Immigrazione: dopo Charlie Hebdo? by Daniele Borioli


by Daniele Borioli (*)
(Proseguiamo con un interessante contributo del Senatore Borioli, il dibattito sull’immigrazione, a seguito degli interventi di Angelo Marinoni, Osservazioni a latere del “Mare Nostrum”, e Andrea Zoanni, Immigrazione).
Da quando “Appunti” ha avviato l’interessante dibattito sull’immigrazione (all’inizio di dicembre) ad oggi, alcuni eventi più o meno direttamente connessi a quella tematica hanno fornito alla riflessione nuovi spunti con i
quali provo a cimentarmi.
Comincio dalla tragedia in mare del “Norman Atlantic”, che da semplice per quanto terribile incidente marittimo, connotato pressoché esclusivamente dalle domande sulle ragioni tecniche del disastro e dalla giusta esaltazione del coraggio e dell’abnegazione dei soccorritori, sia è progressivamente colorato della luce inquietante del mistero, circa la presenza nella pancia della nave di non si sa quanti clandestini, probabilmente andati incontro al più fatale dei destini.
Ciò che è accaduto nelle acque dell’Atlantico e ci ha tenuto inchiodati per due giorni ai notiziari, a seguire l’andamento delle operazioni di salvataggio, ci ha di nuovo posti di fronte alla catastrofe umanitaria che, ormai da lunghi anni, si svolge tra le coste del Mediterraneo, il Mare più bello e ricco di storia del mondo, divenuto custode delle ossa di migliaia e migliaia di esseri umani in fuga verso la vita e sprofondati nella morte senza nome.
Le riflessioni di Marinoni e Zoanni sul tema, molto puntuali, ricche e per diversi aspetti divergenti riflessioni, mettono a fuoco alcuni cardini essenziali della questione: le politiche e gli strumenti di “governo” dei flussi migratori, compresi gli strumenti di accoglienza e di integrazione; le misure di contenimento dei flussi clandestini e di contrasto alla criminalità collegata alla putrida “imprenditoria” degli scafisti.
Concordo con Zoanni, allorché egli manifesta le proprie perplessità circa quelli che appaiono i limiti, anche nell’impegno finanziario, del passaggio dall’operazione Mare Nostrum all’operazione Triton e a Frontex. E tuttavia non posso non sottolineare la portata strategica di un passaggio dalla gestione “domestica” della vicenda a una gestione “comunitaria”.
A costo di scontare qualche debolezza iniziale, l’assunzione di responsabilità da parte dell’Europa è un fatto di rilievo epocale, il quale, oltre alla valenza che in prospettiva può assumere nell’affrontare concretamente il flusso migratorio dalle sponde Sud del Mediterraneo, pone addirittura nel corpo dell’edificio europeo un mattone costitutivo sino ad oggi mancante: quello per cui il presidio dei confini dell’Unione e il governo di ciò che in entrata e in uscita da essi succede è materia che riguarda tutti e non solo gli Stati che ai confini sono collocati.
Insomma, il passaggio a Frontex, visto in questa luce, non è solo il passaggio a uno strumento diverso rispetto a Mare Nostrum, che andrà sicuramente meglio finanziato e potenziato in divenire, ma la conquista di una più avanzata e unitaria percezione di sé dell’Unione Europea, sul fronte della politica di relazioni internazionali.
Sono perciò in disaccordo con Zoanni, se ho inteso bene alcune sue parole, quando egli afferma che la questione delle migrazioni è questione che compete essenzialmente gli stati nazionali e non l’Europa. Un’affermazione che potrebbe essere vera, allorché si riuscisse “chirurgicamente”, nel momento dell’approdo sul suolo europeo, a stabilire quale sia il Paese verso cui il profugo intende dirigersi, per ricongiungersi con i famigliari, i parenti o le comunità di riferimento. E, su quella base, fosse possibile assegnare ai Paesi di destinazione il compito dell’accoglienza, con i relativi oneri finanziari e operativi.
Sappiamo bene, tuttavia, come questa ipotesi sia totalmente astratta e, comunque, del tutto impraticabile almeno per i momenti più drammatici e umanitariamente complessi da gestire: quello delle traversate del mare, molto spesso inquinate dai fenomeni di illegalità e criminalità dei trafficanti di uomini e culminanti in naufragi ed esigenze di soccorso; quello dell’approdo con le conseguenti necessità di prima accoglienza.
E’ pensabile che tutto ciò potesse, ad libitum, gravare solo sulle spalle dei Paesi che, in ragione della geografia fisica, si trovano sul limes? Oltre alla sua palese iniquità, tale condizione non avrebbe alla fine segnato il definitivo fallimento di ogni ipotesi di politica non solo migratoria ma, tout court, estera comune?
Io credo di sì. E credo, perciò, che la risposta ai sacrosanti dubbi che Zoanni espone stia nel potenziamento progressivo di Frontex, nel pieno coinvolgimento dell’Unione nel governo delle politiche migratorie, in primo luogo per quanto riguarda i profughi: i milioni di donne, uomini, bambini, anziani, che fuggono dai teatri di guerra, dalla repressione e dalla tortura messe in atto nei loro Paesi di provenienza.
La constatazione, pur vera, che Zoanni svolge circa il numero degli immigratii presenti in Italia, sensibilmente inferiore a quello non solo di Germania, Regno Unito e Francia, ma anche a quello della Spagna, è un  ottimo e più che fondato argomento a contrasto degli “xenocatastrofismi”, di chi evoca l’orda invadente ad uso strumentale di propaganda. Dimenticando, appunto, che dei grandi Paesi europei l’Italia è a oggi il meno popolato di migranti.
Tuttavia, questo dato inconfutabile non può farci dimenticare il contesto storico e demografico che spiega almeno in parte le differenze dei numeri. La Germania ha circa il doppio di immigrati, ma una popolazione di quasi trenta milioni superiore. Il Regno Unito e la Francia, e la stessa Spagna, hanno alle spalle un ben più consistente trascorso storico di impero coloniale, che in parte spiega l’oggi.
Anche per questo, occorre non perdere di vista come l’incidenza numerica dell’immigrazione in Italia, debba probabilmente essere valutata, nel suo impatto con la cultura, la percezione, l’opinione dei cittadini e delle nostre comunità, anche in considerazione del carattere più rapido e recente del formarsi di quel numero e, di conseguenza, di un impatto più complesso da gestire sotto molteplici aspetti.
Veniamo così al secondo degli episodi che, come dicevo all’inizio, hanno invaso il campo della discussione sui fenomeni migratori dal momento in cui “Appunti” l’ha aperto nello scorso fine anno. Mi riferisco evidentemente agli eventi di cruento e spietato terrorismo registratisi a Parigi, prima alla redazione di Cahrlie Hebdo, e poi al centro commerciale Hyper Cacher.
Non mi addentrerò qui ad approfondire le tematiche legate alla matrice di quegli attacchi, alla natura del “califfato”, in rapporto alle varie famiglie che popolano i fondamentalismi di matrice islamista, e in relazione con le vicende storiche recenti, comprese in esse le gravi responsabilità (a mio parere) dell’Occidente, dall’intervento in Iraq in là, nel determinarsi della dramatica situazione attuale.
Mi soffermo invece sui nessi che gli attacchi parigini aprono in tema di immigrazione/integrazione, soprattutto sul versante di una delle più imponenti quote dell’immigrazione stessa: quella legata a popolazione di religione musulmana.
E’ innegabile, e sarebbe sciocco non vederlo, che la recrudescenza terrorista di matrice islamista-fondamentalista rischia di alimentare un’irrazionale ondata di repulsione pregiudiziale verso la religione musulmana in quanto tale e, ad arte enfatizzata come taluni leaders politici hanno già cominciato a fare, a nutrire un grumo di pensiero xenofobo orientato a identificare il musulmano al potenziale terrorista.
Una deriva sciagurata, destinata a rinfocolare le tensioni e, se possibile, a generare nuovi giacimenti di odio interreligioso, allargando il campo di reclutamento del terrore. Una deriva, ahinoi, possibile. Se la politica non saprà prendere adeguate contromisure e se, alla luce, della rapida “involuzione” dei fatti, non sapremo tarare su un raggio d’azione nuovo l’approccio anche culturale alla questione.
Marinoni apre sul tema un’importante approfondimento su cui mi piace soffermarmi, spero senza essere frainteso. Mentre, seppure in un modo diverso, e utilmente “provocatorio”, Pietrasanta apre davanti ai nostri occhi, in un suo recentissimo pezzo, uno stimolante interrogativo, a muovere da una constatazione: “oggi e ora l‘Islam appare come l’unica religione che, seppure in frange minoritarie, concepisce come possibili gli strumenti della violenza e del terrore come strumenti idonei a regolare i propri rapporti con le altre religioni o con ciò che sta fuori di sé”.
Una citazione letterale che mi pare ponga una questione oggettiva, con la quale fare i conti.
Comincio dal tema dell’integrazione, che Marinoni coglie in vari e condivisibili aspetti. Ora, tanto per non perdermi in fumisterie, provo a dirla così, a costo di sembrare brutale: dopo Cahrlie Hebdo e dopo Hyper Cacher, non sono più concesse ambiguità. Se non vogliamo lasciare campo libero alle risorgenti xenofobie e agli ancor più pericolosi razzismi, occorre che puntiamo dritti a rafforzare il paradigma dell’integrazione, abbandonando i cedimenti relativisti che, troppo spesso, ci hanno accompagnati nel vecchio e caro atteggiamento politically correct.
In questo senso, attenzione, occorre rinsaldare con ferrea determinazione i capisaldi dell’integrazione con quelli della formazione alla e della cittadinanza. Detta diversamente: non può esserci vera integrazione senza un progetto che dia piena cittadinanza ai migranti nati sul suolo italiano, ma non possono esserci né integrazione né cittadinanza senza un progetto di formazione culturale (e prima ancora scolastica) che faccia dei “nuovi cittadini”, cittadini a tutto tondo italiani, non solo nella lingua, ma nella costruzione del proprio sistema di riferimenti culturali e valoriali.
In modo che la dimensione religiosa e di fede, rispettosamente e rigorosamente tutelata nella sfera della persona, non travalichi però quegli ambiti cui in uno stato laico essa non deve poter avere accesso. Altra cosa è, ovviamente, favorire tutti i percorsi in atto tra i molti “uomini di buona volontà” che le diverse confessioni esprimono, finalizzati al dialogo interreligioso e alla valorizzazione dei valori dell’uomo che, ogni autentica religione, punta a promuovere.
Questa mi pare la strada giusta. Molto meno, anzi per nulla, mi convincono invece le ricette che puntano a stimolare, quasi per reazione all’aggressione dei fondamentalismo di matrice islamista, una sorta di mobilitazione “militante” e difensiva di matrice cristiana e/o ebraica. Che finirebbe per perdere di vista le molte responsabilità che anche l’Occidente ha accumulato nei secoli nei confronti dei “dannati della terra” e, giacché la memoria dolente dei popoli è molto dura a morire, rischierebbe di funzionare come ulteriore benzina versata nei pressi del fuoco.
(*) Senatore PD della provincia di Alessandria

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