trascendenza e relazioni, sin dai tempi di Amores Perros, 21 grammi e Babel - è l’ultimo capitolo di un viaggio spesso straniante intorno e dentro l’uomo, le luci e ombre del suo cuore, le sue capacità di sopravvivenza fisica e spirituale in un mondo
ostile, ambiguo, dominato dall’odio e dalla violenza.   
Non c’è soverchia tenerezza neppure nel cuore di Glass, soffocata da un insostenibile dolore paterno eppure ricorrente nei sogni, nelle allucinazioni, echi di una dimensione mitica e nostalgica di cui gli indiani Pawnee sono rimasti gli unici custodi; eppure sopravvive un gesto minimo di rispetto e ringraziamento per un cavallo che, inconsapevolmente, gli ha salvato la vita. Eppure, alla fine Glass riesce a far suo il motto di un indiano amico: “la vendetta è nelle mani di Dio”.
Visionario ma anche estremamente materico, Revenant immerge lo spettatore nelle acque gelate di fiumi e torrenti, nella desolazione di foreste sterminate, nel lucore accecante di nevi perenni, tramite ampie panoramiche, disorientanti carrellate circolari e riprese dal basso, campi lunghissimi, a rappresentare la solitudine e piccolezza della condizione umana.   
Di Caprio è il film; tutto ruota, anche figurativamente, intorno a lui, compresa un’inquadratura finale che non sveliamo. 
A parte alcune (poche) banalità estetiche, dovute probabilmente a intenti di maggiore realismo, Revenant è una pellicola di grande impatto emotivo e narrativo, supportata da una regia che ha lavorato in condizioni ambientali estreme, utilizzando per le riprese la sola luce naturale. 
A contatto con la durezza disperante di una storia che lascia esiguo spazio alle illusioni, torna alla mente una frase da Walden, vita nei boschi, di Thoreau: “Non l'amore, non i soldi, non la fede, non la fama, non la giustizia... datemi solo la Verità”. 



Macbeth (id., Justin Kurzel, GB, 2015)
by Barbara Rossi
“Fair is foul, and foul is fair”. “Il bello è brutto, il brutto è bello”.
(Macbeth, atto primo, scena prima)
“So foul and fair a day I have not seen”. “Non avevo mai visto un giorno cosi' bello e brutto allo stesso tempo”.
(Macbeth, atto primo scena terza)
Un bambino che si perde nello sterminato oceano del Tempo; un bambino che del Tempo si nutrirà, per divenire Re. 
In mezzo a questi due piccoli fiori di candore, di tristezza e speranza, si snoda la tragedia del Bardo, riproposta con estetica moderna e classico rigore filologico dall’australiano Kurzel, in concorso a Cannes 2015. 
Quello della traduzione intersemiotica (dalla letteratura teatrale, in questo caso, al cinema) è spesso un falso problema; i codici comunicativi sono differenti, e a nulla porterebbe l’accanimento comparatorio, se non a un vuoto esercizio di stile. 
Il cinema, per l’intento espressivo che ne sta alla base, è altro, sia rispetto alla letteratura che al teatro.
Nondimeno, l’adattamento di Kurzel è uno tra i più fedeli, completamente immerso nella poesia torbida e oscura del testo shakespeariano.
I tre altissimi precedenti quest’ultimo adattamento - le pellicole di Welles, Kurosawa e Polanski - non scalfiscono minimamente con il peso della loro eredità il talento visionario e l’afflato narrativo del regista, deciso a restituire con puntigliosa passione tutto l’empito dei versi shakespeariani, tramite espedienti - soprattutto visivi - che rendano questa versione, a sua volta, unica. 
Per questo Kurzel imbastisce un film corpulento - che a tratti appare più denso del testo da cui è tratto - espressionista, ridondante, inzuppato nel rosso del fuoco e del sangue, raggelato nel biancore di una nebbia traditrice e funesta, dove lo slow motion, il montaggio alternato e la sottolineatura musicale incessante fungono da rinforzo - se mai ce ne fosse bisogno - al dispiegarsi della tragica follia di Macbeth.
Cercando un trait d’union con la storia dei nostri giorni, Kurzel definisce il suo re sanguinario come «un guerriero che ha perso un figlio. In guerra ha visto cose terribili ed è tormentato. Abbiamo parlato con diversi soldati tornati dal fronte: i loro demoni vengono a galla come le streghe di Macbeth. Gli eventi del passato, gli orrori di cui sono stati testimoni, ritornano in qualsiasi altro momento della vita».
Il valore universale dell’assunto passa attraverso i volti e i corpi di due rappresentanti dell’olimpo divistico contemporaneo, Michael Fassbender e Marion Cotillard, che per l’occasione si trasformano in maschere demoniache e funeree insieme, classicamente perfette: il primo perduto nell’ombrosità come nell’assenza dello sguardo e del gesto, la seconda ieratica e smarrita nella glacialità inconsueta di una Lady Macbeth atipica ma intensa. 
Una pellicola all’insegna della perfezione e della correttezza traspositiva, dunque, a parziale detrimento dell’emozione. 
La tragedia per eccellenza, magnificamente filmata, di due cuori pieni di fumo e caligine, per cui “la vita e' solo un'ombra che cammina, un povero attore che si pavoneggia e si dimena durante la sua ora sul palcoscenico, dopodiché non si sente più nulla. Una favola narrata da un idiota, piena di rumore e furia, che non significa nulla”.       


     
Irrational Man (id., Woody Allen, 2015)
by Barbara Rossi
“L’assassinio come una delle belle arti”. Chissà se Abe Lucas, il professore di filosofia in piena crisi esistenziale per buona parte dell’ultimo film di Allen, in un’ipotetica variante della storia avrebbe amato e preso a modello questo ottocentesco saggio dello scrittore inglese Thomas De Quincey, che con gusto macabro e ironico insieme attribuisce all’omicidio un valore estetico.
Abe è un uomo qualunque, un intellettuale appartenente alla middle class americana, che ha visto repentinamente tramontare speranze e ideali, pubblici e privati, nel generale crollo di ogni apparentemente granitica certezza. Rientra, perciò, a pieno titolo nella vasta galleria alleniana dei disadattati, dei nevrotici, degli sconfitti, i cui vacui tentativi di riscatto risultano inevitabilmente, nel destino già segnato delle cavie di laboratorio, disperati ed estremi.
Il Lucas reso con sguardo assente e seducente pinguedine da Joaquin Phoenix è una terrificante mistura di accidia e feroce intraprendenza, di abulia e schopenhaueriano vitalismo, di impotenza e lussuria.
Del tutto privo di fede in un salvifico trascendente, come lo Stanley Crawford protagonista di Magic in the moonlight, ma a differenza di quest’ultimo non pacificato dall’incontro con un autentico sentimento amoroso, Abe illustra scetticamente ai suoi studenti perfino le grandi costruzioni del pensiero, mettendone in luce contraddizioni e aporie. 
La sua solitudine esistenziale, il suo gelo interiore, non scalfiti neppure dall’attrazione che senza volerlo affatto riesce a suscitare rispettivamente in una collega e in una studentessa (una Jill Pollard-Emma Stone sempre più icona alleniana, sospesa tra innocenza e malizia) del campus dove insegna, non possono che trascinarlo sull’orlo del baratro, e anche oltre.
Se dio è morto, se l’inferno sono gli altri, se a nulla valgono gli imperativi morali kantiani, l’unica cura per il male di vivere è la pratica dell’omicidio, concretizzata con infantile entusiasmo e giustificata nel suo costituire l’extrema ratio di un universo senza senso alcuno, dominato soltanto dalle irridenti leggi del Caso. 
Vicina all’impostazione da tragedia greca di Crimini e misfatti e Match Point, ma - se possibile - con ancora maggiore, desolata ironia, Irrational Man è una commedia nera forse meno riuscita di altre prove alleniane, che mira in ultima istanza a confermare il vecchio assunto di un altro grande pessimista del cinema mondiale, Stanley Kubrick: «La cosa più terrificante dell'universo non è la sua ostilità ma la sua indifferenza; se riusciamo però a venire a patti con quell'indifferenza e ad accettare le sfide della vita entro i limiti mortali - per quanto sia in grado di fare l'uomo volubile - la nostra esistenza in quanto specie può avere un senso e un compimento reali. Per esteso che sia il buio, dobbiamo fornire noi le nostre luci». 

              
  
Star Wars - Il risveglio della forza (Star Wars: The Force Awakens, J.J. Abrams, 2015)
by Barbara Rossi
Ipercinetico, ipertecnologico, citazionista, autoreferenziale: questo episodio settimo della mitica saga nata dalla fantasia di George Lucas - costola laterale che prende l’avvio una trentina d’anni dopo rispetto le vicende narrate ne Il ritorno dello Jedi (1983) - è un esempio fecondo di metacinema, di un dispositivo cinematografico capace di ripartorirsi e rifondarsi a ogni proiezione, riflettendo più o meno consapevolmente sui suoi ingranaggi di base.
Siamo lontani, probabilmente, è vero - come hanno sottolineato alcuni critici - dall’originalità del costrutto narrativo ed estetico posto in essere da Lucas agli esordi della saga, un rischio più che presente in un’opera seriale come questa, che ha ormai colonizzato in via definitiva l’immaginario popolare a cavallo tra più generazioni. Non c’è dubbio, del resto, che Star Wars - come tutte le mitologie che si rispettano in un’epoca, come la nostra, dominata dalla commercializzazione mediatica dell’immagine - abbia ampiamente travalicato i confini dello schermo, trasformandosi in packaging, oggetto di consumo declinato in manufatti differenti, quindi parzialmente svuotato della sua carica semiotica originaria.
Eppure, fin dalle prime inquadrature di quest’ultimo Il risveglio della forza, veniamo rapiti dalla storia, che fa confluire personaggi-simbolo (vedi l’Han Solo di Harrison Ford, con il fedele Chewbacca e l’astronave Millennium Falcon, illustre rottame della saga, la principessa Leia di Carrie Fisher, il droide C-3PO, con la promessa del ritorno di Luke Skywalker-Mark Hamill) con protagonisti nuovi, primi fra tutti Finn, uno stormtrooper, Rey, che in attesa del ritorno della sua famiglia vende rottami, e l’ambiguamente fragile Kylo Ren, sedotto dal Lato Oscuro ma figlio di Han Solo e Leia.
Abrams dirige con dovizia di mezzi tecnici e mano sicura il primo di tre nuovi episodi del ciclo, senza nascondere l’obiettivo principalmente commerciale dell’operazione, ma anche senza sacrificare il fascino della narrazione sull’altare del profitto.
Star Wars - Il risveglio della forza è all’altezza delle aspettative dei fan più esigenti: seduce, cattura con la forza degli eventi, dei personaggi e, soprattutto, delle immagini. 
A partire, ovviamente, da quell’ormai leggendario spazio nero stellato, su cui scorre in sovrimpressione l’antefatto della storia, accompagnato dalla mitica colonna sonora originale di John Williams. 



Il ponte delle spie (Bridge of Spies, Steven Spielberg, 2015)
by Barbara Rossi
“Homo sum, umani nihil a me alienum puto”. L’avvocato James B. Donovan - portato sullo schermo con la consueta perizia e sicurezza d’attore da un Tom Hanks cui gli anni regalano alla sua figura di divo della porta accanto, incarnazione delle più salde virtù americane, sempre maggiore spessore e credibilità - avrebbe potuto benissimo far suo questo motto del poeta latino Terenzio.
Perché l’autentica storia, realmente accaduta all’epoca della Guerra Fredda, raccontata da Il ponte delle spie non è tanto quella rientrante nel genere spionistico alla John le Carré, quanto quella che registra la coraggiosa esperienza di un uomo che in un momento storico così simile al nostro, scandito da divisioni ideologiche, geografiche, sociali, scelse di considerare il presunto avversario prima di tutto un suo simile, non un nemico. Dunque, meritevole di rispetto e di stima, a prescindere dal suo ruolo all’interno della società. 
Il regista Spielberg, non nuovo alle narrazioni che focalizzano l’attenzione su determinati segmenti della storia del secolo scorso - specie americana, da Salvate il soldato Ryan a Il colore viola, Amistad e Lincoln - mette in luce ancora una volta, dopo la figura dell’Oskar Schindler di Schindler’s List, la personalità unica di un uomo per cui una singola vita umana vale, pur nei suoi lati oscuri e contraddizioni, molto più del sentimento di appartenenza a qualsiasi schieramento.
Il ritmo del racconto è serrato, soprattutto nella seconda parte, in cui è una città di Berlino colta nelle prime fasi di innalzamento del Muro, immersa in un grigiore livido e spettrale, a fare da sfondo al tentativo di mediazione portato avanti da Donovan. 
Tom Hanks è un James Donovan sagace ma dagli accenti umanissimi, tormentato dal raffreddore perché, mentre vaga per Berlino Est, gli viene sottratto il cappotto, che desidera concludere in fretta lo scambio tra i prigionieri americani e quello sovietico per poter fare ritorno a casa. Degno di menzione, per la misteriosa e felpata ambiguità che regala al suo personaggio, anche Mark Rylance, nei panni della presunta spia Rudolf Abel. 
Elegantemente hitchcokiana la scena in cui Spielberg, nel finale, ci mostra il meccanismo del ricordo, evocando per analogia, attraverso lo sguardo di Donovan rivolto a dei bambini che scivolano giù da una rete di recinzione, il disperato tentativo di fuga dei berlinesi separati dal Muro.

Un film ben orchestrato, dal monito potente per un nuovo umanesimo.  


'Le voci di Pasolini'
... Era un poeta e raccontava la vita sua e anche la nostra, ma era troppo diverso e la paura ci ha armato la mano...Non avremo pace fino a che non ricorderemo quello che raccontava... Dobbiamo ricordare le parole che diceva..."  (Davide Toffolo, 'Intervista a Pasolini')
L’associazione La Voce della Luna, in collaborazione con Fili, Laboratorio filosofico permanente  presenta:
LE VOCI DI PASOLINI con GUIDO HARARI
autore di "Pasolini-Bestemmia" (Edizioni Chiarelettere)
Nella ricorrenza dei quarant’anni dalla scomparsa di Pier Paolo Pasolini, una serata per ricordare il poeta, il regista, l’intellettuale, tra immagini e conversazioni aperte al pubblico. 
Costo di partecipazione: 10 euro, comprensivi di apericena e tesseramento alla Voce della Luna*.
Martedì 1 dicembre, a partire dalle ore 20 presso la Casa di Quartiere via Verona 116, Alessandria,
Barbara Rossi, Associazione La Voce della Luna,  Alessandria 
Per informazioni:



Daria Colombo inaugura la Festa del Pensiero-Le radici del cielo
Alessandria: Sono lieta di invitarVi alla I edizione de la Festa del Pensiero - Le radici del cielo (16 - 20 settembre 2015), che l'Associazione Fili - Laboratorio Filosofico Permanente, in collaborazione con l'Associazione di cultura cinematografica e umanistica La voce della luna e altri soggetti ed enti del territorio organizza nella città di Alessandria.
La Festa del Pensiero è una manifestazione culturale e formativa, un festival della riflessione, della parola, dei linguaggi dell’arte, della comunicazione e dello spettacolo, con eventi aperti a tutti e per ciascuno.
È organizzata dall’Istituto di Istruzione superiore Saluzzo-Plana e dall’associazione Fili - Laboratorio Filosofico Permanente, con il patrocinio del Comune e della Provincia di Alessandria, e l’aiuto di un network di scuole, soggetti e associazioni del territorio.
Il tema di quest’anno è "Le radici del cielo": storie di vita, culture, lingue, tradizioni, paesaggi, cibi e convivialità, ovvero tutto ciò che può essere riconosciuto come fondamento al «cielo» delle idee, dei valori, delle filosofie e delle arti.
Inoltre, come anteprima della Festa, nella giornata di mercoledì 16 settembre, alle ore 21.00, presso il Cortile della Libreria Fissore, La Voce della Luna organizza la presentazione del nuovo libro di Daria Colombo, Alla nostra età, con la nostra bellezza, romanzo che parla del coraggio e della libertà delle donne, della loro forza e capacità di cambiare le situazioni. Dialogano con l'Autrice Mimma Caligaris, de "Il Piccolo" e Barbara Rossi. 
Se desiderate avere maggiori informazioni sulla Festa del Pensiero, sul programma, e su tutti gli eventi previsti dal 16 al 20 settembre, Vi suggerisco di consultare la pagina Facebook dedicata, al seguente link: 
Un caro saluto a Tutti, con la speranza di incontrarVi a settembre,
Barbara Rossi      
1992. È in ritardo, quel giorno, Alberta. La frangia sugli occhi e il giaccone militare addosso, ha l’aria agguerrita mentre si avvicina all’entrata dell’università Statale di Milano. Lì uno sguardo la cattura: è quello di una donna più grande di lei, Annalisa, totalmente fuori contesto nei suoi vestiti eleganti e coi capelli freschi di piega. Poche parole e un sorriso. Ma a volte l’amicizia di una vita può nascere così, da un banale scambio di appunti. Loro sono due donne agli antipodi: Albi ha l’idealismo dei vent’anni, è sicura di sé e prende tutto ciò che vuole, Lisa invece è timida, madre di un’adolescente scontrosa, moglie di un uomo anaffettivo e forse ha ripreso a studiare per noia. Tra giornate spese sui libri e caffè rubati alle rispettive esistenze, le amiche si ascoltano, si capiscono e cambiano, condividendo via via anche l’insofferenza per il clima politico di quegli anni. Sono insieme il giorno del 1994 in cui Milano si riempie di ombrelli colorati, in un grande corteo contro la Destra al potere. Poi ancora, nel 2007, a volantinare per il nuovo partito che incarnerà la speranza. Nel frattempo sono cresciute. Con matrimoni in crisi, figli che se ne vanno e bambini appena nati, con qualche compromesso ma la forza di sempre. Perché Albi e Lisa, nonostante le delusioni, le battaglie perse e le ferite, non si lasceranno più. E ognuna a modo proprio, alla sua età e con la stessa bellezza, continuerà a lottare.  

Daria Colombo, art director e giornalista, ha dato vita al movimento dei Girotondi a livello nazionale ed è impegnata in numerose iniziative di solidarietà. È sposata con Roberto Vecchioni, con il quale collabora da oltre vent’anni. Ha pubblicato Meglio Dirselo (Rizzoli 2010), disponibile in Bur, con cui ha vinto il premio Bagutta Opera Prima. 



Rossi: Anna Magnani, un’attrice dai mille volti tra Roma e Hollywood
by Pier Carlo Lava
Alessandria, intervista a Barbara Rossi, autrice del libro: “Anna Magnani, un’attrice dai mille volti tra Roma e Hollywood” Queste le domande:
Partiamo dal titolo del tuo libro, “Anna Magnani: un’attrice dai mille volti”. Noi spettatori ricordiamo la Magnani soprattutto per alcuni ruoli che le hanno regalato il successo internazionale: la popolana di “Roma città aperta” di Rossellini, la madre ambiziosa di “Bellissima” di Visconti… perché, allora, tu parli di “un’attrice dai mille volti”?
Tu parli nel tuo saggio di una unicità della Magnani rispetto alle attrici italiane che sono comparse sullo schermo prima e dopo di lei. In cosa consiste questa differenza tra Anna e le altre?
Nel tuo libro ti concentri sulla cronaca, anche giornalistica, degli anni americani di Anna Magnani, e sull’analisi dei film hollywoodiani. Che cosa ti ha interessato di questa fase della sua carriera?    
C’è un aneddoto legato alla Magnani degli anni hollywoodiani che ci puoi raccontare?

Quale tra i film americani ti è piaciuto di più e perché?


Barbara Rossi, Anna Magnani: Mi incantavo a guardare i suoi film
by Pier Carlo Lava
Barbara Rossi è Presidente de 'La voce della luna', un Associazione che ha l’obiettivo di promuovere la cultura cinematografica, letteraria, filosofica ed artistica, proponendosi come luogo di incontro e di aggregazione nel nome di interessi culturali ed assolvendo alla funzione sociale di maturazione e crescita umana e civile, attraverso l'ideale dell'educazione permanente. L’abbiamo incontrata per un intervista a seguito dell’uscita del suo libro “Anna Magnani: un’attrice dai mille volti tra Roma e Hollywood” (Edizioni Le Mani, Recco, 2015), che racconta una complessa figura di donna e di attrice, con particolare riguardo all’esperienza hollywoodiana. Queste le sue risposte alle nostre domande:
Partiamo dal titolo del tuo libro, “Anna Magnani: un’attrice dai mille volti”. Noi spettatori ricordiamo la Magnani soprattutto per alcuni ruoli che le hanno regalato il successo internazionale: la popolana di “Roma città aperta” di Rossellini, la madre ambiziosa di “Bellissima” di Visconti… perché, allora, tu parli di “un’attrice dai mille volti”?
R. Perché effettivamente Anna è stata un’attrice dai mille volti: pensiamo agli esordi teatrali, a quella parte della sua carriera che ha dedicato alla rivista, agli spettacoli in duetto con Totò. Si tratta di una fase che noi abbiamo in parte dimenticato, forse perché oscurata dai ruoli cinematografici di Anna; pensiamo alle parti di mamma tragica, a “Roma città aperta” di Rossellini e a “Mamma Roma” di Pasolini, ruoli con i quali si è fortemente identificata, ma che hanno fatto passare in secondo piano i suoi esordi teatrali e anche il tentativo compiuto dall’attrice di portare alla luce diversi volti di sé valicando l’oceano e andando a lavorare in un contesto produttivo totalmente diverso da quello italiano.
Volti che a Hollywood la Magnani è riuscita a far emergere?
R. Soltanto in parte. Bisogna tener conto del fatto che lo star system hollywoodiano dell’epoca era piuttosto rigido: di conseguenza, a parte il primo film girato negli States, “La rosa tatuata”, con cui vince l’Oscar, la Magnani si trova, a lungo andare, nuovamente costretta in ruoli piuttosto stereotipati e dunque decide di concludere prematuramente l’avventura americana.     
So che il tuo libro è il frutto di un lungo percorso di studio e di ricerca sulla figura di Anna Magnani: come e quando è nato in te l’interesse per questa attrice?
R. L’interesse per la figura di Anna Magnani è nato sin da quando ero ragazzina, e mi incantavo nel guardare i suoi film. Poi, nel corso del tempo e a partire dagli studi universitari ho avuto modo di conoscerla meglio, di approfondire la conoscenza dei suoi ruoli, del suo essere un’attrice e un’artista a tutto tondo, dalla straordinaria personalità.   
Tu parli nel tuo saggio di una unicità della Magnani rispetto alle attrici italiane che sono comparse sullo schermo prima e dopo di lei. In cosa consiste questa differenza tra Anna e le altre?
R. La Magnani inizia la sua carriera cinematografica nel 1934, con “La cieca di Sorrento” di Nunzio Malasomma: all’epoca, trionfavano sugli schermi le dive del cinema di regime, che senza dubbio non possedevano la fisicità e il magnetismo, la forza espressiva di Anna. In seguito, quando l’astro della Magnani inizia a declinare, sul finire degli anni cinquanta, vanno di moda le “maggiorate” come la Loren, la Mangano o la Lollobrigida: dive straordinarie, provenienti dai fotoromanzi o dai primi concorsi di bellezza, ma senza dubbio altro rispetto a “Nannarella”. Eduardo De Filippo diceva che «Anna è un animale di cinema e di teatro che non si avrà mai più». Era unica, appunto.  
Nel tuo libro ti concentri sulla cronaca, anche giornalistica, degli anni americani di Anna Magnani, e sull’analisi dei film hollywoodiani. Che cosa ti ha interessato di questa fase della sua carriera?
R. Si tratta di una fase poco studiata, nonostante le abbia fruttato un Oscar, prima attrice italiana a riceverlo nell’intera storia del premio. Qui in Italia, conquistati dai ruoli che hanno contribuito a far conoscere la Magnani anche oltreoceano, in film quali il già citato “Roma città aperta”, “L’onorevole Angelina” di Zampa e “Bellissima” di Visconti, abbiamo un po’ trascurato ciò che ha realizzato altrove. Eppure, è proprio dalla lettura delle cronache giornalistiche dell’epoca che la riguardano, come del ricco epistolario con i grandi produttori e registi americani che emergono i mille volti di Anna. Un’attrice istintiva nella recitazione, ma anche estremamente pignola e precisa nella preparazione a un ruolo: era capace di ricordare alla perfezione ogni singolo passaggio del copione. Mi ha molto colpita, inoltre, nella ricostruzione degli anni americani, la sua intenzione di dedicarsi alla regia, di passare dietro la macchina da presa, proposito inconsueto, in quel periodo, per un’attrice, e che la dice lunga sul suo straordinario talento.            
C’è un aneddoto legato alla Magnani degli anni hollywoodiani che ci puoi raccontare?
R. Di aneddoti ce ne sarebbero tanti. Ma ne ricordo uno, in particolare, legato alla figura di Marlon Brando. Brando e Anna si incontrano sul set di “Pelle di serpente”, di Sidney Lumet, l’ultimo film americano della Magnani, e fanno scintille. Sono due divi profondamente diversi fra loro, per carattere e modo di recitare: per questo passano tutto il giorno a litigare. Un giorno Marlon va nel camerino di Anna con un’aria torva: «Tu sei molto più forte di me, tu vinci sempre», le dice. Anna risponde serafica: «Tu non sai, Marlon, quante volte ho perso nella mia vita. Ma perdere ogni tanto fa bene. Farebbe bene anche a te».   
Quale tra i film americani ti è piaciuto di più e perché?
R. Ho amato tutti i film hollywoodiani della Magnani, ma in particolare “La rosa tatuata” di Daniel Mann, con cui ha vinto l’Oscar: qui, la particolare alchimia creatasi sul set con il regista e con Burt Lancaster, ha permesso ad Anna di uscire almeno in parte dallo stereotipo in cui molti ruoli italiani l’avevano costretta. Amo molto anche “Pelle di serpente”, il suo terzo e ultimo film americano: una storia tragica scritta per la Magnani ancora una volta da Tennessee Williams, la riproposizione in chiave moderna del mito di Orfeo ed Euridice. Un film drammatico, estremo a tratti, ma in cui possiamo godere dell’interpretazione di due grandi divi internazionali.     
Che cosa pensi che rappresenti Anna Magnani per le generazioni che hanno avuto modo di conoscerla direttamente e per quelle più giovani?
R. Per quanto riguarda le prime, credo che Anna Magnani abbia rappresentato il simbolo della ricostruzione dopo la tragedia della seconda guerra mondiale; in particolare, ha incarnato tutte quelle donne che con il loro duro lavoro quotidiano hanno riedificato, mattone dopo mattone e dal basso, il nostro Paese, lottando nello stesso tempo per far quadrare il bilancio familiare e crescere i figli. Le giovani generazioni, invece, sfortunatamente la conoscono meno: forse hanno nella memoria quella caduta mortale della Pina sul selciato di via Montecuccoli, a Roma, che grazie al film di Rossellini ha reso la Magnani un simbolo e un’icona. Ma Anna è stata ed è molto altro, sia dal punto di vista artistico che umano: come tutti i grandi artisti, un’opera aperta, con ancora molto da raccontarci.       
Per quale motivo sia i lettori giovani che quelli meno giovani dovrebbero acquistare il tuo libro? 
R. Da lettrice, penso che il mio libro possa interessare le giovani generazioni per l’opportunità che offre di scoprire un’attrice e una donna che non appartiene al loro immaginario; per quanto riguarda la generazione più matura, credo che contribuisca a rievocare due mondi artistici che ci hanno fatto egualmente sognare: quello di Cinecittà negli anni Cinquanta, degli attori italiani venuti dal teatro e poi passati al grande schermo, da Totò ad Aldo Fabrizi, da Carlo Campanini ad Ave Ninchi; e quello hollywoodiano degli stessi anni, frequentato da star del calibro di Bette Davis, Ava Gardner, Joan Crawford, Marlon Brando, Burt Lancaster e molti altri.
Che insegnamento potrebbero trarre i giovani da questo libro?
R. Se di insegnamento possiamo parlare, credo che possa derivare non dal libro in sé, ma dalla figura di Anna stessa: una donna, prima ancora di un’attrice, che si è fatta strada contando esclusivamente sulle proprie forze, senza l’aiuto di nessuno; e che, oltretutto, è stata molto coraggiosa, a un certo punto della sua carriera, nell’abbandonare una patria che l’aveva messa da parte ma che aveva anche saputo porre in risalto il suo talento, per andare a lavorare in un luogo e in un contesto produttivo molto diversi da quelli abituali, con l’obiettivo di scoprire nuovi lati del proprio talento. La Magnani ci insegna che c’è sempre la possibilità, nella vita, di superare i propri limiti, di avvicinarsi ai propri sogni, facendo leva su noi stessi. Un monito davvero molto attuale.     
E’ già possibile trovare il tuo lavoro in libreria, e dove può documentarsi il lettore che desidera saperne di più?

R. Il mio libro è uscito in libreria a metà luglio; per saperne di più e per venire aggiornati sulle novità e sulle date delle presentazioni, è possibile visitare i siti www.lemanieditore.com e www.annadaimillevolti.wordpress.com; oltre alla pagina facebook del libro, www.facebook.com/Anna verrà. Ricordo, inoltre, il sito dell’Associazione La voce della luna, www.voceluna.altervista.org  



Barbara Rossi: “Anna Magnani: un’attrice dai mille volti tra Roma e Hollywood”
Giovedì 16 luglio, alle ore 21, nel giardino di Palazzo Spinola, ad Arquata Scrivia, presentazione del libro “Anna Magnani: un’attrice dai mille volti tra Roma e Hollywood”, Edizioni Le Mani, 2015
Barbara Rossi, nel terzo appuntamento coi salotti del giardino segreto condotti dalla scrittrice e giornalista Patrizia Ferrando, presenta il suo libro sulla grande Anna Magnani e racconta una complessa figura di donna e di attrice, con particolare riguardo all’esperienza hollywoodiana.
L’appuntamento è a ingresso libero.
Una romana a Hollywood: esce per Le Mani un nuovo libro sugli anni americani di Anna Magnani
Molto si è scritto di Anna Magnani, una delle nostre migliori attrici, forse la più grande
in assoluto. Ora Anna Magnani. Un'attrice dai mille volti tra Roma e Hollywood di Barbara Rossi si propone di approfondire la sua esperienza hollywoodiana fra la metà e la fine degli anni Cinquanta, un parte della sua carriera sulla quale mancava un attento studio complessivo. I sei capitoli di cui è composto il saggio ricostruiscono da una prospettiva storica e artistica la parabola di Anna, dai lontani esordi teatrali alla consacrazione come simbolo del Neorealismo, per arrivare all’Oscar con La rosa tatuata.
Barbara Rossi si concentra sulle pellicole hollywoodiane della Magnani per mettere a fuoco luci e ombre della sua avventura americana e offrire un’ipotesi in grado di spiegarne la repentina conclusione. Viene anche proposta una restituzione della figura dell’attrice attraverso i tre principali “macro-ruoli” del suo itinerario artistico, sullo sfondo dell’evolversi dell’attore italiano e delle immagini del femminile nel cinema prima e dopo il secondo conflitto mondiale.
Completano l’opera dettagliate analisi dei film appartenenti al periodo americano, un accurato apparato biblio-filmografico e una doppia prefazione, di Nuccio Lodato e Michele Maranzana.

Barbara Rossi è laureata in Storia e Critica del Cinema presso l’Università degli Studi di Torino.
Presidente dell’Associazione di cultura cinematografica e umanistica ‘La Voce della Luna’ di Alessandria, svolge corsi sul linguaggio e sulla storia del cinema, oltre a laboratori di formazione in Educazione ai Media presso istituti scolastici, enti pubblici e privati. Si è occupata anche di critica cinematografica e, a partire dagli studi universitari, del fenomeno divistico e della figura di Anna Magnani.
Anna Magnani. Un'attrice dai mille volti tra Roma e Hollywood di Barbara Rossi
Le Mani, Recco, 2015, euro 20,00 - IN LIBRERIA DA META’ LUGLIO
Ufficio Stampa: 334/9435398, lemanicomunica@gmail.com



Anna Magnani: un'attrice dai mille volti tra Roma e Hollywood" (Edizioni Le Mani, Recco)
by Barbara Rossi. La Voce della Luna
Il libro si propone di approfondire la figura di Anna Magnani attraverso la ricchezza di fonti   giornalistiche e saggistiche, in particolare sull’esperienza hollywoodiana fra la metà e la fine 
degli anni Cinquanta. 
Nei sei capitoli di cui è composto il saggio ci si occupa, in particolare, di ricostruire da una prospettiva 
storica e artistica la parabola di Anna, dai suoi lontani esordi teatrali sino alla vera e  propria consacrazione, nel secondo dopoguerra, quale simbolo ed espressione del Neorealismo  cinematografico italiano, per arrivare infine – al culmine del successo – all’assegnazione del  premio Oscar con il film La rosa tatuata. 
L’autrice si concentra in maniera specifica sugli anni e le pellicole hollywoodiani della Magnani,  per mettere a fuoco le luci e le ombre dell’avventura americana dell’attrice e offrire un’ipotesi  interpretativa in grado di spiegarne, almeno parzialmente, la repentina conclusione. 
Viene anche proposta una restituzione della figura attoriale di Anna Magnani attraverso i tre  principali “macro-ruoli” che hanno caratterizzato il suo itinerario artistico, sullo sfondo dell’evolversi  della funzione dell’attore italiano e delle immagini del femminile nel cinema prima  e dopo il secondo
conflitto mondiale.
Completano l’opera dettagliate analisi dei film appartenenti al periodo americano e un accurato  apparato biblio-filmografico. 
Barbara Rossi è laureata in Storia e Critica del Cinema presso l’Università degli Studi di Torino. Presidente  dell’Associazione di cultura cinematografica e umanistica ‘La Voce della Luna’ di Alessandria,  svolge corsi sul linguaggio e sulla storia del cinema, oltre a laboratori di formazione in Educazione ai  Media presso istituti scolastici, enti pubblici e privati. Si è occupata anche di critica cinematografica e, a  partire dagli studi universitari, del fenomeno divistico e della figura di Anna Magnani. 



Staffetta dantesca, 20 giugno
Cari Amici,
inoltro con piacere la comunicazione relativa alla "staffetta dantesca" (lettura dei primi 16 Canti dell'Inferno) che avrà luogo sabato 20 giugno, dalle ore 15, a Garbagna (Al), nella chiesa di San Giovanni Battista. Ne farà parte anche la Voce della Luna.
Un saluto a Tutti,
Barbara Rossi, La Voce della Luna, Associazione di cultura cinematografica e umanistica   
Cari amici,
dopo il successo della lettura del canto V dell'Inferno (a cura di Manuela Bonadeo, 12 giugno), vi aspettiamo al prossimo appuntamento di "Galeotto fu il libro", sabato 20 giugno alle ore 15, presso la Chiesa Parrocchiale di San Giovanni Battista di Garbagna.
Sedici lettori si alterneranno nella "staffetta dantesca", proponendo al pubblico la lettura continuata dei primi canti dell'Inferno.
Al termine della staffetta, gli alunni della quinta elementare di Garbagna, guidati da Gino Bartalena, reciteranno "Vergine Madre, figlia del tuo figlio" (Paradiso, XXXIII).
Un caro saluto a tutti
Giuseppe Polimeni




Il Diario segreto della Contessa, by Patrizia Ferrando
di Barbara Rossi
Alessandria: La Libreria Fissore Ub!k, in collaborazione con La voce della luna - Associazione di cultura cinematografica e umanistica, è lieta di ospitare, sabato 6 giugno, dalle ore 18.30, la presentazione del libro "Il diario segreto della Contessa", di Patrizia Ferrando, Litho Editrice. L'opera, già alla seconda ristampa, racconta in maniera rigorosa e fedele ma appassionata la vicenda personale di Teresa Cordero di Montezemolo, seconda moglie del Conte Celestino Tornielli di Crestvolant. Teresa tenne un diario tra il 1885 e il 1926: pagine che fanno rivivere il bel mondo di Torino, le giornate autunnali nella dimora di campagna nell’ovadese, i viaggi, i soggiorni a Nervi, ma che, soprattutto, rievocano sentimenti, luci e ombre di una donna che attraversa decenni di trasformazioni storiche e complesse vicende personali.
Questo romanzo parte dal diario per narrare una storia tutta al femminile, d’amore e d’amori, che conserva il profumo di tempi perduti ma si rivela a tratti sorprendentemente moderna.
La presentazione avrà luogo nello spazio esterno della nuova sede della Libreria Fissore-Ubik, in via Savonarola 1, Alessandria. Ingresso libero. Letture dal libro a cura di Giulia Maino.
«24 dicembre 1926 - Premiere neige et grand froid.
Il gelo arabescava bianchi motivi sui vetri della finestra. La neve, o il tempo trascorso, ovattavano luci e voci della vigilia, fino a trarne un quadro quasi estraneo, piuttosto sfocato. Teresa, seduta sulla poltrona di velluto liso, col solo conforto della coperta ad avvolgerle le ginocchia, ripeteva fra sé certe melodiose speranze di vigilie remote.» (da "Il Diario Segreto Della Contessa")
Patrizia Ferrando è nata a Genova nel 1974 e vive ad Arquata Scrivia. Giornalista pubblicista, studi classici e di storia dell’arte, collabora a riviste femminili e blog dedicati a libri e decorazione d’interni. I suoi luoghi preferiti sono librerie, mercatini, dimore eccentriche e botteghe insolite: nel 2013 ha pubblicato “Sui passi dell’estate perduta”, saggio dedicato ai villini belle epoque in Valle Scrivia e alla vita che vi si conduceva.



Mia madre (Italia, 2015), Nanni Moretti
by Barbara Rossi
Era il male oscuro di cui le storie e le leggi e le universe discipline delle gran cattedre persistono a dover ignorare la causa, i modi: e lo si porta dentro di sé per tutto il fulgurato scoscendere d'una vita, più greve ogni giorno, immedicato. (Carlo Emilio Gadda, “La cognizione del dolore”)
Il male oscuro: quel male che, nelle sue più estreme propaggini, è anche il titolo e il protagonista, nel 1964, di un romanzo di Giuseppe Berto. La depressione, certo, ma più che altro, nella filmografia morettiana (soprattutto a partire da “Caro diario”, passando attraverso “Aprile”, l’emblematico “La stanza del figlio”, e “Habemus Papam”), il dovere fare incessantemente i conti con il senso di precarietà, di finitezza della vita. 
Il tempo che passa, dalla giovinezza, in un lampo sino alle soglie della vecchiaia; le domande che arrivano, inesorabili, su cosa siamo stati e chi; la tragedia, inenarrabile (e infatti Moretti si ferma, con pudore, sulla soglia dell’esperienza di perdita di una persona cara) e senza rimedio alcuno, della scomparsa di un figlio, di un genitore: questi sono i temi sui quali il regista continua pervicacemente a interrogarsi, da qualche anno a questa parte. 
Grandi temi, ma raccontati (e minimamente mostrati) senza tradire lo stile e la visione morettiani, sempre più intimisti (anche se “Mia madre” è anche il racconto della lavorazione di un film “sociale”, sulle rivendicazioni degli operai di una fabbrica venduta a un nuovo, intransigente magnate americano (un superlativo John Turturro, personaggio nel personaggio, eccentrico e mutaforme divo in piena crisi esistenziale e artistica), asciutte, operanti per sottrazione.
In Margherita, regista, madre, ex moglie e quasi ex innamorata dalla fragilità conclamata (come per gran parte delle figure femminili interpretate da Margherita Buy), e forse anche un po’ egoista, Moretti riversa un po’ di se stesso, del suo modo di intendere il cinema, del suo rigoroso e insieme pietoso (nell’accezione etimologica che il termine pietas assume, cioè la devozione, la considerazione più assoluta per gli umani sentimenti e valori, primi tra tutti quelli familiari) rispetto verso una fine che rimane, da qualunque parte la si contempli, un mistero personale e collettivo.
Disperso e frammentato anche nel personaggio del fratello di Margherita, Giovanni, trattenuto e razionale ma meditante, in segreto, repentini cambiamenti di vita, Moretti ci restituisce un affresco individuale e corale forse meno amaro, meno dolorosamente inquieto e disperato rispetto a quello de “La stanza del figlio”: con una cognizione del dolore, appunto, che si addolcisce e si stempera nelle parole finali di Ada (una bravissima Giulia Lazzarini), la madre del film, che alla domanda della figlia «A cosa pensi mamma?», risponde serena «A domani».    



ACIT FILM FORUM: BERLINO, by Barbara Rossi
Barbara Rossi Alessandria
La rassegna cinematografica in lingua originale 2015, organizzata dall’Acit di Alessandria, ci ha permesso di compiere un viaggio, dislocato in periodi storici differenti, tra le molteplici visioni e rappresentazioni che la città di Berlino ha dato di sé, attraverso l’occhio di quattro cineasti (l’ultima, Feo Aladaǧ, di origini turche, a testimoniare la multiculturalità dell’approccio).
Il ciclo ci ha restituito, nell’occasione della ricorrenza dei venticinque anni dal crollo del Muro, non una sola Berlino, ma tante, ciascuna con la propria unicità, circumnavigando, e perfino allontanandosi, in molti casi, dalla visione wendersiana, materialistica e insieme metafisica della città, che pure ha influenzato e continua a influenzare i moduli di racconto di molti registi, anche lontano dall’Europa. 
Kuhle Wampe o A chi appartiene il mondo?, di Slatan Dudow (1932), su sceneggiatura di Bertolt Brecht, ci ha portati in una Berlino sofferente per la grande Depressione di quegli anni, ancora molto distante dall’edificazione del Muro; nella quale, però, affondano le proprie tentacolari radici quelle istanze, quelle contingenze economiche, politiche e sociali determinanti per lo scoppio del secondo conflitto mondiale e, in seguito, della Guerra Fredda, che sono state le principali responsabili della divisione, prima ideologica e poi materiale, tra le due parti della città.
Il signor Lehmann, di Gerhard Klein (2003), unica commedia del ciclo, ci ha sbalzati, non senza una punta di autoironia venata di amarezza, nei giorni immediatamente precedenti il crollo del Muro (il compleanno dell’eccentrico protagonista, il giovane Lehmann, ricorre proprio il 9 novembre 1989), per le strade notturne e i locali frequentati da una gioventù inquieta, insoddisfatta, molto influenzata (come anche nel successivo Berlino-Angolo Schönhauser) dal cinema e dalla cultura occidentale: consapevole, ma ancora un po’ confusa riguardo le nuove libertà, le possibilità di trasformazione personale e collettiva che l’avvenuta riunificazione comporterà.
Berlino-Angolo Schönhauser, di Gerhard Klein (1957), uno tra i migliori film mai prodotti dalla DEFA, la casa di produzione cinematografica della DDR, ci ha condotti, invece, sotto le arcate di uno dei crocevia più conosciuti di Berlino, nel quartiere di Prenzlauer Berg, pochi anni prima della costruzione del Muro; che diviene, dunque, in questa storia, un simbolo in assenza, eppure egualmente tangibile. Qui, in questo angolo e in questa parte di Berlino rimasti sino a un ventennio fa molto simili a come vengono rappresentati nel film, così vicini al teatro dove, con qualche mese di anticipo sui fratelli Lumière, i fratelli Skladanowsky proiettarono alcuni documentari di Edison, si incontra e si smarrisce la gioventù del Settore Est, divisa tra la durezza della realtà quotidiana e il sogno di libertà.
L’estranea, infine, opera prima della regista Feo Aladaǧ (2010), conclude il viaggio nella Berlino del presente e del futuro, raccontando una drammatica storia femminile di difficoltà d’integrazione,    ambientata e girata tra Istanbul e la capitale tedesca, sede della più grande comunità turca d’Europa. La giovane attrice protagonista, Sibel Kekilli, già straordinaria interprete de La sposa turca, di Fatih Akin (2004), esprime con grande intensità di recitazione la tragedia di una condizione femminile che trova nel senso di appartenenza alla propria etnia le radici della sofferenza e del disadattamento. 
Berlino, lo sa anche chi non c’è mai stato, è una città dalle molte stratificazioni di passato e di memoria, spesso caoticamente intrecciate le une con le altre; ed è anche una città che deve continuamente fare i conti con la propria storia. Eppure, come afferma Wim Wenders, «Berlino è una città che rimanda continuamente al futuro, che ci spinge in avanti…Berlino è l’ultimo atto. Il resto è preistoria. Se storia ci sarà, Berlino sarà l’inizio». 
Barbara Rossi 
Ba al futuro, che ci spinge in avanti", "Berlino è una città che reclama sempre un seguito", "Berlino è l'ultimo atto. Il resto è preistoria. Se storia ci sarà, Berlino sarà l'inizio".  



Alessandria: sabato 6 giugno alle ore 18.30 alla Libreria Fissore Ub!k, Via Dei Guasco 19,
La Libreria Fissore Ub!k, in collaborazione con La voce della luna - Associazione di cultura cinematografica e umanistica, è lieta di ospitare, sabato 6 giugno, dalle ore 18.30, la presentazione del libro "Il diario segreto della Contessa", di Patrizia Ferrando, Litho Editrice. L'opera, già alla seconda ristampa, racconta in maniera rigorosa e fedele ma appassionata la vicenda personale di Teresa Cordero di Montezemolo, seconda moglie del Conte Celestino Tornielli di Crestvolant: Teresa tenne un diario tra il 1885 e il 1926: pagine che fanno rivivere il bel mondo di Torino, le giornate autunnali nella dimora di campagna nell’ovadese, i viaggi, i soggiorni a Nervi, ma che, soprattutto, rievocano sentimenti, luci e ombre di una donna che attraversa decenni di trasformazioni storiche e complesse vicende personali.
Questo romanzo parte dal diario per narrare una storia tutta al femminile, d’amore e d’amori, che conserva il profumo di tempi perduti ma si rivela a tratti sorprendentemente moderna.
La presentazione avrà luogo nello spazio esterno della nuova sede della Libreria Fissore-Ubik, in via dei Guasco, 19, Alessandria. Ingresso libero.
"24 dicembre 1926 - Premiere neige et grand froid.
Il gelo arabescava bianchi motivi sui vetri della finestra. La neve, o il tempo trascorso, ovattavano luci e voci della vigilia, fino a trarne un quadro quasi estraneo, piuttosto sfocato. Teresa, seduta sulla poltrona di velluto liso, col solo conforto della coperta ad avvolgerle le ginocchia, ripeteva fra sé certe melodiose speranze di vigilie remote." (da " Il Diario Segreto Della Contessa")


ACIT Film Forum: Berlino
by Barbara Rossi
La rassegna cinematografica in lingua originale 2015, organizzata dall’Acit di Alessandria, ci ha permesso di compiere un viaggio, dislocato in periodi storici differenti, tra le molteplici visioni e rappresentazioni che la città di Berlino ha dato di sé, attraverso l’occhio di quattro cineasti (l’ultima, Feo Aladaǧ, di origini turche, a testimoniare la multiculturalità dell’approccio).
Il ciclo ci ha restituito, nell’occasione della ricorrenza dei venticinque anni dal crollo del Muro, non una sola Berlino, ma tante, ciascuna con la propria unicità, circumnavigando, e perfino allontanandosi, in molti casi, dalla visione wendersiana, materialistica e insieme metafisica della città, che pure ha influenzato e continua a influenzare i moduli di racconto di molti registi, anche lontano dall’Europa. 
Kuhle Wampe o A chi appartiene il mondo?, di Slatan Dudow (1932), su sceneggiatura di Bertolt Brecht, ci ha portati in una Berlino sofferente per la grande Depressione di quegli anni, ancora molto distante dall’edificazione del Muro; nella quale, però, affondano le proprie tentacolari radici quelle istanze, quelle contingenze economiche, politiche e sociali determinanti per lo scoppio del secondo conflitto mondiale e, in seguito, della Guerra Fredda, che sono state le principali responsabili della divisione, prima ideologica e poi materiale, tra le due parti della città.
Il signor Lehmann, di Gerhard Klein (2003), unica commedia del ciclo, ci ha sbalzati, non senza una punta di autoironia venata di amarezza, nei giorni immediatamente precedenti il crollo del Muro (il compleanno dell’eccentrico protagonista, il giovane Lehmann, ricorre proprio il 9 novembre 1989), per le strade notturne e i locali frequentati da una gioventù inquieta, insoddisfatta, molto influenzata (come anche nel successivo Berlino-Angolo Schönhauser) dal cinema e dalla cultura occidentale: consapevole, ma ancora un po’ confusa riguardo le nuove libertà, le possibilità di trasformazione personale e collettiva che l’avvenuta riunificazione comporterà.
Berlino-Angolo Schönhauser, di Gerhard Klein (1957), uno tra i migliori film mai prodotti dalla DEFA, la casa di produzione cinematografica della DDR, ci ha condotti, invece, sotto le arcate di uno dei crocevia più conosciuti di Berlino, nel quartiere di Prenzlauer Berg, pochi anni prima della costruzione del Muro; che diviene, dunque, in questa storia, un simbolo in assenza, eppure egualmente tangibile. Qui, in questo angolo e in questa parte di Berlino rimasti sino a un ventennio fa molto simili a come vengono rappresentati nel film, così vicini al teatro dove, con qualche mese di anticipo sui fratelli Lumière, i fratelli Skladanowsky proiettarono alcuni documentari di Edison, si incontra e si smarrisce la gioventù del Settore Est, divisa tra la durezza della realtà quotidiana e il sogno di libertà.
L’estranea, infine, opera prima della regista Feo Aladaǧ (2010), conclude il viaggio nella Berlino del presente e del futuro, raccontando una drammatica storia femminile di difficoltà d’integrazione,    ambientata e girata tra Istanbul e la capitale tedesca, sede della più grande comunità turca d’Europa. La giovane attrice protagonista, Sibel Kekilli, già straordinaria interprete de La sposa turca, di Fatih Akin (2004), esprime con grande intensità di recitazione la tragedia di una condizione femminile che trova nel senso di appartenenza alla propria etnia le radici della sofferenza e del disadattamento. 
Berlino, lo sa anche chi non c’è mai stato, è una città dalle molte stratificazioni di passato e di memoria, spesso caoticamente intrecciate le une con le altre; ed è anche una città che deve continuamente fare i conti con la propria storia. Eppure, come afferma Wim Wenders, «Berlino è una città che rimanda continuamente al futuro, che ci spinge in avanti…Berlino è l’ultimo atto. Il resto è preistoria. Se storia ci sarà, Berlino sarà l’inizio». 
Barbara Rossi 
Ba al futuro, che ci spinge in avanti", "Berlino è una città che reclama sempre un seguito", "Berlino è l'ultimo atto. Il resto è preistoria. Se storia ci sarà, Berlino sarà l'inizio".  

La scelta (2015) Michele Placido

by Barbara Rossi  
Film in singolare controtendenza, questo, rispetto allo stile consueto del Placido regista, tendente all’accumulazione, all’iterazione spesso greve e densa di motivi e quadri e figure, a una struttura melodrammatica, sia che componga affreschi politici e sociali (Pummarò, Romanzo criminale, Il grande sogno, Vallanzasca), sia che si dedichi, come in questo caso, a storie più private, individuali (Le amiche del cuore, Ovunque sei). La scelta è tratto dal testo teatrale pirandelliano L’innesto, del 1911, e ambientato - invece che a Roma - tra i vicoli bianchi, stretti e misteriosi di una Puglia sensuale, terrestre, imprevedibile, dove tutto, appunto, può accadere. Ed è qui che anche il più vago spunto melodrammatico (vedi i cori degli allievi della protagonista Laura, in preparazione al saggio di fine anno) viene cancellato: qui, sul crinale e sulla strada senza più ritorno di un fatto terribile, imprevedibile - uno stupro - che Laura, straordinariamente, non subisce, a differenza del marito Giorgio e del resto della sua famiglia. Da qui

Placido smette di calcare la mano, passando dalla condensazione ad una sempre maggiore diluizione di immagini, musiche, rumori, voci e volti: nel trascolorare di emozioni contrastanti, di sentimenti e pensieri che confluiscono tutti nel bel viso di questa giovane maestra di canto, non più la stessa di prima, e non tanto per il peso e il dolore del trauma subito. Da qui il regista pare volersi avvicinare in punta di piedi, con imbarazzato rispetto, con pudore, al mistero, all’inviolabilità quasi sacrale di un cuore e di un grembo femminili abitati da una vita che si è fatta strada a forza, in un vicolo buio ingombro di rifiuti, e nonostante questo acquista, nella coscienza di Laura, il medesimo diritto alla preservazione di qualunque altra vita.
Intensa e molto matura Ambra Angiolini, nel ruolo di Laura; più trattenuto Raoul Bova (il marito Giorgio), ma in sintonia con una storia e con una controparte femminile tessute di silenzi, di ombre repentine e luci accecanti. 
Barbara Rossi   


FIC Federazione Italiana Cineforum

Ultimo incontro del Progetto Genitori, organizzato da Associazione Il Porcospino in collaborazione con il circolo FIC La voce della luna - Associazione di cultura cinematografica e umanistica, questa sera dalle 20 ad Alessandria.
La serata sarà incentrata sulla proiezione e commento del film La prima neve, diretto daAndrea Segre ed interverranno per introdurre e commentare il film il prof. Michele Maranzana e la dott.ssa Barbara Rossi, dell'Associazione La Voce della Luna.

La Prima Neve, by Andrea Segre

by Barbara Rossi La Voce della Luna
Alessandria: L’ultimo incontro del Progetto Genitori 2014-2015, in collaborazione con l’Associazione La Voce della Luna, sarà incentrato sulla proiezione e commento del film La Prima Neve, diretto da Andrea Segre. (www.laprimaneve.com)
Vi aspettiamo eccezionalmente sabato 16/5 dalle ore 20.00 per un apericena e alle ore 20.30 con l’inizio del cineforum.
Per informazioni: progetto.genitori@culturaesviluppo.it
L’iscrizione, gratuita ma obbligatoria, è possibile compilando il modulo online disponibile al linkwww.culturaesviluppo.it/La Prima Neve-Progetto Genitori
www.voceluna.altervista.org



Ritorno al Marigold Hotel (The Second Best Exotic Marigold Hotel, 2015), by John Madden
by Barbara Rossi
Due film al prezzo di uno: già, perché questo sequel di John Madden e il primigenio Marigold Hotel, 2012, dello stesso autore, si possono recensire tranquillamente (e altrettanto tranquillamente possono essere visti) come se si trattasse di un unico film. Non cambia l’ambientazione indiana, con ripetuti ammiccamenti alle musicali produzioni bollywoodiane, sfarzose, caotiche, iperrealistiche, fumettistiche in storie e personaggi; non cambia la storia, che semplicemente prosegue, a distanza di tempo, sulla falsariga della prima, con solo qualche colpo di scena, qualche studiata novità, giusto per mantenere accesa l’attenzione dello spettatore; non cambiano i protagonisti (e qui bisogna ammetterlo: come la prima volta, un parterre di “vecchi” attori bravissimi, da Judi Dench a Bill Nighy, alla decana Maggie Smith), con la new entry, neanche tanto sorprendente ma luccicante in perfetto stile “old Hollywood”, Richard Gere; non cambia, infine, la faciloneria con cui si guarda e si raccontano l’India, i sentimenti umani, i drammi e le gioie dell’esistenza, e il trascorrere del tempo, la vecchiaia, che - nel pur apprezzabile tentativo di legittimazione, di restituzione di dignità e senso, di rispettosa messa in scena del suo volto meno stereotipato - finisce per trasformarsi, paradossalmente, nell’ennesima, trionfalistica celebrazione di una giovinezza solo un po’ attempata, ma sempre fine a se stessa. 
Da qualche anno, ormai, il cinema, soprattutto quello americano, ma non solo (pensiamo al “capostipite” del tema, Cocoon di Ron Howard, 1985, ma anche ai più recenti Quartet di Dustin Hoffman, 2012, Una canzone per Marion di Paul Andrew Williams, 2012, e all’europeo, e più drammatico, Amour di Michael Haneke, 2012), ha riscoperto e si sta interrogando sulle tematiche legate all’invecchiamento, all’ultima fase della vita; con difficoltà, a volte, con ritrosie e pudori, con tenerezza e, nello stesso tempo, con ferocia. Con impulso gioioso e vitalistico, pur venato da ironie e leggere malinconie, come nel caso dei due Marigold Hotel. Se si vuole iniziare un viaggio in questo pianeta si può partire anche da qui: dai colori, dai ritmi sincopati, dalle banalità e dai finti drammi, come dalle facezie, di questi film gemelli.           


Resistenza, ultimo sguardo: da “I piccoli maestri” di Daniele Luchetti a “L’uomo che verrà” di Giorgio Diritti
by Barbara Rossi, La Voce della Luna
«Ecco una cosa che ho capito: che molti vogliono ammazzare qualcun altro, ma io non capisco perché» (L’uomo che verrà)
«Fare i conti col passato va bene, ma prima o poi bisogna chiuderli, no?» (I piccoli maestri)
Chiudere i conti col passato: legittimo desiderio, insopprimibile necessità dei singoli come delle diverse forme di organizzazione sociale e civile in cui, nel corso della storia, l’uomo ha incanalato e strutturato la propria spinta vitale.
Per quanto riguarda il fenomeno della Resistenza italiana - quei venti mesi compresi tra la firma dell’armistizio dell’Italia con le forze anglo-americane alleate, l’8 settembre 1943, e, all’incirca, l’inizio del maggio 1945 - chiudere o, più modestamente, fare i conti con ciò che è stato, sul piano storico, sociale, culturale e umano, è impresa ardua, per la sua estrema complessità e per la difficoltà, comune alla maggior parte degli apparati politico-ideologici del Paese via via succedutisi (e a dispetto della loro eterogeneità) a guardare a quell’esperienza con occhio non inquinato.
Di conseguenza, anche la rappresentazione cinematografica del periodo resistenziale ha attraversato, analogamente al giudizio storico-critico su di esso, fasi alterne e spesso in contraddizione fra loro, a partire dall’immediato dopoguerra sino ai giorni nostri.
La riflessione filmica sulla Resistenza sembra affondare le proprie radici nel terreno già fervido e variegato del cinema neorealista, anch’esso espressione di differenti istanze ideologiche e culturali: ciò che accomuna pellicole anche molto eterogenee fra loro è, innanzitutto, l’esplicita volontà di distacco - sia sul piano contenutistico che estetico - dalla cinematografia precedente, espressione del regime, propagandistica o velleitariamente d’evasione, a favore di narrazioni che esplicitassero la presa di coscienza, l’azione di riscatto, soprattutto a livello popolare, dalle maglie oppressive del governo fascista. 
Qualche cosa di simile avveniva, fatte salve le debite differenze, nella società italiana che si apprestava alla ricostruzione, sostando in equilibrio precario sulle macerie ancora fumanti della guerra. Come spiega Claudio Pavone: «[…] credo che indubbiamente un lascito lo si possa individuare nella scoperta della pluralità delle voci, anche se poi questo valore ha subito, nella vita politica, delle degenerazioni sino a trasformarsi in “lottizzazione”. […] perché allora rappresentava soprattutto la rottura del monopolio totalitario del potere: prima erano tutti fascisti, e ora tutti noi che abbiamo partecipato alla Liberazione abbiamo diritto ad essere rappresentati. E questo ha lasciato una
eredità, che non è solo lo strascico degenerato attuale, è anche il fatto che si è affermata l'idea che tutti hanno diritto di parlare e di farsi sentire. […] Resta però il fatto che si lascia in eredità l'idea che le cose possano cambiare». 
Emblematiche, in questo contesto, si rivelano - come sappiamo - opere quali Roma città aperta (1945) e Paisà (1946), di Roberto Rossellini (quest’ultima definita da Morando Morandini «un potente affresco collettivo»): «[…] Specchio di una realtà come colta nel suo farsi, appare oggi come un’opera ibrida in cui il nuovo convive col vecchio, i grandi lampi di verità con momenti di maniera romanzesca, in bilico tra lirismo epico e retorica populista.
La stessa lotta antifascista è raccontata ponendo l’accento sul piano morale più che su quello politico, il che non gli impedì di essere il film giusto al momento giusto e di indicare attraverso le figure del comunista e del prete di borgata il tema politico centrale dell’Italia nel dopoguerra».
Se in Roma città aperta «Viene descritta con toni rapidi e concisi, con il susseguirsi ritmato degli avvenimenti la vita di una comunità, le sue vicende quotidiane, la sua volontà di liberazione dai tedeschi, in un crescendo in cui tutti sono protagonisti ed hanno un ruolo», è anche vero che il limite di questa operazione - comune alla maggior parte degli altri film “resistenziali” di questa fase e, ancor più, di quella successiva - sta nella rappresentazione della lotta partigiana nella sua valenza esclusiva di reazione contro l’oppressore straniero. Di là da venire il riconoscimento di vera e propria guerra civile (difficile da metabolizzare ancora oggi, nell’attualità delle nostre vicende nazionali), l’immagine della Resistenza è quella del conflitto di un popolo aspirante alla libertà, in cui l’amalgama e il livellamento tra opposte fazioni politiche e ideologiche sono massimi. Rare eccezioni, in questo senso, vengono da film come Il sole sorge ancora - 1946 - di Aldo Vergano (che nel realismo documentario della narrazione compone un affresco anche sociale dell’Italia occupata) e Achtung! Banditi! di Carlo Lizzani (1951), che - a suo modo - conclude, con il coraggio di una descrizione lucida e antiretorica della gioventù partigiana, la prima fase della cinematografia resistenziale, prima che la cosiddetta “normalizzazione”, operata dal governo centrista nel decennio appena iniziato, riconduca la vicenda storica nell’alveo inoffensivo di retoriche celebrazioni nazionalistiche.                      
Il film di Lizzani si presenta quindi come ultimo prodotto di una cinematografia che, iniziata con Roma città aperta, era stata sostenuta da una grande tensione emotiva. È in fondo una sorta di bilancio di quanto è stato fatto, una rimeditazione sul tipo di approccio, senza però aperture sul futuro. «[...] Vi è lo stesso rifiuto di una visione epica del periodo e lo sforzo di darci una interpretazione della resistenza che mette in evidenza gli aspetti politici e sociali. Come egli stesso dice, il suo è un “modo di interpretare, concretamente, il fenomeno storico”. [...]. Un tema che Lizzani affronta è quello delle ragioni di lotta: dalle discussioni che si svolgono nella baita, dai frammenti delle singole vicende che emergono dal dialogo viene fuori un ritratto antiretorico e realistico dei giovani che hanno deciso di prendere le armi e combattere. Sono persone comuni, non vi sono eroi; alcuni anzi hanno ancora dei dubbi, altri sono andati in montagna per evitare la leva, una coscienza politica approfondita è presente solo in pochi. Sarà l’esperienza della guerriglia a dare un senso concreto alle scelte dei giovani». 
In sintonia con le forme e i contenuti della narrazione proposta dal film di Lizzani troviamo, fra i rarissimi esempi degli anni Cinquanta, Gli sbandati di Francesco Maselli (1955): per entrambi è possibile istituire un parallelo con espressioni della cinematografia resistenziale più recente, in modo particolare con I piccoli maestri di Daniele Luchetti (1997), e - seppure in misura minore - con Il partigiano Johnny di Guido Chiesa (2000), principalmente per lo sguardo attento a cogliere la confusione e le incertezze esistenziali della generazione che scelse di entrare nei quadri della Resistenza.
Per il resto, il decennio dei Cinquanta, diviso a livello politico tra tentativi di “normalizzazione” e feroci campagne diffamatorie - condotte anche a livello giudiziario - nei confronti di un movimento partigiano accusato di essersi macchiato di colpe eguali, se non maggiori, di quelle fasciste (in un evidente tentativo di delegittimazione che prosegue anche nel corso degli anni Sessanta, sino alla svolta liberatoria del 68’ e all’avvento dei governi di sinistra in Italia alla metà dei Settanta),
non contribuisce in maniera intensiva all’elaborazione di nuove immagini filmiche sulla Resistenza, se escludiamo il filone, sempre vivo e consapevole, del documentario.
Il 1960 si apre, invece, con tre opere (Era notte a Roma di Roberto Rossellini, La lunga notte del ’43 di Florestano Vancini e Tutti a casa di Luigi Comencini, introdotte, l’anno precedente, da Il generale della Rovere, sempre di Rossellini, e Kapò di Gillo Pontecorvo) che sembrano voler riportare al centro della scena e dell’interesse nazionale la lotta antifascista in tutte le sue forme, in una rinnovata ansia, soprattutto della nuova generazione che si appresta a vivere attivamente l’imminente trasformazione sessantottesca, di conoscere e giudicare al di fuori di ogni retorica. 
Un’ansia che accomunerà - come vedremo - la generazione post-Sessantotto (e gli autori cinematografici cresciuti nel fervore di quel periodo) e quella odierna, dei figli (e, in qualche caso, addirittura dei nipoti), nell’ambito di un ripensamento generale dell’esperienza del fascismo, della guerra e di ciò che ne scaturì.    
Così scorrono gli anni Sessanta cinematografici, ricchi di titoli e di tentativi di raccontare la Resistenza in forme nuove, o attraverso punti di vista inediti: pensiamo, solo per fare due esempi, a Tiro al piccione di Giuliano Montaldo (1961), che indaga l’esperienza dei soldati repubblichini, ponendoli al centro della storia (analogamente a quanto farà, nel 1984, Marco Tullio Giordana con Notti e nebbie, dal romanzo di Carlo Castellaneta); e a Il terrorista di Gianfranco De Bosio (1963), che accomuna nell’analisi Resistenza e lotta armata, sullo sfondo di un centro urbano come Venezia.
Per comprendere appieno l’ultimo sguardo cinematografico sul fenomeno resistenziale - a partire dalla fine degli anni Novanta ad anni recenti - è necessario partire proprio dalla volontà di rielaborazione storica, dall’evoluzione del pensiero, dai tentativi di ampliamento dell’orizzonte critico che hanno avuto inizio fra gli anni Sessanta e i successivi Settanta: da film come Il sospetto di Francesco Maselli (1975), e L’Agnese va a morire di Giuliano Montaldo (1976, dal romanzo della partigiana Renata Viganò: la storia della contadina di Comacchio che diventa una staffetta partigiana, la stessa ambientazione, introducono una rilettura della Resistenza dalla parte degli umili che Giorgio Diritti riproporrà nel suo L’uomo che verrà, 2009). 
Gli anni Ottanta cinematografici non faranno che sviluppare ulteriormente questo processo, ma - in parallelo - fungeranno da specchio rifrangente un atteggiamento del tutto opposto: ossia la tendenza, in seno agli apparati governativi e, più genericamente, alla società dell’epoca, ad un’ambigua proposta di “pacificazione” tra oppressi e oppressori, vincitori e vinti, opposti schieramenti, sotto l’egida di «una rilettura edulcorata del fascismo, che ne riabilitava l’immagine, dipingendolo come un “autoritarismo all’italiana”, retorico e velleitario, ben distinto dal truce totalitarismo nazista; come un regime bonario e paternalista, che aveva accelerato la modernizzazione del paese godendo a lungo di un vasto consenso fra gli italiani». 
Questa falsificazione, insieme al tentativo di ridurre la Resistenza a semplice azione di guerriglia tra due opposte fazioni, condurrà - nel corso degli anni Ottanta e oltre - a un vero e proprio “revisionismo mediatico”, come afferma Vercelli: che si esprimerà, con l’affermazione del predominio del piccolo schermo su quello cinematografico, in una nutrita serie di film televisivi riabilitanti la figura di Mussolini (da Claretta di Squitieri, 1984, a Io e il duce di Negrin, 1985, aventi entrambi come lontano punto di riferimento Mussolini, ultimo atto di Lizzani, 1974).
A tali strettoie creative sfugge, nei primi anni Ottanta, un film di rara bellezza, La notte di San Lorenzo dei Taviani (1982), in cui già si ritrova quella dimensione memoriale che caratterizzerà, di lì a pochi anni, sia I nostri anni di Daniele Gaglianone (2001) che il già citato L’uomo che verrà.
E’ proprio a cavallo dei due decenni sospesi fra la fine del ventesimo e l’inizio del ventunesimo secolo che viene maturando, nel cinema, quel nuovo, più consapevole e attento approccio alle tematiche resistenziali che affonda le proprie radici nel cinema d’impegno sociale e civile di fine anni Sessanta e dell’intero decennio dei Settanta.
A partire, nell’ambito della storiografia sulla Resistenza, dalla piccola, fondante rivoluzione copernicana del testo dello storico ed ex partigiano Claudio Pavone, Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità nella Resistenza (1991), in cui per la prima volta viene sdoganata la definizione - mai osata in passato e mal accolta anche al momento della pubblicazione dello studio - di “guerra civile”, proposta sino a quel momento, con evidenti scopi devianti, solo dalle posizioni critiche di chiara ispirazione fascista. 
E’ sul finire degli anni Novanta che - preceduto da un piccolo gruppo di pellicole che già si pongono, pur con alcuni limiti di fondo, nella direzione di un’indagine sul passato il più possibile scevra di retorica come di facili estremismi (vedi Il caso Martello di Guido Chiesa, 1991, Nemici d’infanzia di Luigi Magni, 1995, e Porzus di Renzo Martinelli, 1997), esce nelle sale I piccoli maestri di Daniele Luchetti (1997), tratto dall’omonimo romanzo di Luigi Meneghello (1964).
Con I piccoli maestri Luchetti inizia quell’operazione memoriale sulla Resistenza - condotta soprattutto attraverso il filtro dei ricordi della generazione di chi, all’epoca, era poco più che ventenne - che caratterizzerà negli anni a seguire la maggior parte delle pellicole sul tema.
Il film racconta, in maniera abbastanza asciutta e incisiva, senza indulgere a retoriche e sentimentalismi ma neppure annullando totalmente l’espressione delle emozioni dei protagonisti della storia, il percorso “bellico” ed esistenziale di un gruppo di amici e studenti universitari vicentini (i “piccoli maestri” del titolo) che nell’autunno del 1943 decidono di unirsi alle file dei partigiani combattenti sull’altopiano di Asiago. A Gigi (Stefano Accorsi), Simonetta (Stefania Montorsi) e Enrico (Giorgio Pasotti), legati fra loro da vincoli sentimentali oltre che ideologici, si uniranno altri ragazzi, con il comune intento di «…resistere, con le parole, con l’intelligenza, ma anche con le armi…ne va della nostra libertà e dei nostri figli…l’Italia vera adesso siamo noi». 
Nel corso di un lungo inverno sulle montagne, sino alla liberazione di Padova poco prima dell’arrivo delle forze alleate, sperimenteranno il vero volto della lotta di liberazione, il dolore, la morte, la fatica e il senso di inutilità, di scacco e di sbandamento nei confronti di una realtà feroce e troppo idealisticamente intesa.
Vero e proprio romanzo di formazione (analogamente al Partigiano Johnny di Chiesa), I piccoli maestri mette in luce, oltre alla confusione generale che albergava tra le diverse file della Resistenza (con il frequente passaggio dei giovani partigiani da un gruppo con una determinata coloritura politica a un altro, solo per ragioni di contingenza), l’onestà morale e intellettuale, il bisogno di coerenza e di eticità di una generazione che si è trovata, senza alcun preavviso ma con un enorme spinta all’azione, coinvolta in una vicenda complessa e multistratificata, ancora oggi difficile da collocare nell’alveo delle vicende di quel momento storico. 
La pellicola, giudicata dalla critica appena un po’ meno incisiva, in alcuni passaggi, rispetto al romanzo di Meneghello («...Nel film soltanto la battaglia conclusiva in piazza e l'arrivo degli inglesi risultano goffi; rispetto al libro di Meneghello, mancano lo spirito e il linguaggio veneti, l'essenza della “guerra per bande” come l'intendeva Mazzini, i radicali dubbi politici. Manca pure la vitalità crudele della prima giovinezza: gli interpreti, tra i quali Stefano Accorsi è il migliore, avranno una decina d'anni più dei personaggi, e questo fa una differenza»; Lietta Tornabuoni, “La Stampa”, 8 settembre 1998), sospende - come, del resto, le altre opere degli anni successivi - ogni giudizio morale, mantenendosi in territorio neutro rispetto agli eventi descritti.
Il nemico, lo straniero, è quasi sempre una figura fantasmatica, incombente ma dai contorni irregolari (analogamente a Il partigiano Johnny) e non viene commesso l’errore di cadere in una caratterizzazione troppo spinta e stereotipata, già proposta a più riprese dalla cinematografia precedente.
Significativo è il dialogo finale tra Gigi e Marietto (Massimo Santelia), nel quale si adombra la coscienza comune dell’irripetibilità dell’esperienza, nonostante la sua ormai evidente drammaticità: «Ho l’impressione che da adesso in poi non avremo più niente di meglio dalla vita».
Per certi versi affine, nella modalità di sguardo, a I piccoli maestri ma, nello stesso tempo, con una propria, spiccata fisionomia (a dispetto della derivazione letteraria, piuttosto fedele, dal romanzo incompiuto e omonimo di Beppe Fenoglio, 1968, e dal precedente Primavera di bellezza, 1959), risulta anche Il partigiano Johnny, «un progetto fortemente desiderato e voluto» per stessa ammissione del regista Guido Chiesa, che prosegue: «con il passare del tempo il centro della mia attenzione si è spostato sulla “questione privata”, sull'odissea umana narrata da Fenoglio, ovvero sul suo faticoso e quotidiano farsi uomo nel tragico scenario della caduta del fascismo e della guerra».
Ci troviamo di fronte a un ulteriore racconto di formazione, quindi, modellato su di una stretta attinenza all’opera fenogliana (cui fanno riferimento, ad esempio, i passaggi con le citazioni del protagonista in lingua inglese), in cui ancora una volta si mettono in scena episodi, atmosfere e umori del periodo resistenziale attraverso la mediazione della letteratura e di un personaggio (Johnny, lo studente di letteratura inglese dietro cui si nasconde l’autore stesso, che con grande rigore morale porta avanti la propria scelta partigiana sino alle estreme conseguenze, a due soli mesi dalla fine del conflitto) intorno al quale tutto ruota. 
Anche Johnny (uno Stefano Dionisi la cui recitazione quasi “in sordina” è estremamente efficace e matura) come i ragazzi de I piccoli maestri, è incerto, smarrito («parto in un mare di dubbi»), ma - a differenza dei primi - coltiva una maggiore consapevolezza di se stesso e di come andrà a finire («Era la sua fine, e prima o poi sarà anche la mia fine, altrimenti che devo pensare di me? E’ solo una questione di date»).
La macchina da presa segue da vicino il suo percorso, anche geografico, nelle Langhe care a Fenoglio, nel profondo delle forre, nell’umidità nebbiosa e nel lucore della neve, con movimenti sconnessi, e una fotografia “sporca” giocata sui toni del grigio e del marrone.
Quello di Johnny è un itinerario di solitudine e di onestà intellettuale, specialmente se messo a confronto con l’opportunismo di alcuni suoi compagni di lotta: per la quasi totalità non è la fede politica che fa abbracciare la lotta armata («tu sei comunista? Io? Io sono solo contro i fascisti, il resto non mi interessa»), ma - come ne I piccoli maestri - la volontà di cambiare uno stato di cose ritenuto inaccettabile.
Le magagne e gli errori delle formazioni partigiane non vengono dissimulati da Chiesa che si mantiene, tuttavia - come Luchetti - a distanza da giudizi e interpretazioni retrospettive, limitandosi a documentare situazioni e stati d’animo («per evitare faziosità e strumentalizzazioni, per non cadere nella retorica resistenziale, smussa, sfuma, interiorizza ogni conflitto finendo per risultare un po' esangue...», scrive Fabio Ferzetti su “Il Messaggero”, 5 settembre 2000).                  
Somewhere over the rainbow, infine, le cui note accompagnano il lungo peregrinare invernale di Johnny attraverso un paesaggio collinare che pare quasi inglobarlo in sé, nelle proprie viscere, rimane l’unica concessione a un sogno di pacificazione che pare irrimediabilmente frangersi e irrigidirsi, subito dopo, nella fissità raggelante di un fermo immagine che consegna la vicenda umana del giovane partigiano alla storia collettiva dei nostri anni.
I nostri anni, significativamente, è anche il titolo cui Daniele Gaglianone affida l’emblematica sintesi dell’esperienza resistenziale che ha tramortito e sconvolto le vite dei due anziani amici (realmente) ex partigiani Alberto (Virgilio Biei) e Natalino (Piero Franzo): il quale fa filtrare, però, anche una semantica più allargata, in cui si concentra il messaggio del film.
«Sui monti ci sentivamo liberi, ci sentivamo una cosa sola con gli alberi, le pietre, i fiumi. Sembrava che tutto fosse lì solo per te. L’aria aveva un altro odore, ed è quello che dopo ti frega: basta respirare quell’aria una sola volta che ti sembra di soffocare per tutto il resto della vita. Non te lo dimentichi più».
Si soffoca, infatti, nella pellicola di Gaglianone: vittime e carnefici non riescono a respirare, nella medesima maniera. Soffoca Alberto, vagante e smarrito all’inizio della storia, tra stazione e binari, tra voci, volti, abbagli e ombre della propria memoria, sino all’incontro - nell’ospizio di cui è stralunato ospite - con Umberto.
Soffoca lo stesso Umberto, ex ufficiale fascista, piegato, con il respiro mozzo, su di una sedia a rotelle, e Natalino, che vive da lupo solitario sulle montagne piemontesi, dove ha combattuto da ragazzo.
I tre, per uno di quegli strani scherzi del destino, si ritrovano insieme, per una sorta di ultimo rendez vous: e, alla fine, è la marea prepotente del ricordo che arriva a soffocare anche chi guarda.
I nostri anni, come un film surrealista, a guisa di un novello Un chien andalou, è un’opera onirica, astratta, che mescola frammenti, di sogni, di memorie, di visioni interiori e paesaggi reali, in un continuo andirivieni spaziale e temporale: una sorta di lungo flusso di coscienza che viene esteriorizzato da una fotografia (dell’ottimo Gherardo Gossi) in bianco e nero, sgranata e tremolante come nei vecchi filmini in super otto, da un montaggio non consequenziale, dalla sovrapposizione di voci, ansimi, rumori, da un doppiaggio fuori sincrono, in una saturazione totale dell’immagine, ai limiti della leggibilità.
Come scrive Alessandra Levantesi: «Pur esprimendo un preciso punto di vista (nella linea di Norberto Bobbio, nessun dubbio su qual è la parte giusta), il giovane cineasta non è particolarmente interessato a evidenziare gli aspetti ideologici-politici del tema resistenziale. A stargli a cuore sono piuttosto i suoi due protagonisti: in quanto custodi di una memoria di cui si vanno cancellando le tracce; e in quanto portatori del segno di un vissuto vero e di un palpito giovanile che nella nostra apatica società non vibra più».
La storia, amarissima, si chiude su dei sorrisi, quelli di Alberto e Natalino (quello dell’amico Silurino nella loro memoria), che sembrano farsi beffe di una società e di una storia che li ha rapidamente dimenticati: «Lo spirito della Resistenza! Oggi tutta questa storia interessa poco a noi che l’abbiamo vissuta, figuriamoci agli altri! Non è rimasto niente. Lapidi, corone rinsecchite, bei discorsi. Non frega più niente a nessuno…».
Eppure Gaglianone, come Luchetti, Chiesa e Diritti, sembra voler andare, sotto questo aspetto, “in direzione ostinata e contraria”: nel recupero (anche a livello estetico e parzialmente neorealista) di una dimensione memoriale mondata dal tempo che ci separa da quegli eventi.
Il senso dell’operazione, non solo filmica, sta nella chiusa che leggiamo a I nostri anni: «I nostri anni sono passati come una storia che ci è stata raccontata e il luogo dove accaddero queste cose non ne serberà traccia». La stessa considerazione proviene, a distanza di anni, dall’ultimo film del maestro Ermanno Olmi, con il racconto della Grande Guerra (Torneranno i prati, 2014): «Dopo una disfatta, tutti tornano a casa loro e dopo un po’ tornerà l’erba sui prati…». 
Contro la tentazione della rimozione e dell’oblio - come sottolinea con forza anche Margarethe Von Trotta nel suo Hannah Arendt (2014) - non vale soltanto la forza del ricordo, ma anche quella del pensiero, della riflessione su ciò che è stato. Quella che permea, fuor di retorica, il racconto dell’eccidio di Monte Sole in provincia di Bologna (la strage di Marzabotto, avvenuta tra il 28 settembre e il 5 ottobre 1944 ad opera dei nazi-fascisti sulle popolazioni civili), di cui Giorgio Diritti mostra i prodomi ne L’uomo che verrà («volevo far fare agli spettatori un viaggio nel 1944»). 
«Succede ancora. Ogni tanto un regista allergico alle convenzioni soffia via la polvere da pagine che credevamo di sapere a memoria. Quanti film abbiamo visto sugli orrori nazisti? Quante stragi, quanti rastrellamenti, quanti tedeschi urlanti in armi? L'uomo che verrà di Giorgio Diritti è il contrario di tutto questo. Non la ricostruzione di una pagina di Storia, con tutte le maiuscole e il kitsch del caso, ma il prodursi di un evento che sembra accadere sotto i nostri occhi per la prima volta.
È ciò che il cinema cerca di fare quasi sempre, non riuscendoci quasi mai. [...]». 
La storia è vista (letteralmente, perché non parla dalla prematura morte di un fratellino) e narrata in voice over da Martina (Greta Zuccheri Montanari), una bambina di otto anni che vive, tra solitudine e momenti corali, il quotidiano trascorrere del tempo di una comunità contadina alle pendici del Monte Sole: le favole magiche e spaventose ascoltate d’inverno nella stalla, mentre le donne intrecciano fascine; la neve che cade di notte, dal cielo plumbeo; le rondini che tornano a percorrere il cielo in primavera; il giorno in cui si uccide il maiale e quello in cui si cuce il vestito per la prima comunione. E’ una comunità al femminile, quella di Martina, dove gran parte di quello che accade passa attraverso gli sguardi (e le parole, pronunciate in dialetto bolognese) della nonna, della mamma Lena (Maya Sansa), della zia Beniamina (Alba Rohrwacher), che Diritti filma con quel ritmo lento, quell’attenzione alle azioni minime e quel rispetto che l’esperienza dell’olmiana Ipotesi Cinema gli ha lasciato. 
Scrive Martina in un tema: «I tedeschi hanno le armi e sparano contro il nemico, che non so chi è»; e così Armando, il papà di Martina, in risposta al padrone del podere che coltiva («è la Storia che è piena di guerre…»), sbotta: «chi se ne frega della Storia e di chi la fa? Che storia è questa?». Diritti ritrae, come stando in punta di piedi su una soglia ma anche con grande eppure delicata partecipazione emotiva, l’inconsapevolezza: dei civili prima di tutto, e poi delle milizie partigiane, le cui azioni mettono in serio pericolo le vite degli abitanti della valle, e forse anche quella dei soldati semplici tedeschi, che Martina e suo padre trovano a giocare con delle uova in cucina, passando nei loro occhi quando gli viene intimato di far fuoco su donne e bambini.
Un’inconsapevolezza tragica, comune alle altre storie sulla Resistenza raccontate dalle pellicole dell’ultimo decennio prese in esame, cui fa il paio un’altra questione, evidenziata dalla battuta lapidaria di un comandante nazista: «è una questione di educazione: tutti noi siamo ciò che ci hanno insegnato ad essere».  
Come sarà, che cosa diventerà, allora, “l’uomo che verrà”? Per capirlo e, nello stesso tempo, per continuare a mantenere vivo nella memoria ciò che è avvenuto, forse il miglior modo è quello di cullarlo e di prestargli ascolto, come fa Martina nell’ultima inquadratura del film.    
                        
Bibliografia                                      
Borioli, Daniele - Botta, Roberto, Sulla moralità nella Resistenza. Conversazione con Claudio Pavone, in “Quaderno di storia contemporanea”, Isral, Istituto Storico della Resistenza di Alessandria, n. 10, 1991
Cereja, Federico, La cinematografia sulla Resistenza nella storia italiana (1944-1964), in AA.VV., Cinema, storia, Resistenza (1944-1985), Franco Angeli, Milano, 1987
Focardi, Filippo, La guerra della memoria. La Resistenza nel dibattito politico italiano dal 1945 ad oggi, Laterza, Roma, 2005
Morandini, Morando, Il Morandini 2013, Zanichelli, Bologna, 2012
Pavone, Claudio, Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità della Resistenza, Bollati Boringhieri, Torino, 1991

Vercelli, Claudio, Cinema resistente: uno sguardo d’insieme sulla Raffigurazione della Resistenza dal dopoguerra ad oggi, in “Asti contemporanea”, rivista dell'Israt, Istituto Storico della Resistenza di Asti, n. 11, 2005 

Filmografia
Roma città aperta 
Regia: Roberto Rossellini; interpreti: Anna Magnani, Aldo Fabrizi, Marcello Pagliero, Vito Annichiarico, Nando Bruno; origine: Italia, 1945; durata: 100’.

Il sole sorge ancora 
Regia: Aldo Vergano; interpreti: Elli Parvo, Massimo Serato, Lea Padovani, Vittorio Duse, Carlo Lizzani, Gillo Pontecorvo, Checco Rissone, Giuseppe De Santis; origine: Italia, 1946; durata: 82’.

Paisà 
Regia: Roberto Rossellini; interpreti: Carmela Sazio, Robert Van Loon, Benjamin
Emmanuel, Harold Wagner, Merlin Berth, Alfonsino Pasca; origine; Italia, 1946; durata: 124’. 

Achtung! Banditi! 
Regia: Carlo Lizzani; interpreti: Gina Lollobrigida, Andrea Checchi, Lamberto
Maggiorani, Vittorio Duse, Giuseppe Taffarel, Giuliano Montaldo; origine: Italia, 1951; durata: 100’.   

Gli sbandati 
Regia: Francesco Maselli; interpreti: Lucia Bosé, Isa Miranda, Jean-Pierre Mocky,
Antonio De Teffè, Giuliano Montaldo, Ivy Nicholson, Joop van Hulzen, Terence Hill, Dori Ghezzi; origine: Italia, 1955; durata: 102’. 

Il generale della Rovere 
Regia: Roberto Rossellini; interpreti: Vittorio De Sica, Hannes Messemer, Vittorio
Caprioli, Mary Greco, Lucia Modugno, Sandra Milo, Giovanna Ralli; origine: Italia, 1959; durata: 132’.

Kapò
Regia: Gillo Pontecorvo; interpreti: Susan Strasberg, Laurent Terzieff, Emmanuelle Riva, Didi Perego, Gianni Garko, Paola Pitagora, Annabella Besi, Graziella Galvani;  origine: Italia, Francia, Jugoslavia, 1959; durata: 118’.  

Era notte a Roma 
Regia: Roberto Rossellini; interpreti: Peter Baldwin, Laura Betti, Sergei Bondarchuk, Sergio Fantoni, Hannes Messemer, Giovanna Ralli, Enrico Maria Salerno, Renato Salvatori, Paolo Stoppa; origine: Italia, 1960; durata: 120’. 

La lunga notte del ’43 
Regia: Florestano Vancini; interpreti: Belinda Lee, Gabriele Ferzetti, Enrico Maria
Salerno, Andrea Checchi, Nerio Bernardi, Isa Querio, Raffaella Carrà, Loris Bazzocchi; origine; Italia, 1960; durata; 106’.  

Tutti a casa 
Regia: Luigi Comencini; interpreti: Alberto Sordi, Eduardo De Filippo, Serge
Reggiani, Martin Balsam, Carla Gravina, Didi Perego, Claudio Gora, Mario Feliciani, Mac Ronay; origine: Italia, 1960; durata: 120’. 

Tiro al piccione 
Regia: Giuliano Montaldo; interpreti: Jacques Charrier, Sergio Fantoni, Gastone
Moschin, Francisco Rabal, Eleonora Rossi Drago, Franca Nuti; origine: Italia, 1961; durata: 114’.  

Il terrorista 
Regia: Gianfranco DeBosio; interpreti: Gian Maria Volonté, Philippe Leroy, Roberto
Seveso, Giulio Bosetti, Tino Carraro, José Quaglio, Raffaella Carrà, Franco Graziosi, Anouk Aimée; origine: Italia-Francia, 1963; durata: 100’.  


Mussolini, ultimo atto 
Regia: Carlo Lizzani; interpreti: Rod Steiger, Franco Nero, Lisa Gastoni, Lino
Capolicchio, Giuseppe Addobbati Manfred Freiberger, Umberto Raho, Henry Fonda; origine: Italia, 1974; durata: 125’. 

Il sospetto di Francesco Maselli 
Regia: Francesco Maselli; interpreti: Gian Maria Volonté, Annie Girardot, Renato
Salvatori, Gabriele Lavia, Felice Andreasi, Franco Balducci, Luciano Bartoli; origine: Italia, 1975; durata: 115’. 

L’Agnese va a morire
Regia: Giuliano Montaldo, dal romanzo di Renata Viganò; interpreti: Ingrid Thulin, Stefano Satta Flores, Michele Placido, Aurore Clément, Ninetto Davoli, William Berger, Flavio Bucci, Rosalino Cellamare, Aldo Reggiani; origine: Italia, 1976; durata: 135’.  

La notte di San Lorenzo
Regia: Paolo e Vittorio Taviani; interpreti: Omero Antonutti, Margarita Lozano, Claudio Bigagli, Miriam Guidelli, Enrica Maria Modugno, Sabina Vannucchi, Paolo Hendel, Giorgio Naddi, Renata Zamengo; origine: Italia, 1982; durata: 105’. 

Claretta 
Regia: Pasquale Squitieri; interpreti: Claudia Cardinale, Giuliano Gemma, Caterina Boratto, Fernando Briamo, Nancy Brilli, Miriam Petacci, Angela Goodwin, Maria Mercader, Catherine Spaak; origine: Italia, 1984; durata: 127’. 

Notti e nebbie (film per la televisione)
Regia: Marco Tullio Giordana, dal romanzo di Carlo Castellaneta; interpreti: Umberto Orsini, Laura Morante, Senta Berger, Eleonora Giorgi, Gerardo Amato, Maurizio Donadoni, Gerard Desarthes, Massimo Foschi; origine: Italia, 1984; durata: 160’.  

Io e il duce 1985 (film per la televisione)
Regia: Alberto Negrin; interpreti: Bob Hoskins, Susan Sarandon, Anthony Hopkins, Annie Girardot, Barbara De Rossi, Massimo Dapporto, Vittorio Mezzogiorno, Kurt Raab; origine: Italia, 1985; durata: 120’.  
Il caso Martello
Regia: Guido Chiesa; interpreti: Felice Andreasi, Giorgio Bucassi, Valeria
Cavalli, Luigi Diberti, Bruno Gambarotta, Alberto Gimignani, Vittoria Lottero, Ivano Marescotti; origine: Italia, 1991; durata: 92’. 
Nemici d’infanzia 
Regia: Luigi Magni; interpreti: Renato Carpentieri, Paolo Murano, Giorgia Tartaglia,
Nicola Russo, lena Berera, Elodie Treccani, Gregorio Gandolfo, Luigi Diberti, Diego Cipolletti, Stefano Gianfico; origine: Italia, 1995; durata: 106’. 

I piccoli maestri 
Regia: Daniele Luchetti, dal romanzo di Luigi Meneghello; interpreti: Stefano Accorsi, Stefania Montorsi, Giorgio Pasotti, Diego Gianesini, Filippo Sandon, Marco Paolini, Marco Piras, Stefano Scandaletti, Manuel Donato; Luigi Mercanzin, Massimo Santelia; origine: Italia, 1997; durata: 116’. 

Porzus
Regia: Renzo Martinelli; interpreti: Gabriele Ferzetti, Gianni Cavina, Massimo
Bonetti, Gastone Moschin, Giuseppe Cederna, Giulia Boschi, Lorenzo Crespi; origine: Italia, 1997; durata: 110’. 

Il partigiano Johnny 
Regia: Guido Chiesa, dal romanzo di Beppe Fenoglio; interpreti: Stefano Dionisi, Andrea Prodan, Fabrizio Gifuni, Giuseppe Cederna, Alberto Gimignani, Claudio Amendola, Stefano Scherini, Chiara Muti, Umberto Orsini, Felice Andreasi; origine: Italia, 2000; durata: 135’. 

I nostri anni 
Regia: Daniele Gaglianone; interpreti: Virgilio Biei, Giuseppe Boccalatte, Piero
Franzo, Massimo Miride, Enrico Saletti, Diego Canteri; origine: Italia, 2001; durata: 88’.  

L’uomo che verrà
Regia: Giorgio Diritti; interpreti: Maya Sansa, Alba Rohrwacher, Claudio Casadio, Greta Zuccheri Montanari, Maria Grazia Naldi, Stefano “Vito” Bicocchi, Eleonora Mazzoni, Orfeo Orlando, Diego Pagotto, Bernardo Bolognesi; origine: Italia, 2009; durata: 117’.  

Torneranno i prati 
Regia: Ermanno Olmi; interpreti: Claudio Santamaria, Alessandro Sperduti, Francesco Formichetti, Andrea Di Maria, Camillo Grassi, Niccolò Senni, Domenico Benetti, Andrea Benetti, Francesco Nardelli; origine: Italia, 2014; durata: 80’.




da Barbara Rossi  Dal 17 marzo alle 17.30 al 14 aprile alle 19.00 Spazio Multiculturale di Associazione Spazioidea e Libreria Fissore Ubik, Via Del Vescovado 4, Alessandria 
«Il cinema, come la filosofia, può raccontare tutto»
(Paolo Sorrentino)
La voce della luna - Associazione di cultura cinematografica e umanistica, in collaborazione con l' Associazione Spazioidea e la Libreria Fissore Ub!k di Alessandria, organizza tre appuntamenti pomeridiani di riflessione sui grandi temi della filosofia, prendendo spunto dalle narrazioni di alcune fra le opere più rappresentative del cinema mondiale.
Martedì 17 Marzo
Orson Welles Radici e memoria
h.17.30-19.30 (Quarto potere)
Martedì 31 Marzo
Ermanno Olmi La bellezza del caso
h.17.00-19.00 (La leggenda del santo bevitore)
Martedì 14 Aprile
S. Kubrick-A. Tarkovskji Odissee nel pensiero e nell’uomo
h.17.00-19.00 (A Space Odissey-Stalker)
Conduttori:
Prof. Michele Maranzana; Prof. Nuccio Lodato; Dott.ssa Barbara Rossi
Spazio Multiculturale di Associazione Spazioidea e Libreria Fissore Ubik, Via Del Vescovado 4, Alessandria
Ingresso libero previo tesseramento associativo a
"LA VOCE DELLA LUNA": euro 10
Info: 340/9418376; lavoce.dellaluna@virgilio.it
E’ gradita un’adesione preventiva tramite mail.


SIAMO DONNE: rappresentazioni cinematografiche del femminile - ANNA MAGNANI e INGRID BERGMAN

da Barbara Rossi Lunedì 9 marzo alle ore 21.15 all’Associazione Cultura E Sviluppo Alessandria
Nell'ambito della rassegna "Marzo Donna 2015", organizzata dall'Assessorato Politiche di Genere e dalla Consulta Comunale Pari Opportunità AlessandriaLa voce della luna - Associazione di cultura cinematografica e umanisticae il Circolo Adelio Ferrero di Alessandria organizzano un incontro sul tema "Siamo donne: rappresentazioni cinematografiche del femminile", viaggio per immagini e racconti nell’itinerario artistico di due dive a confronto: Anna Magnani e Ingrid Bergman.
Dialogano sul tema: Francesca Brignoli, esperta di cinema, specialista di attività dello spettacolo presso l’Assessorato alla Cultura della Provincia di Pavia, autrice - con Nuccio Lodato - del libro “Ingrid Bergman. La vertigine della perfezione” (Le Mani Editore, 2010); Barbara Rossi, esperta di linguaggi cinematografici, formatrice in Media Education, presidente dell’Associazione di cultura cinematografica e umanistica 'La voce della Luna' di Alessandria, autrice di un testo su Anna Magnani, di prossima uscita per Le Mani Editore; Roberto Lasagna, saggista e critico, fondatore della casa editrice Falsopiano, presidente del Circolo del Cinema
'Adelio Ferrero' di Alessandria. 
L'incontro avrà inizio alle ore 21.15, presso la sede dell' Associazione Cultura e Sviluppo Alessandria, Piazza Fabrizio De André 76.
Ingresso libero.
Info: Associazione La voce della Luna: www.voceluna.altervista.org;lavoce.dellaluna@virgilio.it;
Circolo del Cinema Adelio Ferrero: www.circoloferrero.blogspot.itcircoloferrero@gmail.com




Rassegna cinematografica Acit Film Forum
Gent.mi, sono lieta di annunciarvi, come ogni anno, la ripresa delle proiezioni dell'Acit Film Forum, da febbraio a maggio 2015, che in questo nuovo ciclo saranno dedicate alle raprresentazioni della città di Berlino prima e dopo il crollo del Muro.
Il primo appuntamento con la rassegna di film (in lingua originale tedesca, con sottotitoli in italiano) è per lunedì 16 febbraio, alle ore 21.15, presso la sede dell'Associazione Cultura e Sviluppo, piazza De André 76, Alessandria. Potremo assistere alla visione del film "KUHLE WAM PE oder: wem gehört die welt ?
(Kuhle Wampe o A chi appartiene il mondo?), di Slatan Dudow, 1932, prezioso anche per la rarità della sua diffusione pubblica.   
L'ingresso è libero. 
Vi aspettiamo, un cordiale saluto




Barbara Rossi
La voce della Luna
Associazione di cultura cinematografica e umanistica, Alessandria
Lunedì 16 febbraio, alle 21.15, presso la sede dell’Associazione Cultura e Sviluppo di Alessandria (piazza De André 76), prende il via la nuova rassegna filmica dell’ACIT di Alessandria.
L’ACIT Film Forum è un appuntamento mensile con il cinema tedesco, in lingua originale e sottotitoli italiani, organizzato da Associazione Culturale Italo Tedesca (ACIT) di Alessandria e Goethe-Institut Turin, in collaborazione con Cultura e Sviluppo e La Voce della Luna, associazione di cultura cinematografica e umanistica. Il ciclo di proiezioni di quest'anno è dedicato alla città di Berlino e presenta quattro film che raccontano luoghi e momenti storici particolarmente significativi di una città in continua mutazione, laboratorio e crocevia di culture.
Introduce le proiezioni Barbara Rossi, docente di cinema e presidente dell’associazione La Voce della Luna di Alessandria.
Apre la rassegna "Kuhle Wampe", sceneggiato da Bertolt Brecht, ritrae Berlino durante uno dei suoi periodi più drammatici: la grande depressione seguita al crollo delle borse del 1929, con la città in preda alla disoccupazione, agli sfratti e agli ultimi tentativi di resistenza di fronte all'affermarsi del nazismo.
“Herr Lehmann” (Il signor Lehmann), ambientato a Berlino-Kreuzberg nel 1989, poco prima della caduta del Muro, racconta le vicissitudini di un giovane barista, Frank Lehmann, ormai quasi trentenne – scherzosamente chiamato dai suoi amici “Herr Lehmann” – che proprio non ne vuole sapere di diventare adulto. La sua quotidianità viene scombussolata dalla visita dei genitori, costringendolo a fingersi ristoratore.
Tratto dal romanzo d’esordio omonimo di Sven Regener, il film ha ottenuto diversi riconoscimenti, tra cui l’ambito Lola per la migliore sceneggiatura.
"Berlino - Angolo Schonhauser" racconta la vita a Prenzlauer Berg, quando durante la guerra fredda era un quartiere popolare di Berlino Est a diretto contatto con la "vetrina del mondo libero", prima che la caduta del Muro ne facesse una delle zone più rinomate dell'odierna Berlino "povera ma sexy", attraversata da flussi migratori, turistici e finanziari.
"L'estranea" è ambientato infine tra l'attuale comunità turca di Berlino, la più grande al di fuori dei confini nazionali, nei quartieri popolari di Kreuzberg e Neukolln.
Sede proiezioni:
ACIT Alessandria / Cultura e Sviluppo
Piazza Fabrizio de André 76 
Alessandria

Ingresso libero

Lingua originale con sottotitoli italiani

Informazioni: Tel.: +39 347 841 5155




La persistenza del male: la lezione della Shoah nell'epoca del terrorismo globale
by Barbara Rossi Mercoledì 4 febbraio dalle ore 8.30 alle ore 13.00 al Cinema Teatro Alessandrino Via Verdi, 12, Alessandria
L'Istituto Saluzzo-Plana di Alessandria e 'Articolo 3', network contro la discriminazione, organizzano per mercoledì 4 febbraio una mattina di studi dal titolo "La persistenza del male: la lezione della Shoah nell'epoca del terrorismo globale".
PROGRAMMA DELLA MATTINA:
8.30-9.10 Introduzione ai lavori: saluto e riflessioni degli Enti presenti nella Rete
9.10-9.30 Antonella Ferraris: L'emarginazione e il silenzio (il tema del male e dell'esclusione nel pensiero di Hannah Arendt)
9.30-9.45 La MEMORIA nella scuola: Gianni Giavotto presenta 'Maurilio Gho, un testimone alessandrino', documentario dei Progetti I LUOGHI
DELLA MEMORIA e OFFICINEMA dell'Istituto Saluzzo
Giampiero Armano presenta 'Giuseppe Sericano e il senso della testimonianza, oggi'
9.45-10.25: Testimonianza di Giuseppe Sericano, partigiano alla Benedicta, deportato a Mauthausen e Gusen
10.25-10.40: Pausa
10.40-11.05: Presentazione delle Associazioni della Rete
11.05-12.55: Visione di "Hannah Arendt" di Margarethe Von Trotta, presentato dall'Associazione di cultura cinematografica e umanistica 'La voce della Luna'
INGRESSO LIBERO
La Rete: Provincia di Alessandria, CISSACA, Comune di Alessandria, Consulta Studentesca, Beaubart, Cambalache, La voce della Luna, Tessere Le Identità, IIS 'Saluzzo-Plana', ITIS 'Volta', IIS 'Marconi'
Per ragioni organizzative, si prega gli istituti scolastici di anticipare i nomi delle classi partecipanti e il numero presunto di alunni presenti.



La vita è meravigliosa e Una strega in paradiso di Barbara Rossi 
by Barbara Rossi, La Voce della Luna
Visioni di Natale
Molti critici dell’epoca (il 1946), ma anche parecchi contemporanei, davanti alla visione di It’s a Wonderful Life, sollevano un sopracciglio. Sul tema del trionfo dei buoni sentimenti, dell’ottimismo e della logica dell’happy end spiegano, il film di Frank Capra è quanto di più autoreferenziale si possa auspicare, zeppo di una retorica consolatoria (e, di conseguenza, illusoria).
Eppure, in La vita è meravigliosa, il lieto fine, conquistato a caro prezzo, a costo della vita, addirittura, arriva dopo 129 minuti di travagli, peregrinazioni, rovelli interiori e peripezie di varia natura del protagonista (e tentato suicida) George Bailey (James Stewart), il middle man in piena rovina finanziaria cui l’angelo Clarence (spedito in missione sulla Terra dall’ente supremo in persona) mostra come sarebbe stata l’esistenza se lui non fosse mai nato.
Il film - tratto dal racconto The Greatest Gift di Philip Van Doren Stern - nonostante le accuse di superficialità, ottenne cinque candidature ai premi Oscar, ed è stato inserito, nel 1998, tra i migliori cento film americani di tutti i tempi.
In che cosa consiste, allora, il fascino sempreverde di La vita è meravigliosa? 
Forse nella recitazione intensa ma calibrata di James Stewart, in grado di conferire credibilità a un personaggio “comune” alle prese con le quotidiane avversità della vita; nella solarità, freschezza e determinazione della Mary Bailey di Donna Reed; nel - parafrasando Lubitsch - “Capra’s touch”, che nel contrasto tra la lievità della messinscena e la drammaticità dell’assunto, ammanta la visione di polvere di stelle (e di neve).
Quanto alla presunta autoreferenzialità, all’ottimistico pragmatismo tipicamente americano e alla poetica consolatoria della solidarietà sociale, è probabile che l’insieme di questi fattori non basti a squalificare una pellicola che è ormai divenuta un ‘classico’. Non solo di Natale.
Se amate l’aplomb di James Stewart, la sua recitazione compassata, elegante ma ironica; se vi seduce la bellezza algida ma misteriosa e, a tratti, inquietante di Kim Novak; se siete degli estimatori della sophisticated comedy americana, e delle sue atmosfere eleganti e raffinate; infine, se nel vostro animo cinefilo covate una segreta predilezione per quelle pellicole in cui parte integrante della storia si rivelano i gatti, non perdete l’occasione per godervi Una strega in paradiso (Bell, Book and Candle, 1958) di Richard Quine, tratto dalla pièce teatrale di John Van Druten.
Deliziosa e originale commedia romantica ambientata al Greenwich Village newyorkese, protagonista la bellissima strega Gil (Kim Novak), abituata a tessere le sue magiche trame nel proprio atelier antiquario, insieme al gatto Cagliostro, il film ha ricevuto nel 1959 una doppia candidatura ai premi Oscar, per la migliore scenografia e i costumi.   
L’atmosfera, seducente e maliziosa, in cui si snodano le schermaglie amorose tra Gil e il riottoso scapolo di cui è segretamente innamorata, il suo vicino di casa ed editore Shepherd Henderson (James Stewart), scettico e razionalista per vocazione; le musiche, le scene e l’illuminazione, calda e scintillante, oltre all’affiatamento del quartetto di interpreti (oltre a Novak e Stewart, anche la zia Queenie - Elsa Lanchester - e Nicky - Jack Lemmon -  il fratello di Gil), rendono il film un piccolo gioiello natalizio.   
Su tutti spicca, ovviamente, Cagliostro, il siamese color fumo di Londra compagno prediletto di Gil, anch’esso dotato di magici poteri…ma, in fondo, che i gatti siano creature dai poteri straordinari e ancora inesplorati, da secoli fedeli compagni delle streghe di qualsiasi nazionalità è risaputo…no?
Felice 2015 di buoni film da La voce della luna!             


L’amore bugiardo - Gone girl di Barbara Rossi  
(Gone girl, David Fincher, 2014) 
by Barbara Rossi La Voce della Luna
Tratto dal best seller di Gillian Flynn, L’amore bugiardo - Gone girl è un trattato di teoria e pratica sull’eterna dicotomia finzione - realtà, applicato alla maniera finchiana a un rapporto di coppia, quello tra Nick (Ben Affleck) ed Amy (Rosamund Pike), che diventa emblematico simbolo della crisi in cui versano, da qualche decennio, i rapporti fra uomo e donna.
Due giovani, belli, di talento, molto abili nel confezionare parole e trame: una fase dell’innamoramento esaltante, come spesso accade, seguita da un prevedibile ma in apparenza felice matrimonio, almeno sino a quando la perdita dei rispettivi lavori incrina l’esteriore solidità del sodalizio, facendone affiorare le crepe e gli scheletri (sanguinari) sepolti nell’armadio.
Inizia così la sarabanda infernale di Nick, marito senza troppe qualità, e l’altissimo scotto da pagare per aver consenzientemente sepolto la brillante e avvenente moglie nel vuoto e nello squallore di una enorme casa, nella profonda e sonnolenta provincia americana.
Dove nulla è come appare: e vicini di casa dai mille occhi, finte amiche pettegole, improbabili testimoni sono pronti a giurare di aver visto l’invisibile, e disponibili a rovinare una vita.
David Fincher, in linea con il suo immaginario cinematografico inquietante, violento, potentemente nero, attraversato da schegge di follia e da un pessimismo esistenziale che non offre spazio all’happy end (vedi Seven), decostruisce l’immagine fintamente glamour di una coppia, conducendo i suoi personaggi-pedine nel grottesco imbuto della paranoia più spinta, del linciaggio prodotto da una società massmediatica isterica, volgare, aggressiva, sempre smaniosa di sbattere il mostro in prima pagina.   
Efficaci sia Ben Affleck, nell’insistita non espressività del volto e del corpo, sia, in particolar modo, Rosamund Pike, nella sbandierata doppiezza, tremenda e assassina, della sua “mitica Amy”.
Un film dal ritmo sincopato e teso, che cattura come la ragnatela in cui Nick si ritrova, suo malgrado, imprigionato: da godere, nonostante un certo sfilacciamento della trama e delle situazioni narrative sul finale, e da cui farsi sedurre lentamente, per riflettere su verità e apparenza, essenza e rappresentazione, sull’atto del guardare e su quello, irrimediabilmente più complesso e, in certi casi, addirittura tragico, del saper vedere.       



Un Natale di Maigret Gino Landi
by Barbara Rossi  
(Le inchieste del commissario Maigret, serie tv, prima stagione, 24 gennaio 1965)
Per i nostalgici della televisione (rigorosamente in bianco e nero) che non c’è più, quella, per intenderci, dei grandi sceneggiati (allora si chiamavano così) trasmessi dalla tv nazionale, merita una nuova visione, in questo periodo natalizio, “Un Natale di Maigret”, episodio della serie “Le inchieste del commissario Maigret”, prima stagione, andato in onda per la regia di Gino Landi il 24 gennaio 1965.
La serie, divenuta ora di culto sia per chi ama le avventure del poliziotto nato dalla penna di Georges Simenon (il racconto da cui la puntata è tratta si intitola Un Noël de Maigret, e fu composto il 20 maggio 1950 a Carmel, in California), sia per gli ammiratori del compianto Gino Cervi, ebbe alla sua prima messa in onda un successo tale da spingere gli sceneggiatori della Rai a metterne in cantiere altre tre, sino al 1972.
Lo stesso Simenon, del resto, ebbe a dichiarare che il Maigret di Cervi era quello che più si avvicinava all’idea che lui stesso si era fatto del suo personaggio, superando persino il “mostro sacro” Jean Gabin.
Qual è il fascino di questo Natale del celeberrimo commissario? Lo stesso che connota l’intero sceneggiato, dovuto in gran parte allo straordinario connubio attoriale nato tra Cervi e Andreina Pagnani, efficacissima interprete di una signora Maigret dimessa, sottotono, quasi succube (ma felice di esserlo) del geniale ma spigoloso consorte. 
Conquistano, facendoci scivolare rapidamente nella storia, la descrizione del ‘menage’ matrimoniale dei due, assolutamente banale, quasi noioso a volte, nell’assoluta ordinarietà delle discussioni, delle piccole tensioni e scaramucce, della complicità impalpabile eppure evidente; il naturalismo della recitazione degli interpreti, dai protagonisti Cervi e Pagnani sino alle figure di contorno, espressione di un saldo mestiere d’attore di origine teatrale, ma adattato al contesto e alle esigenze del piccolo schermo; la tensione che scaturisce dalle trame, nell’efficacia della trasposizione dai romanzi di Simenon; l’accuratezza e il fascino della ricostruzione d’ambiente, la Parigi tra la fine degli anni Cinquanta e l’inizio dei Sessanta, sia negli interni, l’appartamento decisamente demodé del commissario Maigret, l’affollato e fumoso commissariato, i locali alla moda, crocevia di faccendieri e loschi traffici, gli uffici e i luoghi pubblici, sia in esterno: il lungosenna, con la sua varia umanità, le strade e le piazze, il centro affollato, i giardini pubblici (teniamo d’occhio, a questo proposito, la passeggiata in notturna di Maigret a Place Pigalle che accompagna la sigla d’apertura di quest’episodio natalizio).
E, alla fine, lasciamoci catturare dall’atmosfera festosa ma vagamente perturbante della mattina di Natale di Maigret, che si snoda sin dalle prime scene come un’infinita attesa: del risveglio del celebre commissario, del caffè preparato nella macchinetta nuova di madame Maigret, della neve che sembra sempre lì lì per cadere, di due sconosciute vicine di casa, venute a turbare la pace domestica di casa Maigret con il racconto impossibile di un babbo natale che fa un buco nel pavimento della camera da letto di una bambina, per lasciarle una bambola in dono…e, come in ogni poliziesco che si rispetti, della risoluzione dell’enigma.



Progetto "Dreamwork",
by Barbara Rossi, Associazione La Voce della Luna
Giovedì 18 dicembre, presso la Sala Bobbio della Biblioteca Civica “Francesca Calvo” di Alessandria, è stato presentato il progetto “Dreamwork”, che - grazie al sostegno del bando di concorso promosso dalla Provincia di Alessandria - ha coinvolto l’Associazione di cultura cinematografica e umanistica “La voce della luna”, l’Associazione “Amici del Museo” (Museo “C'era una volta”, Piazza della Gambarina) e l’IIS “Saluzzo-Plana” di Via Faà di Bruno.
Il progetto ha permesso ai ragazzi del Saluzzo di prendere parte a una serie di laboratori sul linguaggio visivo, e di realizzare, alla fine del percorso formativo, un video che li vede protagonisti: “You Are”, sotto la guida del videomaker alessandrino Lucio Laugelli. 
«Rendere la scuola preparazione alla vita»: così il professor Michele Maranzana del Liceo delle Scienze Umane ha introdotto le attività svolte dai ragazzi della 3BS dell'istituto Saluzzo-Plana nell'ambito del progetto e dei laboratori “Dreamwork”, realizzati con il patrocinio e il sostegno della Provincia di Alessandria (con riferimento al Bando di concorso emanato dalla suddetta per l’erogazione di contributi finalizzati a progetti e iniziative a favore dei giovani).
«I ragazzi sono diventati protagonisti attivi, secondo l’approccio formativo della Media Education » - ha spiegato Barbara Rossi che insieme a Serena Piscitello, Lucio Laugelli e Mariano Mosconi sono stati i formatori dei laboratori e della fase 1 del progetto - «L'obiettivo era quello di stimolare la loro creatività in tutto quello che fa parte del mondo del linguaggio visivo». «Uno dei compiti fondamentali della scuola - ha aggiunto il professor Maranzana - è l'orientamento, ovvero formare alla vita, al mondo del lavoro». Sono numerose, sotto questo profilo, le attività di volontariato realizzate dal “Saluzzo-Plana” con la Ludoteca, l'Ics e il Cissaca, nel “Progetto di volontariato, progetto di vita”; ma importanti sono anche le attività di orientamento coordinate con la Provincia, la formazione professionale e l'Informagiovani, i percorsi per ragazzi diversamente abili, i percorsi di stage in alternanza e in progettazione di impresa.
Conclusa questa prima tappa, l’associazione “La voce della luna” sta già lavorando all’ideazione della fase 2 del progetto, che spera di poter realizzare, fondi permettendo, nel corso del 2015.     




Trash (Stephen Daldry, 2014)
by Barbara Rossi
Da giovedì 27 novembre esce anche nelle sale italiane l’ultimo lavoro di Stephen Daldry, il regista di “Billy Elliot” (2000), vincitore del premio BLN del pubblico all’ultimo Festival cinematografico di Roma. Il film è tratto dal romanzo di Andy Mulligan “Trash, una storia di soldi e bambini sporchi”, che è stato sceneggiato da Richard Curtis.
Quando due ragazzini che smistano rifiuti nelle favelas di Rio trovano un portafoglio in mezzo ai detriti giornalieri della discarica locale, fanno presto ad immaginare che le loro vite cambieranno per sempre. Solo quando la polizia locale si fa avanti, offrendo loro una generosa ricompensa in cambio del portafoglio, i ragazzini, Rafael (Rickson Tevez) e Gardo (Luis Eduardo), si rendono conto dell’importanza del loro ritrovamento. Con l’aiuto del loro amico Rato (Gabriel Weinstein), il trio inizia una straordinaria avventura cercando di tenersi stretto il portafoglio, eludere la polizia, e scoprire i segreti che nasconde. 
Lungo il percorso, i ragazzi dovranno distinguere gli amici dai nemici, cercare di ricostruire la storia del portafogli e risalire al proprietario, rendendosi conto di non potersi fidare della polizia. Ma una coppia di missionari americani che lavora nella loro favela - il disilluso Padre Julliard (Martin Sheen) e la sua giovane assistente Olivia (Rooney Mara) - potrebbe indirizzarli sulla strada giusta.
Il produttore Kris Thykier ha da subito colto le potenzialità del libro e del film: «Siamo in un periodo d'oro per la narrativa young adult, che affronta temi scottanti. Molte storie dei più importanti adattamenti cinematografici provengono proprio da quell’universo. Trash non vuole edulcorare il mondo in cui vivono i personaggi. Questi ragazzini vivono in una realtà particolarmente difficile, ed è importante mostrarne non solo l'orrore e la miseria, ma anche che le condizioni delle persone che vivono all'interno di queste comunità, essendo pur sempre degli esseri umani». 
Martin Sheen, che interpreta Padre Julliard, avvicina la storia a Le Avventure di Huckleberry Finn di Mark Twain. «Si tratta della storia di questi tre ragazzini, del loro ottimismo, del coraggio e del senso di avventura. Ci danno davvero modo di credere che è possibile superare degli ostacoli insormontabili, e risolvere dei problemi incredibilmente ardui.» 
Lo sceneggiatore Richard Curtis aggiunge: «Le cose possono cambiare, e il Brasile ne è un ottimo esempio. Questo film mostra la corruzione e la violenza, ma in realtà è la lotta contro tutto ciò che emerge, piuttosto che la sensazione di disillusione della gente che la vive». 
Conclude Sheen: «Raccomando questo film ai bambini, agli adolescenti ed agli adulti, perché è davvero rivolto a tutti. Stiamo vivendo un periodo molto difficile, in cui i giovani non sono realmente incoraggiati a perseguire i loro sogni. Trash dice: non solo si può vivere una vita eroica, ma bisogna farlo».
Si consiglia caldamente la visione di questo film: sull’onda, speriamo non solo emozionale ed effimera, di una recente riscoperta da parte del cinema delle storie in cui ad agire, a porsi domande, a rappresentare il principale perno narrativo e l’arco di evoluzione del personaggio sono degli adolescenti (vedi il recente “Boyhood” di Richard Linklater e l’ultimo film di Jeff Nichols, “Mud”, 2012).
Molto convincenti, nel caso di “Trash”, risultano anche le interpretazioni dei tre ragazzini protagonisti, non professionisti e selezionati dalla produzione nei luoghi stessi delle riprese dopo una lunga ricerca. Terminata la loro partecipazione al film, sono stati aiutati nel proseguire gli studi e stimolati nel coltivare la loro passione per il cinema.




Torneranno i prati (Ermanno Olmi, 2014) 
by Barbara Rossi
Dopo una disfatta, tutti tornano a casa loro e dopo un po’ tornerà l’erba sui prati…
Una trincea invernale, gelata, arida, spoglia, sepolta sotto una neve cattiva, che non è magia dell’infanzia, nonostante sia illuminata dal fioco chiarore lunare e attraversata da una piccola volpe che, nella sua irrealtà in quel contesto, pare sbucata direttamente da una fiaba infantile. 
Un avamposto militare, sprofondato nel buio e nel silenzio, attraversato soltanto dai cupi boati delle esplosioni in lontananza, dai loro fuochi alti nel cielo, che si trasformano, sul finire della notte, in assordanti lampi di luce.
Il doloroso lamento di una fisarmonica, di una tromba, sonore epigrafi per chi è già caduto, per chi cadrà sotto l’assurda mannaia della Grande Guerra: che - in quest’ultima, poetica e malinconica opera del grande vecchio Olmi - assurge a simbolo di tutti i conflitti provocati dall’uomo.
Una lanterna a olio, tenue, all’interno del rifugio: soffitti bassi, di assi tarlate, corrose, scavate come la trincea, come i volti (bellissimi e potenti i primi piani), i corpi dei soldati, senza quasi più parole che non siano presagio o profezia di una morte imminente.
“torneranno i prati” è un film diluito, rarefatto, di una bellezza tragica, di una teatralità assoluta, che proprio in virtù dell’artificio restituisce con potenza il sentimento di inutilità, di suprema idiozia che circonda le guerre di ogni latitudine e tempo. 
Onore, dunque, e - parafrasando il titolo di un suo lontano film Leone d’Argento a Venezia - lunga vita a Olmi, per la sua scelta non convenzionale e coraggiosa di raccontare la guerra in maniera antirealistica e simbolica, rinunciando al taglio cronachistico e documentario per cui molti l’hanno amato e identificato, a partire da “L’albero degli zoccoli” (1978) e ancora prima.
Olmi, pochi se ne ricordano, è stato - tra gli anni Sessanta e Settanta - non solo il cantore della morente civiltà contadina, ma anche un acuto e audace sperimentatore di nuovi canoni estetici e narrativi: pensiamo, ad esempio, alle inconsuete scelte di montaggio di una pellicola come “La circostanza” (1973).
“torneranno i prati” ricorda, invece, nell’ambientazione e nella rarefazione del tempo del racconto, “Il tempo si è fermato” (1959), l’esordio nel lungometraggio del maestro bergamasco: una storia, certo meno tragica, dell’incontro di altrettante solitudini e desolazioni.
L’importante, in entrambe le storie, è riscaldarsi perennemente al fuoco della memoria, imparare dall’esperienza per riuscire a rifondare il futuro su nuove basi.
E non dimenticare mai di quali sedimenti di passato si nutre l’erba che osserviamo ricrescere sui prati.                             
Gli accadimenti si susseguono sempre imprevedibili: a volte sono lunghe attese dove la paura ti fa contare, attimo dopo attimo, fino al momento che toccherà anche a te. Tanto che la pace della montagna diventa un luogo dove si muore. Tutto ciò che si narra in questo film è realmente accaduto. E poiché il passato appartiene alla memoria, ciascuno lo può evocare secondo il proprio sentimento.
Prima di essere bello, questo film deve essere utile. Bisogna parlare di guerra perché i conflitti non devono accendersi mai più. Bisogna sapere, conoscere, se no come può la storia essere maestra di vita? Le celebrazioni del centenario non devono essere solo uno sventolio di bandiere, ma soprattutto un modo per capire perché si arriva a massacrare il proprio e altri popoli. Sappiamo che la guerra è la più grande stupidaggine, ma siamo sempre a rischio di ricascarci. Basti pensare ora a quei popoli non molto lontani che non possono tollerare più la propria situazione. 
(Ermanno Olmi)
Barbara Rossi 
Associazione La Voce della Luna



2 dicembre - 9 dicembre Dal 2 dicembre alle 15.00 al 9 dicembre alle 18.00 al Museo Nazionale del Cinemavia Montebello 20, 10124 Torino
Il Museo Nazionale del Cinema di Torino, in collaborazione con La Voce della Luna - Associazione di cultura cinematografica e umanistica, presenta
UN' ALTRA INTELLIGENZA 
DISLESSIA E MEDIA EDUCATION
Corso di formazione gratuito rivolto a insegnanti, genitori e operatori del settore sulla dislessia
Martedì 2 dicembre 2014, ore 15.00-18.00
Museo Nazionale del Cinema - Via Montebello 20, Torino; 
Martedì 9 dicembre 2014, ore 15.00-18.00
Bibliomediateca “Mario Gromo” - Via Matilde Serao 8/A, Torino.
Il corso della durata di due incontri, si propone di fornire gli strumenti cognitivi e didattici finalizzati alla costruzione di percorsi scolastici orientati sulle peculiari caratteristiche dell’intelligenza dislessica. Ciò viene reso possibile attraverso un approccio integrato tra le più recenti acquisizione pedagogiche e gli strumenti della Media Education.
Durante gli incontri saranno forniti ai partecipanti materiali didattici di supporto.
Formatori 
Prof.ssa Patrizia Farello, psicologa dell’apprendimento, docente di scienze umane, autrice di testi su apprendimento e didattica; 
Prof. Michele Maranzana, docente di filosofia e scienze umane, autore di manuali scolastici;
Dott.ssa Barbara Rossi, esperta in linguaggi cinematografici. 
Prenotazione obbligatoria (max 30 persone)
Inviare la scheda di adesione al numero di fax 011. 8138.530 o via e-mail a didattica@museocinema.it entro il 25 novembre 2014.
Il corso è gratuito e sarà attivato a partire da un numero minimo di 10 iscritti.
Bibliomediateca Mario Gromo Via Matilde Serao 8/A Torino tel. 011/8138599 bibliomediateca@museocinema.it www.museocinema.it
Museo Nazionale del Cinema-Servizi Educativi, 
Via Montebello 22 Torino tel. 011/8138516 didattica@museocinema.it
La Voce della Luna, associazione di cultura cinematografica e umanistica; lavoce.dellaluna@virgilio.it www.voceluna.altervista.org




Convegno: Bianca la pagina – Bianco lo schermo: Alberto Lattuada 1914-2014. Sala Convegni Fondazione Cassa di Risparmio di Tortona 
by Barbara Rossi 
Tra gennaio e maggio, il Circolo del Cinema e la Libreria Namastè, con la collaborazione de La Voce della Luna, hanno dato luogo, nel centenario della nascita del grande regista milanese, al ciclo di incontro Bianca la pagina – Bianco lo schermo: Alberto Lattuada 1914-2014.
Nel corso di cinque serate, dedicate ai film tratti da opere letterarie, svoltesi presso la Namastè, sono stati analizzati e comparati ai testi scritti di provenienza (con le letture di Loretta Ortolani), in ordine cronologico di realizzazione delle opere, Il mulino del Po (da Bacchelli, a cura di Giuseppe Polimeni), Il cappotto (da Gogol, con Francesca Brignoli), La lupa (da Verga, grazie a Barbara Rossi), Venga a prendere il caffé da noi (da Chiara, proposto da Nuccio Lodato) e Cuore di cane (da Bulgakov, offerto da Nicola Santagostino).
Nel frattempo è apparso il libro postumo di Gianni Volpi dedicato a Lattuada, edito da Donzelli. Gli appassionati tortonesi sanno bene quanto la cultura cinematografica italiana e le iniziative piemontesi e locali devono al grande critico torinese, purtroppo scomparso prematuramente nei mesi scorsi: ovvia l'occasione di ricordarlo.
Così sabato 15 novembre, esatta giornata di ricorrenza secolare della nascita del maestro, la  Sala Convegni Fondazione Cassa di Risparmio di Tortona  in Via Puricelli 11 ospiterà, dalle 9 alle 13, il convegno conclusivo della manifestazione, coordinato da Nicola Santagostino, col patrocinio della Cineteca Nazionale e dell’AIACE Nazionale e con il contributo della Fondazione Cassa di Risparmio di Tortona.
Si aggiungeranno, ai cinque già citati, altri due laboratori testuali comparativi dedicati al Delitto di Giovanni Episcopo (da d'Annunzio, a cura di Manuela Bonadeo) e alla Mandragola (presentato da Giuseppe Polimeni), con particolare riguardo agli studenti degli istituti superiori che prenderanno parte alla manifestazione.
Che sarà aperta, dopo i saluti istituzionali di rito e l'introduzione del presidente del Circolo Roberto Santagostino (“I perché di un appuntamento”), da una serie di comunicazioni tematiche affidate a Lia Furxhi (“Ricordo di Gianni Volpi”), Nuccio Lodato (“Non è solo letteratura”), Francesca Brignoli (“Lattuada e le fanciulle in fiore”) e Mathias Balbi (“Prove di critica e calligrafia di un esordiente”), nuovamente con le letture di Loretta Ortolani, che porterà una testimonianza di Goffredo Fofi.




The Story Of Film, by Barbara Rossi
Da martedì 4 novembre, presso il Cinema Teatro Alessandrino, un'appuntamento settimanale pomeridiano con la magica storia del cinema raccontata per immagini dal regista Mark Cousins. Il più completo e ricco documentario dedicato alla storia del cinema mai realizzato: una panoramica che attraversa 120 anni e ripercorre le tappe fondamentali, le innovazioni tecnologiche e il segno, indelebile, lasciato dai registi e dagli artisti che hanno cambiato per sempre la storia del cinema. Dal muto all'era digitale, dallo scintillio di Hollywood al resto del mondo, un viaggio tra interviste imperdibili e ritratti inediti: i Maestri del cinema, tutti insieme, come non li avete mai visti.
Le proiezioni verranno introdotte da Nuccio Lodato e Barbara Rossi.
Info: www.voceluna.altervista.org; lavoce.dellaluna@virgilio.it;
Cinema Teatro Alessandrino: 0131/252644; info@cinemalessandrino.it
“The Story of Film”, di Mark Cousins, 2011
(15 episodi di 1 h. ciascuno)
Calendario delle proiezioni
Ore 15.30-17.30 Cinema Teatro Alessandrino,
Via Verdi 12, Alessandria
Martedì 4 novembre: Episodi 1 e 2
Martedì 11 novembre: Episodi 3 e 4
Martedì 18 novembre: Episodi 5 e 6
Martedì 25 novembre: Episodi 7 e 8
Martedì 2 dicembre: Episodi 9 e 10
Martedì 9 dicembre: Episodi 11 e 12
Martedì gennaio - febbraio 2015: Episodi 13-14; 15
Biglietto d’ingresso: Costo della tessera Voce della luna 2014/2015: euro 10.
Costo del biglietto intero (non tesserati): euro 7,50.
Costo del biglietto per i tesserati (anche per i pensionati già dotati di eventuali riduzioni): euro 5.00.
Con la tessera Voce della luna è possibile ottenere una riduzione (a euro 6,00) su tutta la normale programmazione del Cinema Multisala Kristalli e del Cinema - Teatro Alessandrino. Inoltre, grazie a una convenzione con la Libreria Fissore - Ubik di Alessandria, ai tesserati verrà praticato uno sconto del 10% sull’acquisto di libri (esclusi i testi scolastici e professionali); del 15% (10% in caso di rinfresco) sui libri oggetto di presentazioni, nel corso degli eventi e nei giorni immediatamente precedenti.




I protagonisti: percorsi nel cinema e nella letteratura
by Barbara Rossi
Rassegna per le scuole
Il ciclo di tre proiezioni, riservate alle scuole medie e superiori di Alessandria e provincia, si propone di avvicinare gli studenti al mondo cinematografico e letterario insieme, attraverso la visione di pellicole che esplorano, ciascuna da un punto di vista inedito e originale, le biografie e il percorso artistico di alcune tra le figure più rappresentative della letteratura italiana e mondiale.
Le proiezioni, della durata di circa due ore ciascuna, avvengono, salvo variazioni di programma, il sabato mattina, a partire dalle ore 10, presso il Cinema Teatro Alessandrino, Via Verdi 12, Alessandria. Biglietto d’ingresso: euro 4.
Referente: Prof. Michele Maranzana - 340/0842390; maranzana.michele@gmail.com
Venerdì 24 Ottobre: Il giovane favoloso, di Mario Martone (2014)
Leopardi è un bambino prodigio che cresce sotto lo sguardo implacabile del padre, in una casa che è una biblioteca. La mente di Giacomo spazia, ma la casa è una prigione: legge di tutto, ma l’universo è fuori. In Europa il mondo cambia, scoppiano le rivoluzioni e Giacomo cerca disperatamente contatti con l’esterno. A 24 anni lascia finalmente Recanati. L’alta società italiana gli apre le porte ma il nostro ribelle non si adatta.
Sabato 8 Novembre: Il mistero di Dante, di Louis Nero (2013)
“Un viaggio dalla circonferenza verso il centro. Dall’esteriore all’interiore. Un misterioso linguaggio, antico come il mondo. Viaggiatori trasformati in pionieri esploratori di nuovi mondi. Una reminiscenza del meraviglioso mondo dantesco: da un’analisi esteriore alla scoperta della verità celata “sotto ‘l velame de li versi strani“. Un’indagine poliziesca negli innumerevoli cunicoli d’interpretazione dell’opera del più grande genio italiano del 1300: Dante Alighieri.” (Louis Nero)
Sabato 6 Dicembre: Anonymous, di Roland Emmerich (2011)
Edward de Vere, conte di Oxford, era un poeta e un drammaturgo affermato alla corte della regina Elisabetta nel XVI secolo. Alcune teorie letterarie del XX secolo ritengono che sia lui in realtà l'autore dei lavori attribuiti a Shakespeare. 




LA VOCE DELLA LUNA ON AIR!!


by Barbara Rossi

Se volete trascorrere una mezz'ora insieme alla Voce della Luna, ogni mercoledì mattina, dalle 9.30 alle 10.00, potete ascoltarci sulle frequenze di Radio Gold Alessandria (88.8), ospiti di Patti Turetta. Dialogheremo di cinema con autori di libri sulla settima arte, registi, associazioni e circoli del cinema. Segnaleremo proiezioni ed eventi cinematografici ad Alessandria e provincia, racconteremo curiosità, aneddoti e dietro le quinte! Seguiteci...on air!!


‘La voce della luna’: Biennale di Alessandria
by Barbara Rossi
Si è appena conclusa la diciassettesima edizione della Biennale di Alessandria, che quest’anno - dal 26 al 28 settembre - si è interrogata anche sul rapporto tra la poesia e le altre arti. In quest’ambito, venerdì 26, l’Associazione di cultura cinematografica e umanistica ‘La voce della luna’ ha proposto una tavola rotonda sul tema “Cinema di poesia?”, ragionando sulle nuove espressioni della forma poetica e sugli intrecci con il linguaggio cinematografico.  Gli autori dei cortometraggi presentati, Lucio Laugelli (“Ancora cinque minuti”), Giorgia Scioratto e Giorgio Penotti (“Il sapore della fragola”), hanno dialogato con il pubblico su modi e forme del cinema di poesia, raccontando anche la nascita dei loro lavori, che si confrontano entrambi con le tematiche del fine vita. I contributi filmici iniziali, invece, la videopoesia “Ringraziamento per un quadro”, su una poesia di Attilio Bertolucci, e “Marilyn”, estratto dal film “La rabbia” di Pier Paolo Pasolini, hanno introdotto gli spettatori al tema del pomeriggio, con gli stimoli e le suggestioni di cui le immagini sono portatrici.
Il bilancio dell’iniziativa, di natura sperimentale, è stato ampiamente positivo, anche per quanto riguarda il consenso di pubblico, invogliando gli organizzatori a continuare il viaggio di esplorazione del rapporto tra poesia e cinema nel corso della prossima edizione della Biennale. 
Ricordando una riflessione pasoliniana (“Il cinema di poesia”, 1966): «E tuttavia tutta la tendenza dell'ultimo cinema, da Rossellini eletto a Socrate, alla Nouvelle Vague, alla produzione di questi anni, di questi mesi [...] è verso un 'cinema di poesia'. La domanda che si pone è questa, come è teoricamente spiegabile e praticamente possibile, nel cinema, la 'lingua della poesia'?» 


Elda Lanza 'IL VENDITORE DI CAPPELLI', alla Libreria Fissore-Ubik
by Barbara Rossi
Alessandria: Giovedì 9 Ottobre 2014, Elda Lanza presenterà il suo ultimo libro 'IL VENDITORE DI CAPPELLI', presso la Libreria Fissore-Ubik di Piazza della Libertà 26, Alessandria.
Appuntamento alle 18:30. Ingresso libero.
Una busta che non contiene nulla. Un venditore di cappelli sparito. Un cadavere sfigurato e irriconoscibile. E una donna che turba e irretisce chiunque, Max Gilardi compreso. Un caso che l'affascinante avvocato napoletano dovrà affrontare con la consueta audacia umana e intellettuale. 
Con la tessera de La voce della luna - Associazione di cultura cinematografica e umanistica per il 2014-2015 (euro 10, validità 12 mesi) solo nel giorno della presentazione e in quelli immediatamente precedenti potrete acquistare il libro di Elda Lanza con lo sconto del 15%!! Tutti gli altri giorni, invece, lo sconto praticato sui libri, esclusi quelli scolastici e professionali, sarà del 10%. E i vantaggi offerti dal tesseramento alla Voce della luna non finiscono qui!! Le tessere possono venire richieste direttamente alla cassa della Libreria Fissore Ub!k. Non mancate all'appuntamento con Elda Lanza!!
«Un’ardita ottantottenne, dalla personalità versatile e con un formidabile vigore. Complimenti, signora Elda» - la Repubblica
«Avventure scritte molto bene, con grande freschezza… Spero che qualche
produttore tv compri presto i diritti: i libri sono praticamente sceneggiature
già pronte per fiction gialle divertenti e umane» - La Stampa
«È stata il volto degli anni eroici della tv di Stato, vissuti con garbo ed eleganza. Oggi quasi novantenne ha successo con thriller mozzafiato.
Ma non ha messo via ironia e ricordi» - Famiglia Cristiana 



Intervista all’Associazione La voce della Luna
by Pier Carlo Lava
Alessandria: La Voce della luna nasce come associazione di cultura cinematografica e umanistica nel marzo del 2013, abbiamo incontrato per un intervista: Barbara Rossi, Nuccio Lodato e Michele Maranzana, che hanno così risposto alle seguenti domande:
La Voce della luna nasce come associazione di cultura cinematografica e umanistica nel marzo del 2013. Qual è il bilancio di questo primo anno e mezzo di attività?
BarbaraRossi: Il bilancio è senz’altro positivo. Abbiamo dato vita a molti eventi e progetti, anche più di quelli che ci saremmo aspettati. Dalla serata in ricordo di Anna Magnani, il 18 ottobre dell’anno scorso, a quella che ha visto la presenza in città di Silvio Soldini, a gennaio. Dalla rassegna ‘Davvero nuovi’, sui giovani autori del cinema italiano, in primavera, al laboratorio per immagini ‘Un’altra intelligenza’ e al Cineforum ‘Progetto Genitori’. Ci siamo confrontati con altre associazioni, abbiamo incontrato persone e avviato collaborazioni interessanti. 
Ci sono stati eventuali contatti con altre realtà professionali al di fuori del territorio alessandrino?
Barbara Rossi: Sì, abbiamo realizzato, nell’aprile scorso, un laboratorio per immagini sulla dislessia rivolto a genitori, a formatori e docenti, presso la Bibliomediateca Mario Gromo di Torino, in collaborazione con il Museo del Cinema. L’interesse dimostrato dai partecipanti alla nostra iniziativa ci condurrà, nei prossimi mesi, all’organizzazione di un vero e proprio corso di formazione, in cui avremo modo di approfondire il lavoro formativo avviato nel corso del laboratorio. Siamo stati contattati anche da ‘Piemonte Movie’, associazione che lavora per diffondere la cultura cinematografica nella nostra regione, anche attraverso gli scambi e le sinergie con altre realtà associative presenti sul territorio.  
Mi pare di capire che l’associazione La Voce della luna stia delineando la sua fisionomia proprio nel rivolgersi ai docenti e agli studenti delle scuole cittadine. Quali attività proponete nello specifico?
Barbara Rossi: Proponiamo in particolar modo corsi e laboratori di Educazione ai Media, per formare gli studenti ai linguaggi cinematografici e visivi, e per fornire agli insegnanti gli strumenti per educare attraverso le immagini. Nei prossimi mesi riprenderemo gli appuntamenti con il Cineforum ‘Progetto Genitori’, in collaborazione con l’Associazione Il Porcospino e Cultura e Sviluppo. Nei vari incontri proporremo la visione di film che raccontino storie relative al rapporto genitori-figli e alla relazione educativa, dentro e fuori il mondo della scuola. Con il nuovo anno scolastico abbiamo iniziato a lavorare a un progetto che abbiamo chiamato ‘Dreamwork’, in collaborazione con l’istituto Saluzzo-Plana di Alessandria, il Museo Etnografico ‘C’era una volta’ e con il patrocinio della Provincia. Il progetto prevede una serie di laboratori di formazione ai linguaggi visivi.       
Come si configura, nello specifico, il progetto ‘Dreamwork’? 
Michele Maranzana: Il progetto ‘Dreamwork’ si configura come un insieme di laboratori di educazione ai linguaggi visivi e della comunicazione offerti agli studenti e condotti da diversi formatori: dalla fotografia, all’analisi del film, dalla realizzazione di un videoclip all’elaborazione di un magazine dedicato alla cultura e alle arti. L’intento finale è quello di rendere anche solo in minima parte i ragazzi consapevoli del funzionamento della “società dell’immagine” in cui vivono immersi, e degli strumenti di cui essa si serve per comunicare quotidianamente. E’ anche prevista una restituzione finale di quanto elaborato nel corso dei laboratori, sotto forma di un evento multiculturale aperto alla cittadinanza.               
Quali sono per un circolo di cultura cinematografica come il vostro le condizioni di base che vi garantiscono la possibilità di continuare a realizzare progetti culturali per la comunità? Quali gli ostacoli e le difficoltà?
Nuccio Lodato: Accantonando per un momento la non trascurabile necessità di un seppur minimo sostentamento economico, senza il quale risulta molto difficile continuare ad offrire alla comunità proposte di valore, un altro grosso ostacolo è rappresentato dalla ricerca di spazi cittadini adatti e disponibili ad ospitare eventi e proiezioni. Per fortuna, possiamo godere dell’ospitalità sia del Museo Etnografico del ‘C’era una volta’ di Alessandria e della sua responsabile Elena Garneri, che del Cinema Alessandrino, grazie alla lungimiranza del gestore Paolo Pasquale.       
Lo scorso anno la Voce della luna ha partecipato all’organizzazione di una giornata di studi che ha avuto luogo, in autunno, a Tortona, in collaborazione con il Circolo del Cinema tortonese e la rivista Anima e Terra. Sono in programma altri appuntamenti dedicati agli studi di cinema nei prossimi mesi?
Nuccio Lodato: Abbiamo in programma, sempre in collaborazione con il Circolo del Cinema di Tortona, una mattina di studi su Alberto Lattuada, sabato 15 novembre, nella ricorrenza dei cento anni dalla sua nascita; stiamo, inoltre, organizzando anche ad Alessandria, oltre che presso la libreria Namastè di Tortona, una presentazione del libro dedicato a Marilyn Monroe (n.d.r. di Nuccio Lodato e Francesca Brignoli, editore Le Mani, Recco). E non dimentichiamo che nel 2015 ricorreranno altri importanti centenari: dalla nascita di Orson Welles a quella di Ingrid Bergman.   
Pensate di organizzare delle nuove rassegne cinematografiche nel prossimo futuro? E quale pubblico vorreste eventualmente raggiungere?
Barbara Rossi: Non abbiamo preclusioni, ma ci piacerebbe raggiungere in particolar modo, come già detto in precedenza, il pubblico dei giovani, degli studenti, e anche quelle persone che, per vari motivi, hanno difficoltà ad andare al cinema la sera.
Michele Maranzana: Per questo abbiamo pensato a mini cicli di proiezioni mattutine per le scuole che raccontino le biografie di alcuni protagonisti della letteratura, della filosofia e della storia, distribuite tra l’autunno e la prossima primavera (il primo appuntamento sarà sabato 18 ottobre, con “Il giovane favoloso” di Mario Martone, presentato a Venezia, sulla vita di Leopardi).
Barbara Rossi: Inoltre, organizzeremo un ciclo di proiezioni pomeridiane dei 15 episodi di “The Story of film” di Mark Cousins, che racconta la storia del cinema in maniera accattivante, attraverso un collage di frammenti filmici e interviste ad attori e registi. Gli appuntamenti saranno settimanali, ogni martedì pomeriggio dal 4 novembre. Tutte le proiezioni verranno ospitate al Cinema Alessandrino, grazie alla disponibilità del gestore Paolo Pasquale, con speciali sconti e agevolazioni per chi rinnoverà, in quell’occasione, la tessera associativa e per gli studenti. 
In conclusione, ricordiamo i recapiti della vostra associazione per chi desiderasse contattarvi. Un’ultima domanda, che rivolgo a tutti: che cosa vi augurate per il futuro della Voce della luna, e quale augurio rivolgete, in ambito culturale, alla città?
Barbara rossi: Chi desiderasse contattarci può scrivere a lavoce.dellaluna@virgilio.it, e verrà inserito nella nostra mailing list e costantemente aggiornato sulle nostre iniziative. E’ anche possibile visitare il nostro sito www.voceluna.altervista.org, oppure cercarci sui social network: su Facebook, dove abbiamo due pagine e un gruppo, semplicemente digitando ‘Associazione La voce della luna’ o ‘La voce della luna Media Education’; su Twitter @LaVoceLuna e @VoceLunaMED.
Per il futuro della Voce della luna io mi auguro che possiamo continuare a crescere nella nostra attività, accogliendo nel nostro gruppo nuovi collaboratori e continuando a fare rete con le altre realtà culturali cittadine. In ambito culturale, e non solo, il mio augurio alla città è che possa risollevarsi al più presto dalla crisi in cui versa; che possa di nuovo usufruire del suo teatro, e che abbia il coraggio di far emergere e valorizzare tutto quel fermento creativo che la anima, ma che spesso non è visibile in superficie. 
Nuccio Lodato: Pur coltivando una visione meno ottimista del futuro rispetto a quella di Barbara, e in attesa dell’uscita del suo libro su Anna Magnani, anch’io mi auguro che la situazione cittadina migliori, e che La voce della luna possa continuare al meglio il suo cammino, in collaborazione con gli altri circoli di cultura cinematografica cittadini, con i quali abbiamo un ottimo rapporto. Proprio in questi giorni siamo reduci dalla partecipazione all’annuale convegno di studi sul divismo organizzato a Bergamo dalla FIC, la Federazione Italiana Cineforum, cui aderiamo: siamo felici del collegamento che si sta instaurando tra quel contesto e la nostra associazione.         
Michele Maranzana: Per quanto riguarda La voce della luna, auguro che la nostra Presidente non si dimetta, perché la stiamo facendo lavorare troppo! Il mio auspicio per la città è che possiamo continuare a porci al suo servizio in ambito culturale, offrendo sempre proposte di qualità.                 
                


Barbara Rossi, Associazione La Voce della Luna, biografia
Alessandria: Barbara Rossi è laureata in Storia e Critica del Cinema presso l’Università degli Studi di Torino. Presidente dell’Associazione di cultura cinematografica e umanistica ‘La Voce della Luna’ di Alessandria, svolge corsi sul linguaggio e sulla storia del cinema, oltre a laboratori di formazione in Educazione ai Media presso istituti scolastici, enti pubblici e privati. 
Si è occupata anche di critica cinematografica e, a partire dagli studi universitari, del fenomeno divistico e della figura di Anna Magnani. 
Come Anna, ama molto gli animali e, in particolare, i gatti, con i quali convive quotidianamente e che ha l’abitudine di tenere accanto a sé mentre scrive.  




A SPASSO TRA DIVI E DIVINE (1960-1990) - LXII Consiglio Federale
Bergamo / 19-20 settembre / Ingresso libero
La seconda tappa del percorso “A spasso tra divi e divine” - il convegno di studio che la FIC - Federazione Italiana Cineforum organizza a Bergamo in concomitanza con il LXII Consiglio Federale - per la serie di incontri “Vedere e studiare cinema” ormai giunto alla XXV edizione, si occupa del fenomeno attoriale e divistico nel cinema italiano e internazionale, prendendo in esame il periodo compreso tra il 1960 e il 1990.
Una sessione speciale direttamente curata dal Centro Ricerca Attore e Divo (CRAD) del DAMS dell’Università di Torino sarà dedicata alla figura e al lavoro di Marcello Mastroianni, nell’ambito di un più vasto progetto nazionale di studio sul grande attore, che prende le mosse proprio dall’occasione bergamasca.
Una seconda sessione particolare, curata dalla Sezione Spettacolo dell’Università di Pavia, prende in esame le grandi “maschere” del periodo d’oro della commedia all’italiana. La terza sessione inquadra infine alcune figure-chiave dello scenario filmico internazionale di quel trentennio: da Jeanne Moreau a Orson Welles, da Audrey Hepburn a Clint Eastwood a SIR DIRK BOGARDE. Antologie visive anche appositamente definite, e proiezioni di film completi, integrano e nutrono i lavori del convegno, come accaduto nella precedente tornata del 2013 dedicata al periodo 1930-’60, e come previsto anche per la prossima edizione 2015, che si occuperà conclusivamente dei decenni intercorsi tra il 1990 e i giorni nostri.
PROGRAMMA
Venerdì 19 settembre
▸ ore 15.00 / Incontro
ATTORI E DIVI NEL CINEMA INTERNAZIONALE DI FINE MILLENNIO
Tre continuità esemplari: Hepburn, Moreau, Welles.
Relatori: Mariagrazia Fanchi, Francesco Pitassio, Francesca Brignoli; introduce e coordina Nuccio Lodato.
▸ ore 18.00 / Proiezione del film
GLI OCCHI DELLA NOTTE (Wait Until Dark, 1967)
di Terence Young, USA, 108’
▸ ore 21.30 / Proiezione del film
FALSTAFF (Campanadas a medianoche, 1965)
di Orson Welles, Francia/Spagna/Svizzera, 113’
Sabato 20 settembre
▸ ore 10.00 / Workshop
STUDIARE MARCELLO MASTROIANNI
Mastroianni e il cinema italiano. L’attore e divo internazionale. Il personaggio e l’immagine di genere. Ricezione e definizione del mito. Lo stile.
A cura del Centro Ricerche Attore e Divismo (CRAD) - DAMS dell’Università di Torino.
Relatori: Emiliano Morreale, Mariapaola Pierini, Matteo Pollone, Franco Prono, Gabriele Rigola; introduce e coordina Giulia Carluccio.
▸ ore 15.00 / Workshop
MASCHERE E TIPI SOCIALI DEL TRAGICOMICO ITALIANO
Metafisica e visionarietà del cinema di fabbrica. Gianmaria Volontè e il corpo biomeccanico. Il personaggio come stereotipo narrativo: analisi di un caso. La letteratura industriale dal boom economico alla contestazione. Alberto Sordi e il crepuscolo della maschera.
A cura della Sezione Spettacolo - Dipartimento Studi Umanistici dell’ Università di Pavia.
Relatori: Lorenzo Donghi, Luca Piacentini, Giuseppe Polimeni, Deborah Toschi; introduce e coordina Federica Villa.
▸ ore 18.00 / Proiezione del film
BREAK UP (1965)
di Marco Ferreri, Italia/Francia, 85’
▸ ore 21.30 / Proiezione del film
LES AMANTS (id., 1958)
di Louis Malle, Francia, 90’
Incontri, workshop e proiezioni ad ingresso gratuito
Info: www.cineforum-fic.com/2014/05/a-spasso-tra-divi-e-divine-1960-1990
In collaborazione con:
Associazione Cineforum LAB 80 - Bergamo
Università degli Studi di Torino - DAMS - Centro Ricerche Attore e Divismo (CRAD)
Università degli studi di Pavia - Dipartimento Studi Umanistici Sezione Spettacolo




XVIII Biennale di Poesia di Alessandria
"La domanda che si pone è questa, come è teoricamente spiegabile e praticamente possibile, nel cinema, la "lingua della poesia?"
(Pier Paolo Pasolini, da 'Il cinema di poesia', 1966)
Alessandria: Venerdì 26 Settembre, dalle 16.30, nell'ambito della XVIII Biennale di Poesia di Alessandria al Museo etnografico “C’era una volta” piazza della Gambarina 1.



Italy in a day - un giorno da italiani (2014) di Gabriele Salvatores
by Barbara Rossi     
“Filma la tua vita”, esorta-racconta il trailer di Italy in a day, edizione italiana del progetto digitale e sperimentale ideato dal regista inglese Ridley Scott. La vita è quella di noi italiani e persone comuni, colta nel suo divenire, nella sua bellezza frammentaria e discontinua un giorno come un altro, sabato 26 ottobre 2013. 
Con 44.197 video ricevuti, 2.200 ore di un incessante scorrere di immagini, 632 video scelti per il montaggio finale e 40 selezionatori coordinati da Massimo Fiocchi e Chiara Griziotti, Italy in a day si propone come un affresco quanto più possibile realistico e verosimile, un immenso e sfaccettato specchio del nostro Paese: composto di volti, dettagli di corpi, particolari di ambienti e oggetti, attimi e momenti che mai più torneranno.
E’ quello che Bazin, teorico della Nouvelle Vague, chiamava “il complesso della mummia”: ovvero, il disperato e a volte fruttuoso tentativo dell’uomo di esorcizzare la morte fissando per l’eternità in un’immagine quella vita destinata a venire irrimediabilmente trasformata dall’inesorabile processo del divenire.
Italy in a day è, però, un film godibile, caoticamente vivo e vitale nel suo mostrarsi come il frutto concreto di una sperimentazione cinematografica che tende ad annullare - come sempre più spesso accade in questi decenni di trionfo dei social media - la distanza tra chi guarda e chi è guardato, tra spettatore e attore, tra soggetto e oggetto della visione.
Una pellicola da godersi, magari per riconoscersi o semplicemente per proiettarsi nelle “vite degli altri”, il prossimo 23 settembre, unica data della proiezione nazionale, al cinema. 
Per non privarsi del piacere di una grandiosa e in parte contraddittoria panoramica su come noi italiani guardiamo a noi stessi e su come ci rappresentiamo.


Colpo di fulmine di Margarethe Von Trotta, su Hannah Arendt (Id., 2012)
by Barbara Rossi
Così ho filmato l’invisibile: titola in questo emblematico modo l’articolo di Left del 25 gennaio scorso, in cui Reinhard Dinkelmeyer intervista la regista tedesca Margarethe Von Trotta, all’uscita - in Italia ritardata di due anni - del suo Hannah Arendt.
Di cui consigliamo caldamente, e non solo agli appassionati cinefili o agli estimatori della Von Trotta e della bravissima Barbara Sukova (che sparisce, letteralmente, dietro e dentro il personaggio), ma alla totalità del pubblico, una visione non distratta. In omaggio e nel rispetto dell’attenzione e della concentrazione con cui la regista e l’interprete principale agiscono sinergicamente, in un film che non è il classico biopic, ma la ricostruzione quanto più fedele della figura e, soprattutto, del pensiero della filosofa ebrea negli anni tra il 1961 e il 1963, quelli del processo al criminale nazista Adolf Eichmann a Gerusalemme e della pubblicazione, dal reportage arendtiano dell’evento, de La banalità del male.  
La pellicola, per sineddoche (la parte per il tutto), mette in scena, con grande rigore filologico, una porzione altamente significativa della vita pubblica e privata, come della riflessione della Harendt: quella da cui scaturirà, negli anni a venire, il suo pensiero forse più controverso. Tra gli interni color ocra (geometricamente ripartiti e inquadrati) dell’appartamento newyorkese di Hannah, la concitazione dei dialoghi e degli scambi intellettuali con il marito Heinrich Blucher, l’allieva-segretaria Lotte Kohler e la cerchia di amici, prima fra tutti la scrittrice Mary McCarthy; nell’alternanza della finzione con gli inserti documentari autentici relativi ad alcune fasi del processo Eichmann, che raccontano in bianco e nero e in chiaroscuro l’assurdità mostruosa di un uomo apparentemente ‘senza qualità’, che incarna alla perfezione la banalità del male. Infine, nella modalità cronachistica di racconto prediletta da Von Trotta, che posa il suo sguardo sugli eventi come da una siderale distanza, e - più che tentare risposte a questioni ancora dolorosamente incise nella memoria storica del mondo - continua instancabilmente a porne.
Hannah Arendt è davvero, come riecheggiato dal titolo dell’articolo prima citato, una messa in scena e una riflessione sull’invisibile: sul pensiero, sui suoi meandri, sulle sue contraddizioni e aberrazioni; ma anche sulla sua trasparenza, sulla sua bellezza e necessità.
Perché, forse, come pare sostenere la Arendt di Von Trotta, la vera salvezza dall’orrore e dalla banalità di ogni male non consiste neppure nel ricordare. Ma nel pensare.    



Alba Rohrwacher


Venezia 2014: tra riflessioni esistenziali e una sorprendente Rohrwacher
by Barbara Rossi
Si è conclusa, anche per quest’anno, la densissima maratona cinematografica veneziana, più che mai declinatasi sotto il segno dell’autorialità e della ricerca di nuove voci e spazi d’espressione.
Il Leone d’oro è stato assegnato al regista svedese Roy Andersson, per il suo A pigeon sat on a branch reflecting on existence (Un piccione su un ramo che riflette sull’esistenza), parabola esistenziale zoomorfa coprodotta da Svezia, Germania, Norvegia e Francia, che speriamo ora trovi il meritato passaggio sugli schermi italiani, dopo le ormai tradizionali (purtroppo) incertezze distributive.
Il medesimo problema si pone anche per il film vincitore del Leone d’argento, The Postman's White Nights (Le notti bianche del postino), del maestro Andrej Konchalovskij, sospeso tra allegoria e realismo magico, e in generale per le altre pellicole premiate.
“Traditi”, se così si può dire, alcuni film di sicuro richiamo per il pubblico, e già molto discussi fin dal loro affacciarsi all’orizzonte della 71esima mostra del cinema, come l’inaugurale Birdman or (The Unexpected Virtue of Ignorance) di Inarritu, il Pasolini di Abel Ferrara o il leopardiano Il giovane favoloso di Martone.
Gran Premio della Giuria a The look of silence di Joshua Oppenheimer, sul tema della repressione politica in Indonesia alla fine degli anni Sessanta, e Premio Speciale della Giura al turco Sivas, di Kaan Mujdeci, racconto di formazione sul rapporto affettivo che si instaura tra un bambino e un cane da combattimento, in uno sperduto villaggio dell’Anatolia.
Grande tributo di applausi e premio per la miglior sceneggiatura anche per il film iraniano Ghesseha, della regista Rakhshan Bani-Etemad (conosciuta come la “signora del cinema iraniano”), una storia corale di passioni amorose che aiutano a vivere e a superare le difficoltà quotidiane; mentre, meritatamente, il premio per il miglior film restaurato di quest’anno è andato a Una Giornata particolare di Ettore Scola, gara di bravura tra due attori - Mastroianni e Loren - nel pieno della loro maturità artistica.
Per finire, per la sezione Orizzonti è stato premiato Belluscone di Franco Maresco, i cui riferimenti in chiave grottesca alla realtà politica attuale sono più che evidenti, a partire dal titolo, e per il Leone del futuro il riconoscimento è andato all’indiano Court, di Chaitanya Tamhane, indagine sui meccanismi della giustizia indiana.
Roy Andersson
La vera sorpresa ed emozione del Festival è stato, però, il film di Saverio Costanzo, Hungry hearts, che racconta la crisi dei sentimenti di una giovane coppia, in seguito alla nascita di un figlio che la moglie e madre Mina (Alba Rohrwacher) ritiene abbia tutte le caratteristiche di un bambino ‘indaco’.
La Coppa Volpi, rispettivamente per la miglior interpretazione femminile e maschile è andata alla Rohrwacher (che con questo premio si conferma come una delle giovani interpreti più sensibili e promettenti del nostro cinema) e a Adam Driver, che nel film di Costanzo riveste il ruolo del marito Jude. 
Da tenere d’occhio, poi, anche il giovanissimo Romain Paul, protagonista di “Le Dernier Coup de Marteau della francese Alix Delaporte: storia di un ragazzo molto vicino all’Antoine Doinel de I 400 colpi. Romain ha vinto il premio Marcello Mastroianni riservato agli attori esordienti. Forse, per una volta, il Festival di Venezia ha rispettato le dichiarate consegne iniziali: che, nelle parole del direttore, Alberto Barbera, si proponevano, fra i molteplici obiettivi, di “…guardarsi intorno con curiosità priva di pregiudizi e la speranza di scoprire l'affiorare del nuovo, predisporsi a decifrare i segni della diversità sin dentro la superficie apparentemente omologata, intuire l'emergere di un nuovo autore o di un'inedita strategia produttiva dalla quale scaturirà la scintilla di un rinnovamento da tutti auspicato e non ancora dispiegato”.
E allora, in attesa del passaggio dei film in sala, lunga vita al cinema. E alla Mostra veneziana.




La Voce della Luna servizi formativi
Alessandria: Servizi formativi offerti dalla Voce della Luna a partire da questo settembre
Barbara Rossi


Aspettando Venezia 2014
By Barbara Rossi      
“Rendere conto della complessità del presente senza semplificazioni riduttive, guardarsi intorno con curiosità priva di pregiudizi e la speranza di scoprire l'affiorare del nuovo, predisporsi a decifrare i segni della diversità sin dentro la superficie apparentemente omologata, intuire l'emergere di un nuovo autore o di un'inedita strategia produttiva dalla quale scaturirà la scintilla di un rinnovamento da tutti auspicato e non ancora dispiegato”. 
Un auspicio semplice soltanto in apparenza, quello del direttore Alberto Barbera, per la 71esima Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, che si inaugura questa sera alle 19 con le opere ultime di una promessa divenuta certezza e di un ormai riconosciuto maestro del cinema mondiale: rispettivamente, Alejandro Gonzàlez Inarritu, con Birdman or (The Unexpected Virtue of Ignorance) e l’iraniano Mohsen Makhmalbaf, con The President.
Storie di nuovi punti di vista, sì, forse del timido affacciarsi di nuovi orizzonti, come in quelle in cui sono immersi l’attore in declino (Michael Keaton) protagonista di Birdman, da un racconto di Raymond Carver, o il dittatore decaduto di un immaginario paese caucasico in viaggio (e in fuga) con il nipotino di cinque anni.
Tanti gli spunti tematici, gli sguardi d’autore e i percorsi stilistici della Mostra: tra i quali, solo per citarne alcuni, segnaliamo il The Cut di Fatih Akin, sull’odissea di un giovane fabbro armeno sopravvissuto al genocidio del suo popolo, alla ricerca delle figlie; l’atteso e già discusso Pasolini di Abel Ferrara; il coriaceo e d’impatto Nobi (Fires on the plain) di Shinya Tsukamoto, sull’agonia estrema di un soldato giapponese in una giungla delle Filippine, alla fine del secondo conflitto mondiale; e gli italiani Hungry Hearts di Saverio Costanzo, viaggio in una crisi di coppia intorno a un bambino “indaco”, e Il giovane favoloso di Mario Martone, su Giacomo Leopardi ( un credibilissimo Elio Germano). Fuori Concorso, invece, degno di nota è Words with Gods di Guillermo Arriaga, Emir Kusturica, Amos Gitai, Mira Nair, Warwick Thornton, Hector Babenco, Bahman Ghobadi, Hideo Nakata, Alex De La Iglesia, grandioso progetto collettivo sul rapporto dell’uomo con le religioni; come O velho do restelo (The Old Man of Belem) di Manoel De Oliveira, sulla vita dello scrittore portoghese Camilo de Castelo Branco e Italy in a day. Un giorno da italiani, di Gabriele Salvatores, affresco videoamatoriale e digitale della giornata del 26 ottobre 2013, da un’idea originale di Ridley Scott. 
Infine, per Le Giornate degli Autori, promette polemiche - come spesso da un paio di film a questa parte - il coreano Kim Ki-Duk, con il misterioso One On One, in proiezione oggi fuori concorso in apertura nella sezione Giornate degli Autori.  
Ci aspettiamo una buona Mostra, quindi: di novità al di là delle realtà cinematografiche ormai consolidate, di viaggi con nuovi occhi intorno e dentro l’uomo.



Apes Revolution-Il pianeta delle scimmie (Dawn of the Planet of the Apes, 2014), by Matt Reeves
by Barbara Rossi
Al cinema: Attesissimo sequel de “L’alba del pianeta delle scimmie” (2011), blockbuster mondiale a firma dell’inglese Rupert Wyatt, “Apes Revolution” ha scarse ascendenze con il “Planet of the Apes” mistero gotico burtoniano del 2001, e probabilmente ancor meno con l’ormai ‘classico’ originale, “Il pianeta delle scimmie” di Franklin J. Schaffner (1968).
L’elemento saliente che queste due ultime variazioni moderne sul sempiterno tema e conflitto Natura-Cultura sembrano avere smarrito lungo il cammino è proprio l’ambientazione, fortemente caratterizzante sia il vecchio “Pianeta” che la favola tradizionalmente goticheggiante del visionario Burton. 
Anche le vicende di questo sequel affondano le loro spettacolari e tentacolari radici nell’humus paludoso, oscuro e decadente di una Terra futuribile, post-decadente, preda di un morbo letale, dell’estremismo (e del razzismo) di pochi sopravvissuti, delle ataviche paure legate all’incontro-scontro di civiltà, condannate alla convivenza forzata nel medesimo territorio.
Nel mezzo, lo splendore di scene ipercinetiche, di panoramiche e movimenti di macchina mozzafiato, per catturare la grandiosità e la concitazione delle azioni di guerra delle scimmie e degli umani. Con l’asso nella macchina del motion capture, tecnica utilizzata per digitalizzare il movimento corporeo degli attori e trasferirlo ai primati costruiti al computer.    
Straordinariamente d’impatto, sia a livello visivo che emozionale, la sequenza d’apertura e quella conclusiva; in cui l’immagine, nell’evidenza del primissimo piano che sfocia (e sfuma) in un dettaglio quasi iperrealistico, nasce da Cesare-Andy Serkis (il Gollum della trilogia jacksoniana), la scimmia umanoide, e a lui ritorna.
A proposito di Charles (Darwin)…



Laureen Bacall: la seduzione dell’insolenza
by Barbara Rossi La Voce della Luna   
A Howard Hawks, uno fra i più grandi e creativi registi della golden age hollywoodiana, ricordava l’amatissima seconda moglie, Nancy Gross, detta Slim per il suo fisico minuto. E fu proprio la raffinatissima Slim a notarla nelle vesti di modella sulle pagine di “Harper’s Bazaar” e a proporla per un ruolo al marito, che - dopo averle opportunamente modellato il fisico, il portamento e la voce (con quel timbro gutturale destinato a diventare uno dei suoi segni distintivi) - la fece debuttare in Acque del Sud, nel 1944, a fianco di Humphrey Bogart. 
Il resto, il soprannome “Slim” affibbiato da Hawks al personaggio interpretato da Betty Jean Perske (in arte Laureen Bacall, il cognome materno con l’aggiunta di una provvidenziale elle, per renderlo più pronunciabile), come omaggio alla consorte, l’innamoramento con il già maturo Bogart e la conseguente creazione di una tra le coppie - fuori e dentro lo schermo - più famose e amate del secolo del cinema (vedi anche l’altro “classico” hawksiano, Il grande sonno, da Raymond Chandler), fa ormai parte da tempo della sua leggenda.
Venne chiamata “The Look”, per il suo peculiare modo di guardare il proprio interlocutore, obliquamente e dal basso, tenendo il mento fermo: fu ancora Hawks a potenziare questa sua caratteristica, prevedendo l’effetto che avrebbe potuto avere sul pubblico quella sua aria insolente.
“…Fece quattro mesi di dura preparazione prima che la mettessimo in Acque del Sud. Quando ebbe finito, non ci fu più ragione di preoccuparsi per lei. Diventava sempre più brava, e infine dissi: ‘Le do il ruolo principale’. Tutti mi dissero: ‘Sei pazzo’. Ma funzionò, e lei diventò subito una diva. Ed era a causa di quella sua particolare insolenza che non si era mai vista prima. […] Scoprimmo che la Bacall era una ragazza minuta che diventava alquanto attraente quando aveva un’espressione insolente. Era l’unico momento in cui la notavi perché faceva l’insolente con una strana faccia”.
Arrivano, poi, per Laureen, gli anni di una carriera dorata, sempre più ricca di ruoli e di successi, che la conduce a lavorare, ad esempio, fianco a fianco con il mito Marilyn (Come sposare un milionario, 1953), con Gregory Peck (La donna del destino, 1957) e, in definitiva, con i maggiori registi del panorama hollywoodiano, da John Huston a Michael Curtiz, da Jean Negulesco a Vincente Minnelli, sino alle più recenti interpretazioni per Altman e Lars Von Trier.
Icona di bellezza e fascino, seducente per quell’immagine di donna elegante, innocente e nello stesso tempo spregiudicata, che ha veicolato sul grande schermo, Betty Bacall ha abbondantemente popolato, come molte dive hollywoodiane della sua generazione, l’immaginario spettatoriale.
Non senza una punta di malcelata gelosia, Hawks una volta disse di lei che “Bogey si era innamorato del personaggio che lei interpretava, così lei dovette continuare a farlo per tutta la vita”. 
Ma sarà andata davvero così? 
1 Mark Nuccio Lodato, Howard Hawks, Il Castoro, 2003



Arrivederci, Robin
by Barbara Rossi   La Voce della Luna
Quando è un grande artista a lasciarci - che sia attore, come in questo caso, musicista, scrittore o altro, come qualche volta è accaduto nel corso di questa contraddittoria estate - è sempre un brutto colpo per noi spettatori. Ci sentiamo delusi, avviliti, persino un po’ traditi dall’ineluttabilità di quel destino che ci ha sottratto un modello (non necessariamente nell’accezione morale del termine), una figura pubblica di riferimento entro la quale proiettare i nostri desideri, le speranze, le paure ataviche. Ci sentiamo defraudati, appunto, oltre che di qualcuno, di qualcosa: come gli spettatori dell’intramontabile “Psycho” di Hitchcock, che il geniale regista conduce, fin dalle prime battute del film, a identificarsi con la povera e sfortunata Marion, per poi farla sopprimere nella famosa scena della doccia a neanche metà della storia, lasciandoli in una sorta di ‘vuoto’ visivo e proiettivo.
Gli attori, si sa, lavorano per lo più sui sogni. I loro (in misura minore), quelli del regista (moltissimo) e, più di tutto, i nostri.
Questa mattina, non appena appresa la sconcertante notizia della morte suicida di Robin Williams, in mezzo alla disparata messe di citazioni, frasi di cordoglio e di commiato, ricordi della sua carriera e dei suoi film che rapidissimamente hanno riempito la rete, mi ha colpita, in particolare, la riflessione di un’amica, che ho trovato illuminante nella sua (apparente) semplicità. 
In sintesi, il monito era questo: ricordiamoci sempre che può esserci anche una grande differenza, un vero e proprio abisso, tra il ‘personaggio’ e la ‘persona’. 
Questo pensiero ha richiamato alla mia mente alcune appassionanti e lontane lezioni universitarie di teoria del cinema, quando noi studenti affrontavamo, con entusiasmo ma anche con una certa fatica, la complessità del modello sulla figura e sull’arte dell’attore proposto - negli anni Sessanta del secolo scorso - dal semiologo praghese Jan Mukařovský. 
Lo studioso, basandosi anche su quanto rilevato da Bertolt Brecht in alcuni scritti nati dall’osservazione dell’arte scenica orientale, sosteneva che al vecchio modello strutturale andasse sostituito uno nuovo, fondato sulla compresenza nel medesimo interprete di tre ‘entità’: l’uomo, con il suo vissuto esistenziale composto di ragione e, insieme, di emozioni ed affetti; l’attore, con il bagaglio tecnico di competenze; infine, il personaggio, ovvero la somma dei primi due, la singolare combinazione delle due personalità, quella umana e quella artistica.
“Tuttavia però il legame tra la vita dell’uomo e la sua creazione artistica in un determinato dramma non è diretto: v’è uno strato intermedio consistente nell’insieme di mezzi formali che costituiscono una caratteristica stabile dell’attore e passano di ruolo in ruolo. Per il pubblico questi mezzi formali sono indissolubilmente legati con la persona reale dell’attore: da essi riconosce l’attore in un nuovo ruolo, essi gli avvicinano o allontanano sentimentalmente l’attore, sul loro sfondo valuta le singole sue prestazioni. La tensione tra la singola prestazione e il complesso (stabilizzato) dei mezzi formali è infatti anche un fattore della struttura artistica dell’arte della recitazione”.
Non dimentichiamo, poi, che l’etimologia del termine persona rimanda - dalle lontanissime origini greche, attraverso l’etrusco e il latino - non solo all’individuo, ma anche alla maschera usata nell’antichità dall’attore sulla scena.
Credo che noi spettatori, almeno sino alla dolorosa notizia di oggi, abbiamo (non colpevolmente, soggiogati da uno di quei meccanismi di proiezione/identificazione tipici del rapporto che intratteniamo con le figure fantasmatiche che popolano il grande schermo) amato pensare che non ci fosse separazione alcuna tra il Mork di “Mork e Mindy”, il Popeye-Braccio Di Ferro del film di Altman, il Peter Pan di “Hook-Capitan Uncino”, il Mammo per sempre di “Mrs. Doubtfire” (per non citare che alcuni tra i suoi ruoli comici di maggiore successo) e Robin, l’uomo. Ci è piaciuto crederlo: perché Hollywood e il cinema sono la fabbrica dei sogni per eccellenza, e perché la nostra parte bambina, quella che Williams ha cullato e nutrito con la sua vasta galleria di personaggi, non avrebbe potuto accettare lo stridente connubio tra la maschera sorridente del comico e il male di vivere. 
Con la sua tragica scelta Williams ha ricordato alla ‘Hollywood-Babilonia’, che fin dalla sua fondazione coltiva l’insana abitudine di divorare i propri figli, e al mondo intero che dietro la maschera è vissuto un uomo. Che, se avesse potuto, ci avrebbe raccontato una storia molto diversa da quella dei suoi personaggi. 
E allora, per una volta, salutiamo, oltre all’attore, l’uomo.
Arrivederci, Robin. 
            
       

Il sentiero dei profumi: Incontro con Cristina Caboni
by Barbara Rossi
Alessandria: Martedì 2 settembre, dalle ore 19.00, presso la libreria Fissore-Ubik di Piazza della Libertà 26 Alessandria, cammineremo sul sentiero dei profumi con Cristina Caboni e La Voce della Luna, associazione di cultura cinematografica e umanistica.
Al termine dell'incontro con l'Autrice verrà offerto un piccolo rinfresco a tema.
Ingresso libero.
Per informazioni: La Voce della Luna: www.voceluna.altervista.org; lavoce.dellaluna@virgilio.it
https://www.facebook.com/pages/La-voce-della-luna-Associazione-di-cultura-cinematografica-e-umanistica/223499711124679?fref=ts
Libreria Fissore-Ubik: 0131/252678; www.libreriafissore.it
https://www.facebook.com/pages/Libreria-Fissore-Ubk/238053916308530?sk=info
www.garzantilibri.it
www.ilsentierodeiprofumi.com
https://www.facebook.com/pages/Cristina-Caboni-autrice/225150877677593?fref
"L'odore, il profumo, ti entra dentro perchè sei tu che lo inviti con il respiro, e poi segue la sua strada. Non puoi decidere se ti piacerà. Viaggia su un'altra dimensione. Non appartiene alla logica, o alla ragione. S'impossesserà di te, però, pretendendo la verità assoluta. Lo amerai allora, oppure ti farà ribrezzo. Ma non ci sarà nulla nella tua esistenza di più autentico di quella prima emozione. Perchè quella è la risposta della tua anima"
(Cristina Caboni, 'Il sentiero dei profumi', Garzanti Libri)
La vita mi ha messo alla prova.
Ma con l’iris ritrovo la fiducia.
La vaniglia mi fa sentire protetta.
Perché i profumi sono la mia strada.
«Un romanzo italiano già venduto in Europa.
Un fenomeno come Il linguaggio segreto dei fiori.»
L’Espresso
Un debutto tutto italiano
diventato fenomeno editoriale internazionale ancora prima della pubblicazione.
Elena non si fida di nessuno. Ha perso ogni certezza e non crede più nell’amore. Solo quando crea i suoi profumi riesce ad allontanare tutte le insicurezze. Solo avvolta dalle essenze dei fiori, dei legni e delle spezie sa come sconfiggere le sue paure. I profumi sono il suo sentiero verso il cuore delle persone. Parlano dei pensieri più profondi, delle speranze più nascoste: l’iris regala fiducia, la mimosa dona la felicità, la vaniglia protegge, la ginestra aiuta a non darsi per vinti mai. Ed Elena da sempre ha imparato a essere forte. Dal giorno in cui la madre se n’è andata via, abbandonandola quando era solo una ragazzina in cerca di affetto e carezze. Da allora ha potuto contare solo su sé stessa. Da allora ha chiuso le porte delle sue emozioni. Adesso che ha ventisei anni il destino continua a metterla alla prova, ma il suo dono speciale le indica la strada da seguire. Una strada che la porta a Parigi in una delle maggiori botteghe della città, dove le fragranze si preparano ancora secondo l’antica arte dei profumieri. Le sue creazioni in poco tempo conquistano tutti. Elena ha un modo unico di capire ed esaudire i desideri: è in grado di realizzare il profumo giusto per riconquistare un amore perduto, per superare la timidezza, per ritrovare la serenità. Ma non è ancora riuscita a creare l’essenza per fare pace con il suo passato, per avere il coraggio di perdonare. C’è un’unica persona che ha la chiave per entrare nelle pieghe della sua anima e guarire le sue ferite: Cail. Cail che conosce la fragilità di un fiore e sa come proteggerlo e amarlo. Perché anche il seme più acerbo quando il sole arriva a riscaldarlo trova la forza di sbocciare.
Cristina Caboni vive in provincia di Cagliari con suo marito e i loro tre figli. Oltre a dedicarsi a tempo pieno alla scrittura, lavora per l’azienda apistica di famiglia, occupandosi principalmente della cura delle api regine. Un’altra sua grande passione sono le rose, delle quali coltiva una grande varietà di specie. Il mondo dei profumi e delle essenze naturali la accompagna da lungo tempo, e il suo primo romanzo Il sentiero dei profumi vuole essere un omaggio a quanto di più affascinante si cela dietro un odore, che sia quello di un ricordo lontano, un amore perduto e irraggiungibile, una speranza che sa di nuove opportunità.



La Voce della Luna segnala: Marilyn Monroe - Inganni
di Francesca Brignoli - Nuccio Lodato
Mito, leggenda, icona. Ma anche prima di tutto attrice. A oltre mezzo secolo dalla scomparsa, Marilyn Monroe continua a essere l'immagine più abbagliante di un universo pop che di lei si è nutrito, facendone il simbolo senza tempo della bellezza e del fascino, in ragione di una sensualità ostentata e provocante, dolcissima ma disperata. Citata, clonata, omaggiata, Marilyn è l'ultima grande star di Hollywood. Un fenomeno cinematografico, di cui il talento è stato forse l’aspetto meno indagato.
Dopo una distruttiva infanzia e una prima giovinezza difficile, i lavori umili e le scelte sentimentali poco fortunate, Norma Jean Baker inizia la carriera come modesta fotomodella e attricetta. Ma pochi anni dopo diventa “la Monroe”: in breve, grazie a formidabili apparizioni, esplosiva regina dello star system. 
All’ombra di una clamorosa ma contorta e sofferta vita extrafilmica, tra fulminei matrimoni da rotocalco, reiterate relazioni pericolose e ossessionanti ricoveri ospedalieri – che presto ne sovrastano tragicamente i meriti – costruisce una carriera personalissima. Eccola illuminare film leggendari, diretta anche da Huston (Giungla d’asfalto, Gli spostati), Hathaway (Niagara), Preminger (La magnifica preda). Al registro di attrice drammatica – raffinato anche grazie all’incontro con Strasberg all’Actor’s Studio – si affiancano le indimenticabili prove nelle commedie: da Il magnifico scherzo e Gli uomini preferiscono le bionde di Hawks a Come sposare un milionario per Negulesco, fino a Quando la moglie è in vacanza e A qualcuno piace caldo con Wilder e a Facciamo l’amore firmato Cukor: come avrebbe dovuto essere anche il Something’s Got to Give tragicamente mai portato a termine.
Un saggio storico-critico, l’analisi mirata dei suoi maggiori film, la rivisitazione disincantata della sua biografia, oltre a filmografia e bibliografia, ne ripercorrono la parabola, alla ricerca di quello “specifico Monroe” che illumina per sempre gli schermi e la cultura cinematografica del suo secolo, e non solo di quello.
Nuccio Lodato, professore a contratto di Storia e critica del cinema e Archivi e progetti per il cinema e lo spettacolo all’Università di Pavia, coll’Assessorato alla Cultura della cui Provincia ha collaborato per un ventennio. Ad Alessandria, dove risiede ed è stato presidente del Teatro Comunale, coordina la giuria dell’ultratrentennale Premio “Adelio Ferrero” e condirige il festival della critica cinematografica “Ring!”. Collabora a «Cineforum». Da marzo 2013 è vicepresidente dell’Associazione di cultura cinematografica e umanistica alessandrina ‘La Voce della Luna’. 
Francesca Brignoli laureata in Storia e Critica del Cinema nell’Università di Pavia con una tesi sul cinema di Liliana Cavani, nel 2008 ha collaborato a un volume edito dalla Regione Emilia Romagna con un saggio sulla stessa regista a cui sta dedicando nuova attenzione in vista di una monografia. Nel periodo dal 1992 al 2003 ha curato l’organizzazione di iniziative teatrali. Dal 2004 lavora presso l’Assessorato alla Cultura della Provincia di Pavia, occupandosi di spettacolo.
La Voce della Luna
Barbara Rossi



Una notte in giallo (Walk of shame, 2014) di Steven Brill
by Barbara Rossi  La voce della luna
Al cinema... Che fareste se un destino avverso vi catapultasse all’improvviso nei succinti (e gialli) panni di una bionda e provocante anchorwoman televisiva americana, con molto alcool in corpo ma, per contro, senza denaro, telefono cellulare, auto con annesso navigatore per districarsi nell’insidiosa notte losangelina, a poche ore dal colloquio di lavoro più importante della vostra vita?
E’ quello che accade a Meghan Miles (una brava e gigioneggiante Elizabeth Banks, resa forse eccessivamente fumettistica al doppiaggio), nell’incredibile e rocambolesco gioco delle parti messo in scena dal film di Steven Brill, buon autore di commedie, che qui strizza l’occhio, in particolare, a Una notte da leoni di Todd Phillips.
Il plot, pur nel suo ostentato sbandieramento di luoghi comuni, di battute e situazioni comiche non propriamente originali, funziona nel ritmo impresso al meccanismo a orologeria della storia, e nel tentativo - anche se non del tutto risolto - di introdurre il tema dello scambio o, per meglio dire, della perdita dell’identità, provocata dalla banalità del caso. Con tutte le distorsioni del giudizio, travisanti apparenze e fraintendimenti che ne derivano.
Basta un nonnulla, insomma, ci ricorda Brill, perché il fragile castello di carte e di maschere su cui costruiamo ogni giorno la nostra pubblica identità crolli, lasciandoci in balia dei contraccolpi del destino. Siamo dalle parti di Frantic, ma in tono enormemente minore, e senza la disperata genialità delle astratte geometrie polanskiane.
Il finale, poi, è fin troppo retorico e buonista: con la protagonista che, grazie all’insegnamento ‘di strada’ ricevuto da un’improbabile banda di spacciatori, si trasforma da algida telecronista a persona umana.
Una notte in giallo rimane un film godibile, a dispetto dei giudizi e, per rimanere in tema, delle apparenze: proprio per quel suo scivolare via veloce, in 95 minuti di entertainment senza troppe pretese.
E, se proprio volete un consiglio prima della visione: state attenti al gatto…




Transformers 4 - L’era dell’estinzione (Transformers: Age of Extinction, 2014) di Michael Bay
by Barbara Rossi La voce della luna
Al cinema... Il regista Michael Bay, già autore del kolossal Pearl Harbor, firma con la produzione di Steven Spielberg l’ultimo, rutilante capitolo (che si conclude, però, in modalità aperta) dell’avventurosa saga dei Transformers, che - cinque anni dopo la carneficina di Chicago - la Cia ha deciso di eliminare dal suolo terrestre.
Un inventore abbastanza sui generis, però, Cade Yeager (Mark Wahlberg), ritrova casualmente il mitico Optimus Prime, capo degli Autobot, in un vecchio cinema abbandonato e riparandolo innesca 127 minuti serratissimi di un plot che si conferma - nonostante qualche banalità di troppo e molte cadute in una certa retorica filoamericana e sentimentalista - all’altezza delle aspettative di un pubblico di appassionati.
Lo stile è, ormai, quello cui ci ha abituato gran parte del cinema contemporaneo (soprattutto nelle narrazioni in cui è la dinamica della action, in grado di attraversare trasversalmente generi e sottogeneri, a prevalere): ipercinetico, magniloquente, fluidamente magmatico e spettacolare nel suo immergere lo spettatore - anche grazie alle possibilità offerte dalle nuove tecniche digitali - dentro un’immagine scomposta, parcellizzata, ma incredibilmente ‘viva’.
Il cinema diventa così, in questa come in altre pellicole, sempre di più un’esperienza multisensoriale; dove la distanza tra chi guarda e chi (o che cosa) viene guardato si riduce a una linea veramente sottile. Sino ad arrivare alle estreme propaggini della visione filmica, e mettendo seriamente in crisi il concetto classicamente inteso di sguardo.
Il citazionismo e l’autoreferenzialità sono, in questo film, quasi scontati: inevitabili, e persino venati di una più o meno divertita patina di ironia, tipica di chi conosce e tiene ben salde le briglie di un mestiere perennemente in bilico tra disincantato pragmatismo e autentica creatività.
Senza negarsi neppure alcuni riferimenti pseudofilosofici, che nel movimentato Armageddon finale, tra rigenerati rapporti padri-figli/e, assumono la forma di domande su paternità e origini universali; in modo che, ciclicamente, la conclusione ci riporti, dentro gli abissi insondabili dell’universo, a un nuovo inizio. 
“Ci sono misteri nell’universo che non siamo destinati a risolvere. Ma chi siamo e perché siamo qui non sono tra quelli. Queste risposte ce le portiamo dentro. Io sono Optimus Prime…”. 



Ricordando Federico Fellini
by Barbara Rossi, La voce della luna

Tra "La voce della luna" e "Mulholland Drive": la necessità del silenzio
"Eppure se ci fosse un po' di silenzio, se tutti facessimo un po' di silenzio...forse qualcosa potremmo capire" (La voce della luna)
"Silencio..." (Mulholland Drive)
In apparenza (ma il rapporto, il sempiterno conflitto tra l'apparire e l'essere rappresenta una delle possibili chiavi di lettura di entrambi i film) e a un livello di lettura puramente epidermico, l'eccesso di divergenze narrative e formali potrebbe giustificare una domanda sul senso di istituire una relazione tra l'opera ultima (1990) del regista riminese e la nona (2001) dell'eclettico regista americano.
Eppure, come in fondo continuano insistentemente a consigliarci entrambi con la totalità del loro cinema, se si guarda attentamente, se davvero si presta attenzione, al minuto, al dettaglio, a certi indizi quasi-invisibili, beffardamente disseminati dalla mano di uno sconosciuto demiurgo appena dietro l'angolo (e l'orizzonte del nostro sguardo), le affinità emergono, come se un filo rosso che passa, senza soluzione di continuità, dall'uno all'altro.
C'è il grande sogno del cinema, come illusione e rappresentazione: le grossolane feste di paese, canterine e danzanti, la luna catturata e trasmessa su piccolo schermo, la sala da ballo 'sui generis' dove Gonella nostalgicamente volteggia sulle note di un valzer di Strauss, ne "La voce della luna"; il vacuo e vuoto rito dei party e dei provini hollywoodiani, lo scambio di identità fra individui, attori (o aspiranti tali) e loro ruoli, il fremente e conturbante spettacolo teatrale del Club Silencio, con le sue fantasmagorie surreali, e la strada lucida e nera che si snoda, come un nastro di celluloide sino a lambire le colline della 'città dei sogni', in "Mulholland Drive".
C'è il cinema come sogno, ambiguo meccanismo onirico, espressione di un inconscio (personale e collettivo) nevroticamente ossessivo, malato, perso (in entrambi i film) dietro i miti e i riti di un quotidiano divenuto volgare, superficiale, consumistico e in cui l'essere, tragicamente, non può che coincidere con l'apparire.
C'è la consapevolezza (malinconica in Fellini; disperata e, di conseguenza, suicida in Lynch) dell'impossibilità di modificare il volto delle cose, di trasformare se stessi, o anche soltanto di trovare un metodo palliativo, un lenimento alla propria pena: se non rifugiandosi ingenuamente, come fanno 'i matti' Gonella e Salvini, nella poesia del creato e dell'uomo; o soccombendo ai sogni, non importa se elaborati dalla propria mente o stampati sul copione, come accade a Betty/Diane.
C'è, infine, ed è forse l'elemento-chiave di entrambe le opere, la voce del silenzio (che è, autenticamente, 'voce della luna': del sogno che non si trasforma in incubo, rischiando di fagocitare la realtà tutta, il vissuto quotidiano dell'uomo; del sogno-poesia-immaginazione-follia lucida e insieme ascolto dei bisogni, del proprio e dell'altrui canto).
Quel silenzio tessuto di voci che, ci dice Fellini lasciandoci, nel nostro tempo smemorato quanto bisognoso di ricordi infantili, di sogni lirici e lievi e di realtà non edulcorate, sanno ascoltare, oramai, soltanto i visionari.
Quel silenzio, quell'acquietarsi della mente e del cuore, che deriva dall'ascolto consapevole dei propri desideri, come dalla presa di coscienza degli inevitabili limiti: lo stesso silenzio che Lynch ci esorta a ricreare dentro il teatrino rosso della nostra anima, prima di cadere fragorosamente - come Diane/Betty - dentro l'inarrestabile deriva della propria vita.



LA VOCE DELLA LUNA WE WANT YOU!!!
by Barbara Rossi, La voce della luna LA VOCE DELLA LUNA, Associazione di cultura cinematografica e umanistica, ricerca giovani cinefili e studenti in ambito artistico-umanistico fortemente motivati a un'esperienza di collaborazione volontaria per l'organizzazione di eventi (gestione segreteria, promozione evento, comunicazione). Se interessati inviare una mail (completa di C.V.) a lavoce.luna@virgilio.it; oppure telefonare per fissare un colloquio al numero 340/9418376 (Dott.ssa Barbara Rossi). 



QUARTET (Dustin Hoffman, GB, 2012)
by Barbara Rossi, La voce della luna

L'esordio alla regia del premio Oscar settantacinquenne Dustin Hoffman è un un piccolo, autentico, prezioso gioiello, la cui visione appaga e allieta lo sguardo e il cuore.
Il breve ma intenso racconto di un quartetto musicale e canoro, ricostituito a distanza di anni da Wilf, Cissy, Reginald e e Jean, ospiti di Beecham House, residenza per cantanti lirici a riposo, scorre per novantotto minuti con levità e intrepida allegria, fotogrando senza pregiudizi e luoghi comuni una stagione della vita che - pare dirci Hoffman - può ancora riservare felicità e sorprese.
Le splendide arie di Puccini e Verdi (il quartetto prepara il Rigoletto, per una serata in onore di Verdi destinata a raccogliere fondi che scongiurino la chiusura della casa di riposo) accompagnano lo svolgersi della storia, in un perfetto equilibrio narrativo, favorito da un uso accorto della macchina da presa e del montaggio.
Scoppiettanti e arguti i dialoghi, dalla sceneggiatura di Ronald Harwood, autore della pièce teatrale da cui il film è tratto; bravissimi, autentici punti di forza del film, gli attori protagonisti (da Billy Connolly-Wolf a Tom Courtenay-Reg, sino alla commovente Pauline Collins-Cissy e a Maggie Smith-Jean), sui cui volti segnati dal tempo lo sguardo di Hoffman indugia leggero, come in una carezza. Degno di nota anche il lavoro del doppiaggio italiano, nel riuscire a restituire le incalzanti e veloci battute fra gli interpreti.
Suggestivo, infine, risulta anche il luogo in cui il film è stato girato, la cittadina di Taplow, in Gran Bretagna, rivestita di magici colori autunnali esaltati dalla fotografia di John De Borman.
"Quarte" è un film da vedere e rivedere, per non perdersi neppure il più piccolo dettaglio. Una storia sul tempo che passa, sugli incontri e i distacchi, sulla vita che è sempre bella nonostante la vecchiaia, il sentimento della fine, la malattia e il dolore. Sull'amore e i sentimenti, sorgenti d'acqua sotterranee che separazioni, anni, trasformazioni del corpo, mutamenti di destini riescono mai a inaridire.



PIETA' (Kim Ki-Duk, Corea del Sud, 2012)
by Barbara Rossi, La voce della luna Se non avete ancora visto quest'ultimo film del regista sudcoreano, premiato con il Leone d'oro alla Mostra del cinema di Venezia lo scorso anno, non sperate di ritrovarvi le atmosfere intime e rarefatte di "Primavera, estate, autunno, inverno e...ancora primavera", o le intriganti geometrie esistenziali di "Ferro 3 - La casa vuota".
"Pietà", diciottesimo film del prolifico Kim, è un'opera durissima, impietosa a dispetto del titolo, ferocemente tesa a mostrare allo spettatore le conseguenze del male, le diramazioni della vendetta, le vorticose spirali del dolore che inesorabilmente stritolano i personaggi, senza alcun accenno di perdono.
Sotto questo profilo, ma con maggiori eccessi sia visivi che di contenuto, "Pietà" è senza dubbio più vicino al precedente (2004) "La samaritana": anche se la "sporca", triste e tragica parabola del giovane strozzino Kang-do (Lee Jeong-jin), che non conosce umanità, è senza dubbio più oscura e priva di speranza.
Kim Ki-Duk ci racconta, attraverso l'implacabilità di una macchina da presa-occhio brutalmente dilatato a cogliere i dettagli più turpi, la bruttezza del mondo e la bassezza umana: da cui, senza alcuna promessa o certezza, è possibile sollevarsi, ma solo a prezzo di un insopportabile dolore.
Niente in questo film è quello che sembra: Kang-do ha un viso angelico, da bambino, ed è, in realtà, un uomo spietato, amorale, che non esita a spezzare le gambe alle proprie vittime e che, almeno all'inizio, non risparmia neppure la propria madre, Jang-Mi (Jo Min-soo). Lei, invece, la donna dolce e arrendevole che all'esordio della storia si prostra davanti al figlio sconosciuto, chiedendo perdono per averlo abbandonato, si svela terribile personificazione della Vendetta.
Niente è come sembra: alla fine le vittime diventano aguzzini, gli assassini assassinati, i figli violenti agnelli sacrificali e le madri pietose caustici strumenti di un Fato che applica con severo rigore la legge del contrapasso.
Da segnalare, nel cast di attori che privilegiano un certo naturalismo interpretativo, Jo Min-soo: una Madre davvero sublime, nella tragica bellezza del suo dolore e della sua follia. Così come Lee Jeong-jin è il Figlio della Pietà michelangiolesca, efferato e innocente nel suo essere inconsapevole vittima di un destino già scritto.
Se non avete ancora visto "Pietà" non aspettatevi neppure un'impossibile redenzione finale: al limite, potrete fugacemente cogliere un flebile afflato di giustizia.
Avete davanti a voi un film feroce, doloroso, impegnativo: difficile guardarlo senza venire incisi a propria volta dal suo messaggio violento e struggente. 




by Barbara Rossi, La voce della luna
Associazione di cultura cinematografica e umanistica, ricerca studenti universitari, laureandi e/o laureati in ambito umanistico, con particolare riferimento alle discipline dell'educazione, della comunicazione, del cinema, del teatro, dello spettacolo in genere e delle arti visive.
Chi desidera conoscerci e avviare un'esperienza collaborativa con la nostra Associazione può inviare una mail (completa di C.V.) a: lavoce.dellaluna@virgilio.it; oppure telefonare per un colloquio al numero 340/9418376 (Dott.ssa Barbara Rossi). 


                                          La Voce della Luna - Media Education



Servizi didattici di Educazione ai Media rivolti a docenti, studenti e istituti scolastici di ogni ordine e grado

La Voce della Luna organizza corsi, seminari e laboratori di alfabetizzazione al linguaggio cinematografico e di approfondimento di tematiche educative con l'ausilio delle immagini (es. laboratori per immagini sui DSA) rivolti agli istituti scolastici di ogni ordine e grado (per docenti e studenti) seguendo le più recenti acquisizioni della "Media Education".
Per ciascun percorso didattico sono disponibili i relativi materiali di supporto al lavoro dei docenti. I percorsi sono personalizzabili in base alle richieste ed esigenze specifiche delle diverse classi e/o istituti scolastici.
Per contatti e informazioni:

Dott.ssa Barbara Rossi: lavoce.dellaluna@virgilio.it




UN RICORDO DI CLAUDIO G. FAVA (di Nuccio Lodato)

Chi leggerà queste poche righe lo farà dopo che a Genova, nella chiesa di San Francesco d'Albaro, si saranno svolte le esequie del grande Claudio G[iorgio] Fava, che ci ha lasciati d'improvviso nella sua città proprio la sera di Pasqua, a 84 anni.

La scelta di provare a scriverne solo dopo aver preso parte ai funerali è stata deliberata,  e si è rivelata giusta, perché, in una giornata nella quale cielo e mare e liguri  da lui tanto amati hanno voluto offrire il meglio di sé, ha dato modo di pesare  concretamente e fino in fondo l'importanza  della sua figura, a confronto col suo quartiere, lo scenario della vita quotidiana, la chiesa dove aveva sposato la sua Elena cinquant'anni fa, la clinica dove purtroppo non è riuscito a superare i postumi di un improvviso intervento chirurgico,  e persino la non più esistente sala -il cinema “Star” di via Bocchella- dove il Centro Universitario Cinematografico del capoluogo ligure lo invitava negli anni buoni a tenere le sue rutilanti presentazioni, apprezzandone lo smagliante nitore e la capacità di prendersi sì sul serio al momento giusto, ma solo fino a un certo punto. La conoscenza reciproca di Claudio e della pittrice e narratrice Elena Pongiglione aveva del resto avuto luogo, profeticamente, grazie alla comune frequentazione del mitico cineforum dei gesuiti dell'Istituto “Arecco”, la cui memoria è inseparabile dalla gigantesca ombra di padre Angelo Arpa (Fellini a Genova per mostrare nottetempo al cardinale Siri La dolce vita ed averne un tacito placet; il festival sestrilevantino del cinema sudamericano con Gianni Amico) e che è stato una fucina davvero superba di grande cinefilìa critica (un nome per tutti: Oreste De Fornari).

E non poteva che tornare alla mente dei più anziani, diretti testimoni d'epoca, un favoloso aneddoto (autentico) di allora. Proprio in quell'infelice cinema lungo e stretto, Fava presentava  -dopo lunghi anni di assenza del capolavoro di Visconti dagli schermi: poteva essere più o meno il '68-  Senso, temibilmente presente in platea  il pontefice massimo del culto viscontiano ortodosso, antico e accettato, dell'epoca: Guido Aristarco,  il passato teorizzatore del transito del regista “dal racconto al romanzo, dal neorealismo al realismo, dalla cronaca alla storia”, allora fresco di cattedra alla Facoltà di Magistero (altri tempi, veramente!) dell'ateneo genovese.

Ad Aristarco, laico e marxista dall'accentuata intransigenza in quel periodo di accesa contestazione, cattedratico pioniere, non doveva probabilmente essere andato a genio il fatto che il locale CUC -non a caso all'avanguardia sulle piste della lezione dei “giovani turchi” dei “Cahiers” e della vulgata nazionale propiziatane da Aprà attraverso “Filmcritica”:  Ambrogio, Viganò e Humouda si abbeveravano peraltro direttamente alle fonti parigine...-  si fosse rivolto al cattolico, moderato e a sua volta filofrancese Fava, piuttosto che non a lui, per introdurre a un pubblico prevalentemente studentesco uno dei, se non il, film  della sua vita.

Sta di fatto che, mentre il presentatore svolgeva inappuntabilmente il suo compito dal microfono situato sotto lo schermo, l'illustre convenuto, attorniato dalla consueta cerchia di amici genovesi, si distingueva in commenti ad alta voce dal chiaro intento disturbante.  Fava ignorò volutamente la cosa per un po': poi si interruppe e col consueto garbo ironico apostrofò: «Ma quel signore là in fondo che, non avesse quei baffoni tartarici [tale era l'aspetto dell'illustre neoresidente a Capo Santa Chiara in pieno '68...] direi proprio che somiglia a Guido Aristarco, potrebbe per cortesia zittirsi un momento?». «Ma io non sono Guido Aristarco» ribatté sorprendentemente l'interpellato: «sono Ermenegildo Zegna!». Lo scambio e anche il cicaleccio che l'aveva causato si chiusero lì, e Claudio concluse da par suo sulla contessa Livia e il bel tenente Mahler. Ma il ricordo dell'inconsueto e surreale scambio non abbandonò neppure lui se, riparlandone in una pausa di una trascorsa edizione di “Ring!” mi chiese perché, secondo me, in quell'occasione Aristarco si fosse scherzosamente spacciato per l'allora re degli abiti pronti. Non ho naturalmente saputo rispondergli. Oh gran bontà de' cavalieri antichi: il finto Zegna non è più in grado di tornare sul tema ormai da quasi vent'anni, e il suo allibito interlocutore non potrà più ripetergli o ripetersi la domanda.                                                                                                                                        

Così come non farà purtroppo in tempo, Claudio, a vedere stampata la raccolta dei suoi lontani scritti di quotidianista principe del «Corriere Mercantile» di Genova. Ci si era dedicato con disinteressata passione e legittimo orgoglio a fondo, nell'ultimo biennio, non lesinando talora qualche lieve battuta scaramantica, allorché gli pareva (e non a torto...) che i tempi editoriali stessero risultando un po' dilatati. E non vedrà neppure l'ampio e impegnativo volume dedicato alla storia dello spionaggio e al rapporto tra il delicato settore e il cinema, che invece, per parte sua, aveva consegnato, puntualmente pronto, all'editore. Resterà di pronta consultazione il suo generoso e spesso aggiornato blog, e sospesa tra i progetti l'ipotizzata ristampa di un suo lontano volume: il tanto introvabile quanto prezioso “Le camere di Lafayette”, una prima raccolta di recensioni e saggi.

Molti i bei contributi dei colleghi quotidianisti attuali: bravissima Fulvia Caprara sulla “Stampa”, come Mereghetti sul “Corriere”, Crespi sull'”Unità” e la Piccino sul “manifesto”, anche e soprattutto al cospetto dell'imbarazzante “buco” aggravato e continuato per tre giorni dell'ormai agonizzante pagina e mezzo di spettacoli di “Repubblica”R2... Lo ha naturalmente ben “fotografato”, anche da concittadino, il collega e amico Natalino Bruzzone, nel congedo tributatogli in prima pagina sul principale quotidiano ligure: «Ha vissuto di film e di libri, di passione per tutto quanto fa cultura, anche la più eccentrica, di devozione per la parola nel racconto e nella scrittura, di abnegazione d'altri tempi per il lavoro in RAI, di sincera bontà d'animo, di squisita gentilezza per il prossimo e di amore per la compagna di sempre». In quanti si potrebbe desiderare di chiudere la partita un simile epitaffio. Ma solo a lui risulta possibile farlo indossare, con l'irripetibile pienezza e la naturale eleganza che fu dei suoi papillons.

Nuccio Lodato

La Voce della Luna




Barbara Rossi "La Voce della Luna"
Il Circolo di condivisione letteraria La Voce della Luna nasce ad Alessandria nel gennaio 2010, per rispondere alle esigenze di chiunque desideri coltivare l’amore e la passione per la lettura e la letteratura in genere in uno spazio comune.
I membri del Circolo - che attinge nome ed ispirazione dall’omonimo film di Federico Fellini - si riuniscono per circa tre anni, solitamente l’ultimo venerdì di ogni mese, in orario serale e in diversi spazi di incontro della città di Alessandria, per condividere letture, pensieri e discussioni che variano a seconda dei diversi temi proposti durante gli incontri. 
Nel corso degli ultimi appuntamenti del Circolo La Voce della Luna si è occupata di memoria e autobiografia, della ricerca della felicità, del senso della vita (tematiche affrontate in chiave filosofica) e di sogni letterari e cinematografici.
La Voce della Luna, nei suoi tre anni di attività, ha ospitato eventi letterari e artistici, incontri con autori ed esperti nelle tematiche affrontate: in particolare, nell’aprile 2012, ha promosso la presentazione del libro “Anna Magnani: vissi d’arte, vissi d’amore”, alla presenza della studiosa romana Chiara Ricci. Il Circolo La Voce della Luna ha inoltre organizzato seminari di cinema (“Estasi culinarie: l’esperienza del cibo fra cinema e psicologia”, nel novembre 2010); spettacoli di sonorizzazione cinematografica (“Vacanze da cinema”, in collaborazione con il musicista Luca Olivieri, con diverse repliche tra il 2011 e il 2012); corsi di scrittura creativa e autobiografica (“C’ero una volta”, condotto dallo scrittore e giornalista Fabio Bosco, nel marzo 2011). Da tre anni, a settembre, La Voce della Luna organizza la merenda poetica “Impressioni di Settembre”, ospitata nelle sale e con il patrocinio del Comune e della Biblioteca di Rivarone; nel settembre 2012, sempre in collaborazione con il Comune di Rivarone, ha collaborato alla realizzazione di “Un fiume di parole: piccola fiera dell’editoria locale”.  
Il 5 marzo 2013, dopo un lungo cammino, molte riflessioni e la fondamentale esperienza come Circolo di condivisione letteraria, è nata l'Associazione di promozione sociale La Voce della Luna. L’Associazione ha l’obiettivo di promuovere la cultura cinematografica, letteraria, filosofica ed artistica, proponendosi come luogo di incontro e di aggregazione nel nome di interessi culturali ed assolvendo alla funzione sociale di maturazione e crescita umana e civile, attraverso l'ideale dell'educazione permanente.
In particolare, La Voce della Luna persegue i seguenti scopi:
- diffondere la cultura (cinematografica, letteraria, filosofica ed artistica) nel mondo giovanile e in quello adulto;
- ampliare la conoscenza della cultura cinematografica, letteraria, filosofica ed artistica, attraverso contatti fra persone, enti ed associazioni;
- allargare gli orizzonti didattici di educatori, insegnanti ed operatori sociali in campo cinematografico, affinché siano messi in condizione di veicolare l'importanza e la bellezza del cinema come arte e formidabile strumento di indagine sociale;
- proporsi come luogo di incontro e di aggregazione nel nome di interessi culturali, assolvendo alla funzione sociale di maturazione e crescita umana e civile, attraverso l'ideale dell'educazione permanente.
La Voce della Luna organizza e promuove:
- attività culturali: gruppi di lettura, presentazione di libri, convegni, conferenze, dibattiti, seminari di argomento cinematografico, filosofico e letterario, rassegne di cineforum, cicli di incontri a tema; attività di formazione: corsi di educazione all’immagine e al linguaggio cinematografico per studenti, educatori, insegnanti, operatori sociali; istituzione di gruppi di studio e di ricerca in ambito letterario, filosofico, artistico.
La Voce della Luna favorisce, inoltre, la collaborazione con enti pubblici, privati e con tutte quelle realtà associative che mostrino interesse e affinità con i suoi obiettivi, perché ritiene che la bellezza del cammino stia nella condivisione.
Ricordando sempre che
“A val nen tant ël seugn: / col seugn a l'é la spluva ch'a 'nvisca 'l feau. / A val còsa ch'a l'é capitàie dòp”
"Non vale tanto il sogno: / quel sogno è la scintilla che accende il fuoco. / Vale ciò che è capitato dopo" (da "L'Anciové sota sal", di Marco Gobetti)
Dott.ssa Barbara Rossi (Presidente e socio fondatore): laureata in Storia e Critica del cinema presso l’Università degli Studi di Torino. Svolge corsi di formazione ed approfondimento sul linguaggio e sulla teoria del film in istituti scolastici, enti pubblici e privati. E’ docente di Storia del cinema presso l’Università delle Tre Età di Alessandria. 
Prof. Gioacchino Lodato (Vicepresidente e socio fondatore): critico cinematografico, docente di 'Archivi e progetti per il cinema e lo spettacolo' presso l'Università degli Studi di Pavia.
Prof. Michele Maranzana (Segretario e socio fondatore): docente di filosofia e scienze sociali, autore di testi scolastici.
La Voce della Luna aderisce alla FIC (Federazione Italiana Cineforum)
In questo periodo La Voce della Luna si sta occupando (in collaborazione con il Circolo del Cinema di Tortona e con la rivista ‘Anima e Terra’) dell’organizzazione di un convegno sulla figura di Pier Paolo Pasolini, che avrà luogo a Tortona (Al) il prossimo 26 ottobre. Sta, inoltre, progettando percorsi di laboratorio sul cinema dedicati alle scuole della provincia, una serata di presentazione delle attività associative e una rassegna cinematografica a tema.   

Colpo di fulmine Makoto Shinkai


by Barbara Rossi La Voce della Luna
Colpo di fulmine Makoto Shinkai 
Il giardino delle parole (Kotonoha no niwa, 2013) 
Cadono, e scorrono come pioggia, le parole fra Takao e Yukino, nel parco-giardino in perfetto stile giapponese, incastonato come un gioiello in mezzo ai palazzi e al grigiore di una grande città, dove si incontrano nei giorni in cui non splende il sole.
Cadono, rade o simili a un fiume in piena, potenti e delicate come quell’acqua che viene giù dal cielo, bagnando, irrigando, nutrendo le menti e i cuori di due sconosciuti: un ragazzo quindicenne che sogna di diventare un creatore di scarpe (“scarpe che le facciano venir voglia di camminare”, dice Takao) e una misteriosa donna di ventotto anni, sempre elegante nei suoi vestiti di alta sartoria, sempre gentile, sempre, irrimediabilmente sola.
Makoto Shinkai, giovane ma già straordinario regista di corti e mediometraggi d’animazione ispirato dalle anime e dai manga giapponesi, oltre che dalla poetica visiva di Hayao Miyazaki, disegna e infonde vita ai luoghi - l’affollata e caotica città, gli interni familiari di quotidiana solitudine - e ai volti-corpi di Takao e Yukino: pennellando con tratti delicati e crepuscolari, come in un acquerello, o in un haiku, l’irrazionale non geometria di un innamoramento che forse soltanto con e attraverso il tempo diventerà storia.
Influenzato, per sua stessa ammissione, anche dalla letteratura di Haruki Murakami, Shinkai sembra possederne la medesima potenza evocativa e visionaria, insieme allo stesso interesse per la rappresentazione della solitudine non solo come limite ma anche come potenzialità e spinta propulsiva verso il cambiamento (cui fa riferimento anche Someone’s Gaze, che introduce la proiezione italiana de Il giardino delle parole: curiosa, in questo cortometraggio, la presenza del gatto come simbolo, elemento motore e
agglomerato di senso della storia, come già per l’opera prima Lei e il suo gatto, 1999).
Splendido il lavoro grafico compiuto sulle immagini: come l’alternanza dei toni, dei riflessi e delle sfumature di colore (con una vera e propria pioggia di verde luminoso nelle scene all’interno del parco, che investe con la sua carica evocativa persino i visi).

Qualche piccolo inciampo, qualche debolezza o sfilacciatura nel racconto vengono subito colmati dalla mano precisa ma lieve del regista, che promette di diventare un nuovo grande maestro del cinema d’animazione.

Storia di silenzi, questa de Il giardino delle parole: espressione di uno stile di racconto tipicamente orientale, che tende alla sintesi, alla grazia del vuoto, all’ineffabile bellezza di ciò che passa.

Luci e ombre del mondo e del cuore, che riverberano nei gesti, negli sguardi e nei discorsi di Yukino e Takao: dentro un giardino che è, prima di ogni altra cosa, luogo dell’anima.  


MONSIEUR LAZHAR

by Barbara Rossi La Voce della Luna
La Voce della Luna ha introdotto, presso l’Associazione Cultura e Sviluppo di Alessandria, due appuntamenti del Cineforum ‘Progetto Genitori’, organizzato dall’Associazione Il Porcospino. Un Cineforum nato per affrontare e condividere con insegnanti e genitori la riflessione su diverse tematiche educative, su percorsi didattici e di vita.
MONSIEUR LAZHAR
“La vita è una crisalide” (Bachir Lazhar)
Nel cortile di una scuola pubblica di Montréal, nel Quebec francese, come ogni mattina gruppi di ragazzini imbacuccati nei loro berretti e sciarpe chiacchierano fra loro, in attesa dell’inizio delle lezioni.
Alice e Simon, la cui giovane amicizia - duramente messa alla prova dalla tragicità dell’evento attorno a cui ruota la storia - costituisce uno dei file rouge del film, sono due ragazzini fra tanti altri: da soli, come tutti i loro compagni di classe, in una giornata che modificherà profondamente le vite di ciascuno. 
Monsieur Bachir Lazhar, algerino in fuga dal proprio paese e da una altrettanto tragica vicenda familiare, il cui nome - come spiega lui stesso il suo primo giorno di scuola - significa “portatore di buone notizie”, entra in scena quando tutto è già avvenuto. Il dolore, lo shock, il senso di smarrimento di alunni, insegnanti e genitori di fronte a una realtà inimmaginabile - l’amatissima maestra Martine che sceglie di morire in aula, quasi davanti agli occhi dei suoi ragazzi - rappresentano l’irreversibilità del destino con cui bisogna fare i conti.
E Bachir, invece, a differenza della maestra Martine, sceglie di lenire il proprio dolore condividendolo nel contatto
quotidiano con la classe, senza bisogno di renderlo, tuttavia, troppo manifesto.
Lo sguardo di Bachir, che - come scoprirà la preside della scuola e noi spettatori insieme a lei nel finale del film - sa insegnare senza essere un insegnante, si posa con lievità e rispetto sull’imbarazzo dei docenti, impotenti di fronte all’enormità dell’atto di Martine, costretti a mettere in pratica rigide regole didattiche che impongono il distacco, sia fisico che emotivo, dagli allievi.

Bachir accetta tutto ciò che gli proviene dall’ambiente scolastico in cui si trova: i limiti economici, che impongono alla preside, in mancanza di altre aule disponibili, di ritinteggiare quella in cui si è uccisa Martine; le falle di un sistema che ottusamente fonda il superamento del trauma da parte dei propri alunni sulla burocratica presenza di una psicologa a tempo determinato; l’assenza di alcuni genitori, i pregiudizi razziali di altri.

Sopra ogni altra cosa, Monsieur Lazhar intuisce che il dolore e il disagio, soprattutto quelli dei ragazzi alle soglie dell’adolescenza (di Simon e Alice, in particolare, accomunati dall’affetto profondo che nutrivano per la loro insegnante, autentica figura di riferimento) vanno affrontati: e che, a far questo, non basta il disporre i banchi a semicerchio, come faceva Martine.

Da un inizio in salita, con un dettato da Honoré de Balzac, attraverso compiti sulla violenza sociale e favole animate in classe, sino al commovente scambio di ruoli finale, in cui Bashir racconta una favola scritta da lui stesso sul dolore, la rinascita e la speranza chiedendo che gli vengano corretti gli errori di ortografia, i ragazzi vengono finalmente presi per mano nel lento percorso di elaborazione della perdita.

Anche Bachir, una volta scoperto l’inganno della sua qualifica professionale, lascerà la classe: ma, diversamente da Martine, senza lesinare una spiegazione e un abbraccio. 

L’esordiente Philippe Falardeau firma un’opera (vincitrice del Premio del pubblico al Festival di Locarno 2011 e candidata all’Oscar 2012 come miglior film straniero) asciutta e incisiva, delicata e commovente sui temi dell’integrazione scolastica, della convivenza multiculturale, della morte e del dolore; ponendo in primo piano la domanda di senso sul rapporto maestro-allievo, oscillante nel film tra i poli opposti di un eccessivo coinvolgimento (Martine e Simon) e di un eccessivo distacco (con gli unici elementi di equilibrio rappresentati da Bachir e Alice).

Molto efficaci i giovani interpreti Sophie Nelisse e Émilien Néron, nei ruoli di Alice e Simon, e Mohamed Fellag, noto attore algerino trasferitosi in Francia nel 1995, in seguito all’esperienza traumatica (quasi analoga a quella che il suo personaggio vive nella finzione filmica) dello scoppio di una bomba nel teatro dove stava andando in scena un suo spettacolo.

Racconta Bachir: “L’altra notte ho sognato che erano adulti ma parlavano ancora come dei bambini, e la colpa era mia perché avevo dimenticato di mettere un po’ di colore nelle loro vite”. Al contrario del sogno, l’enigmatica ma solida figura di Monsieur Lazhar compie il miracolo della guarigione e di un’educazione ‘dolce’ ai dolori della vita: evento ancora più fuori del comune per la piccola comunità scolastica (e su cui la pellicola invita a riflettere), dal momento che Bachir non è un ‘vero’ insegnante. Ma qual è, in questo caso, il discrimine, la linea di confine?

Forse, la chiave di lettura della storia di Lazhar e dei suoi ragazzi è nascosta nella favola che lui stesso racconta, a chiusura del film: “Quella notte un terribile incendio devastò la foresta e la crisalide non divenne mai farfalla. All’alba il fuoco si spense: l’albero era ancora in piedi, vivo, ma il suo cuore era diventato di cenere distrutto dalle fiamme, consumato dal lutto. Da quella notte quando un uccellino si posa sui suoi rami, l’albero gli racconta della crisalide che non fu mai farfalla e la immagina con le ali spiegate fluttuare nell’azzurro del cielo senza nuvole, ebbra di zucchero e libertà, testimone silenziosa e lieve delle nostre storie d’amore”.  

Cast tecnico 

Regia: Philippe Falardeau

Sceneggiatura: Philippe Falardeau (dal testo teatrale di Évelyne de la Chenelière) 

Cast

Monsieur Lazhar: Mohamed Fellag

Alice: Sophie Nélisse
Simon:  Émilien Neron

Claire: Brigitte Poupart
Danielle Proulx: Madame Vaillancourt

Francine Ruel: Madame Dumas

Gaston: Jules Philip

Martine Lachance: Héléna Laliberté

Dati

Anno: 2011

Nazione: Canada

Distribuzione: Officine UBU 

Durata: 94 min.

Data uscita in Italia: 31 agosto 2012

Genere: Dramma




LA PRIMA COSA BELLA
La Voce della Luna ha introdotto, presso l’Associazione Cultura e Sviluppo di Alessandria, due appuntamenti del Cineforum ‘Progetto Genitori’, organizzato dall’Associazione Il Porcospino. Un Cineforum nato per affrontare e condividere con insegnanti e genitori la riflessione su diverse tematiche educative, su percorsi didattici e di vita.
Barbara Rossi  La Voce della Luna
LA PRIMA COSA BELLA
Non ne ho di bei ricordi e se ce li avessi me li farei levare tutti dalla testa… perché dall’amore di una mamma così come la nostra, purtroppo o per fortuna, non c’è via di scampo.  (Bruno Michelucci)
Alla nona prova d’autore, il livornese Paolo Virzì ritorna nei luoghi d’infanzia, alla ricerca di un ipotetico fil rouge capace di connettere fra di loro storia privata e collettiva, presente e passato, memoria e costruzione del futuro. 
Questo grande serbatoio di immagini, suoni (le canzonette che sottolineano ed amplificano gli snodi cruciali del film), di odori terrestri, casalinghi (i pranzi e le cene in famiglia) e marini (elemento a cui non si può fare a meno di tornare, vedi la chiusa del film), pare venir trasfuso dal regista nel personaggio di Anna (Micaela Ramazzotti-Stefania Sandrelli, qui straordinariamente ‘speculari’). 
La figura di Anna giustifica a pieno il titolo del film, e ad esso rimanda costantemente, pur in mezzo ai contrasti e al violento chiaroscuro della sua vita e di quella dei figli, Bruno (Valerio Mastrandrea), personaggio ‘morettiano’ e Valeria (Claudia Pandolfi). 
Anna è e rimarrà sempre agli occhi dei figli “la prima cosa bella”, come ricorda a più riprese l’omonima canzone di Nicola Di Bari: ma con tutto il peso e l’ingombro che nella mente e nel cuore può determinare una madre affettuosa, allegra, capace di autoironia anche nei confronti delle proprie personali e drammatiche vicende (la cieca e feroce gelosia del marito, gli alti e bassi di un matrimonio sotto il segno della possessività e del sospetto, il conflitto con la sorella) e, nello stesso tempo, irrimediabilmente ‘altra’ rispetto la più tradizionale e rassicurante immagine materna.
Perché Anna, erede delle tante, controverse e molteplici figure femminili tratteggiate dal cinema italiano degli anni Sessanta e Settanta (persino, a tratti, di quell’onorevole Angelina del film di Zampa - 1947 - dove la Magnani si fa portavoce dell’ansia di riscatto e di affermazione della generazione di donne appena uscita dalla cruda esperienza della guerra), ha un carattere e un movimento di vita istintivo, brioso, spumeggiante. O perché, pur circondando i figli di una grande forza e tenerezza, si rifiuta di circoscrivere il suo ruolo a quello di madre, di moglie, di nucleo del focolare domestico.
Di qui deriva, forse inevitabilmente, il conflitto tremendo e irrisolto con il marito Mario (Sergio Albelli), con Leda (Isabella Cecchi), che non riuscirà mai a perdonarle quella seduzione della bellezza esercitata senza colpa e senza malizia alcuna, ma con dolorosissime conseguenze, fin dall’epoca dei primi amori. 
Di qui proviene, probabilmente, lo sfasamento esistenziale di Bruno (e, in parte, la quotidiana infelicità di Valeria), che è anche la voce narrante della storia, ripercorrendo attraverso il suo sguardo, prima infantile e poi adulto, e i suoi ricordi la caotica, sorprendente e controversa parabola di vita di questa madre bellissima, amante riamata dai suoi “bambini”, eppure sfuggente.
Il film di Virzì (non a caso premiato con tre David di Donatello, quattro Nastri d’Argento e candidato dall’Italia all’Oscar come miglior film straniero per il 2011), in perenne oscillazione fra commedia e dramma, con la sua vivace e nostalgica colonna sonora di motivi celebri, con i colori caldi dei ricordi estivi del mare di Livorno, sembra voler riflettere, senza giudicare, sul vasto e complesso tema della costruzione del rapporto genitori-figli: dove, in conclusione, solo un evento definitivo come la morte si rivela in grado di illuminare il senso di alcune scelte esistenziali e di sanare vecchie ferite.
La domanda posta all’inizio della storia, tuttavia, in parte rimane: in che misura una madre come Anna può concedersi di essere anche donna e di rispettare le proprie scelte sentimentali, professionali, di vita? Fino a che punto le è possibile farlo senza ferire la sensibilità dei figli? E dove si trova, se c’è, il compromesso, la pacificazione?
“Guarda che la nostra è una mamma molto importante, per raccontare la sua storia ci vorrebbe un romanzo di trecento-quattrocento pagine. Per raccontare la storia di questa madre e di noi due, fratello e sorella e di tutte le nostre avventure ci vorrebbe uno di quei filmoni di una volta...”, ricorda Bruno, a Valeria e a noi spettatori…                   
Cast tecnico
Regia: Paolo Virzì
Sceneggiatura: Paolo Virzì, Francesco Bruni, Francesco Piccolo 
Cast
Anna Michelucci (giovane): 
Micaela Ramazzotti
Anna Michelucci:
Stefania Sandrelli
Bruno Michelucci: 
Valerio Mastrandrea
Valeria Michelucci:
Claudia Pandolfi
Isabella Cecchi: 
Zia Leda Nigiotti
Sergio Albelli:
Mario Michelucci
Dati
Anno: 2010
Nazione: Italia
Distribuzione: Medusa Film 
Durata: 116 min.
Data uscita in Italia: 15 gennaio 2010
Genere: Dramma


Buona partecipazione di pubblico, martedì 9 aprile, per l’incontro “Non ci resta che ridere: vizi e virtù degli italiani al cinema”, che rientra nel ciclo di appuntamenti culturali organizzati dall’Unitre di Alessandria e ospitati alla sala Pittatore del Centro riabilitativo Borsalino.
Insieme alla relatrice Barbara Rossi, dell’Associazione ‘La voce della luna’, si è compiuto un breve viaggio nella commedia all’italiana, dalle lontane origini nell’immediato dopoguerra alla stagione aurea degli anni Sessanta, sino ad arrivare ai giorni nostri. 
Fra le pellicole analizzate, “Risate di gioia”, con Anna Magnani e Totò, “Totò, Peppino e la malafemmina”, l’episodio “Guglielmo il dentone” da “I complessi” e “Il medico della mutua”, con Alberto Sordi, oltre a “Non ci resta che piangere”, della coppia comica Troisi-Benigni.
I prossimi appuntamenti culturali al Centro riabilitativo Borsalino sono previsti per martedì 7 maggio con “Domotica: quanto potrebbero aiutarci i robot in casa?”, relatore Agostino Villa, e martedì 4 giugno con “Le novelle di Dino Buzzati”, relatrice Silvia Martinotti.
Per informazioni: www.unitre.it 
Per contatti con l’Associazione ‘La voce della luna’: www.voceluna.altervista.org 
Nell’immagine: fotogramma da “Il medico della mutua”, di Luigi Zampa, 1968. 
Barbara Rossi


Un film di Giorgio Diritti. Con Jasmine TrincaAnne AlvaroSonia Gessner,Pia EngleberthAmanda Fonseca GalvaoDrammatico, durata 110 min., Italia-Francia 2013.

Augusta è una giovane donna in fuga: la natura della pena da cui cerca di allontanarsi non è un elemento fondamentale, nell'ultimo film di Giorgio Diritti.
Quello che conta è il viaggio, il lungo percorso che la condurrà all'incontro con un altro pianeta, l'Amazzonia, agli antipodi rispetto all'Occidente, eppure già così miseramente pregno dei suoi scarti, delle sue ambiguità e contraddizioni.
Ma non è neppure questo il tema principale della pellicola, supportata (come sempre nelle opere di Diritti) da una splendida fotografia di scenari naturali, che ricorda - a tratti - la potenza di certe immagini herzoghiane.
Perché quello di Augusta è un viaggio interiore che inizia da uno sguardo, a una luna che trascolora nell'ecografia di un bambino probabilmente mai nato, e si conclude a contatto con l'utero caldo, fecondo e liquido di una terra-divinità, senso e misura del mondo.
L' Amazzonia di forti contrasti, di vivide luci e colori e suoni, contrasta a sua volta con l'algida bellezza del Trentino, da cui Augusta proviene; con i silenzi dello spirito e del cuore che sembrano farsi materia pesante in rapporti parentali e di fede declinati al femminile.
"Ora voglio essere terra, dimenticarmi di Dio", afferma Augusta ad un certo punto del cammino, accompagnata non a caso da un libro, "Attesa di Dio", di Simone Weil: ma la sua domanda sul senso, come quella di ciascuno di noi, non si esaurirà nel viaggio e il finale del film rimarrà aperto ad ogni possibile (e personale) risposta.
"Un giorno devi andare" è un film molto più complesso di quanto appaia, perennemente in bilico tra due precipizi, la nascita e la morte, che Diritti esplora in punti di piedi e con grande rispetto.
Bravissime le interpreti femminili, da una Jasmine Trinca che lavora di cesello sul personaggio di Augusta, a Pia Engleberth (Suor Franca), ad Anne Alvaro e Sonia Gessner.
Dov'è Augusta alla fine del film? Risponde Diritti: "E' nel suo cuore, dove sta bene".
Barbara Rossi 


Cari Amici, ricordo a chi fra voi fosse interessato l'appuntamento di domani pomeriggio, dalle 15 alle 16, con la conferenza "Non ci resta che ridere: vizi e virtù degli italiani al cinema", che terrò presso la Sala Pittatore del Centro riabilitativo Borsalino (ex sanatorio) di Alessandria. L'ingresso è libero.


“Ci avete fatto caso?” Un grande attore comico di cinema e teatro, Aldo Fabrizi, iniziava i suoi spettacoli con questa domanda, nei lontani giorni della rivista.

Da allora il nostro cinema  è stato costantemente attraversato da una vena umoristica e insieme amara: una forma di comicità aderente al reale, che con la commedia all’italiana è diventata specchio di vizi e virtù, grandezze e miserie di tutti noi.

E allora, non ci resta che ridere … 

Barbara Rossi, Associazione 'La voce della luna'






Dopo un lungo cammino, molte riflessioni e la fondamentale esperienza come Circolo di condivisione letteraria, sono lieta di comunicarvi che il 5 marzo 2013 è nata l'Associazione di promozione sociale 'La voce della luna'.

'La voce della luna' ha l’obiettivo di promuovere la cultura cinematografica, letteraria, filosofica ed artistica, proponendosi come luogo di incontro e diaggregazione nel nome di interessi culturali ed assolvendo alla funzione sociale di maturazione e crescita umana e civile, attraverso l'ideale dell'educazione permanente.

In particolare, 'La voce della luna' persegue i seguenti scopi:

- diffondere la cultura (cinematografica, letteraria, filosofica ed artistica) nel mondo giovanile e in quello adulto;

- ampliare la conoscenza della cultura cinematografica, letteraria, filosofica ed artistica, attraverso contatti fra persone, enti ed associazioni;

- allargare gli orizzonti didattici di educatori, insegnanti ed operatori sociali in campo cinematografico, affinché siano messi in condizione di veicolare l'importanza e la bellezza del cinema come arte e formidabile strumento di indagine sociale;

- proporsi come luogo di incontro e di aggregazione nel nome di interessi culturali, assolvendo alla funzione sociale di maturazione e crescita umana e civile, attraverso l'ideale dell'educazione permanente.

'La voce della luna' organizza e promuove:

- attività culturali: gruppi di lettura, presentazione di libri, convegni, conferenze, dibattiti, seminari di argomento cinematografico, filosofico e letterario, rassegne di cineforum, cicli di incontri a tema;

- attività di formazione: corsi di educazione all’immagine e al linguaggio cinematografico per studenti, educatori, insegnanti, operatori sociali; istituzione di gruppi di studio e di ricerca in ambito letterario, filosofico, artistico.

'La voce della luna' favorisce, inoltre, la collaborazione con enti pubblici, privati e con tutte quelle realtà associative che mostrino interesse e affinità con i suoi obiettivi, perché ritiene che la bellezza del cammino stia nella condivisione.

Ricordando sempre che

“A val nen tant ël seugn: / col seugn a l'é la spluva ch'a 'nvisca 'l feau. / A val còsa ch'a l'é capitàie dòp”  

"Non vale tanto il sogno: / quel sogno è la scintilla che accende il fuoco. / Vale ciò che è capitato dopo" (da "L'Anciové sota sal", di Marco Gobetti) 

Barbara Rossi

Associazione di promozione sociale La voce della luna, Alessandria   www.voceluna.altervista.org 

Presidente: Dott.ssa Barbara Rossi

Vicepresidente: Prof. Gioacchino Lodato

Segretario: Prof. Michele Maranzana 

Commenti

Post più popolari