Cofferati e Renzi, by Franco Livorsi


by Franco Livorsi Città Futura on-line
Ci fu un tempo in cui Cofferati mi piaceva molto. Era stato un segretario di categoria e poi generale della CGIL al tempo stesso molto pragmatico e molto determinato. Aveva firmato molti buoni accordi. Non aveva esitato a polemizzare anche con D’Alema quando questi era stato presidente del Consiglio. E contro la politica economica del governo Berlusconi aveva saputo promuovere una manifestazione di tre milioni di persone a Roma, rivolgendo ai convenuti parole che andavano all’anima dei lavoratori. Libero da impegni sindacali nella CGIL, era poi diventato, nel 2002, un leader autorevolissimo dei Democratici di Sinistra, uno dei partiti in cui si era incarnato il PCI dopo lo
scioglimento del 1991. Speravo che potesse diventare, per tali ragioni, il traghettatore dei Democratici di Sinistra nel socialismo democratico europeo “senza se e senza ma”: entrandovi per  la porta di sinistra (quella di Mitterrand e infine di Jospin, ossia dell’alternativa di sinistra politica e istituzionale, per intenderci). Mi era sempre parsa l’evoluzione naturale della sinistra in un paese in cui dal 1948 il primo partito era stato il PCI. Qui il socialismo democratico in senso europeo avrebbe potuto essere solo di sinistra, pensavo ben prima dello scioglimento del PCI. Per tale rinascita “positiva”, ed unitaria, il leader non è tutto, ma è un fattore importante: una condizione non sufficiente, e neanche preponderante, ma necessaria. Al proposito non ho mai avuto pregiudiziali verso i grandi sindacalisti nella politica, e perciò speravo che Cofferati avrebbe potuto diventare il grande leader da contrapporre a Berlusconi che la sinistra non aveva saputo esprimere negli anni del crollo del comunismo e della necrosi della prima repubblica. Del resto. già alla morte di Berlinguer (1984), quando ero il capogruppo del PCI nel Comune di Alessandria, avevo auspicato che il PCI puntasse su un grande leader di pari livello rispetto all’Enrico tragicamente scomparso, e di altrettanto grande popolarità e connessa autorevolezza, ma apertissimo al socialismo riformista. Speravo che si sarebbe puntato non sul solito Vice in carriera da una vita di Berlinguer, cioè sul pur onestissimo Natta, ma su Luciano Lama. Non fu così. Anche per quella via si sarebbe potuto entrare nel socialismo democratico europeo “da sinistra”, senza ammazzare quel che di democratico e riformatore c’era pur stato - sia  pure insieme a non poca zavorra burocratica ed unanimista - nel grande comunismo italiano; ma anche senza calare le brache di fronte al Capitale, come la destra socialdemocratica saragattiana, e non solo, aveva fatto. Tuttavia non fu possibile: non solo nel 1984 (alla morte di Berlinguer), ma neanche nel 2002-2003, quando Cofferati era spontaneamente seguito da folle di simpatizzanti ovunque andasse. Tra cui noi di “Città Futura”, che stavamo nascendo. Con Cofferati, insieme alla Camera del Lavoro di Alessandria ed altri, facemmo una manifestazione al Cinema Ferrovieri, in cui per noi parlò, con efficacia, il nostro amico Renzo Penna, e in cui, su invito dell’allora segretario uscente della CGIL parlai brevemente anch’io. In quella fase scrivevo regolarmente sul “Piccolo” e volli discutere lì, il 6 novembre 2002, nella stessa giornata del dibattito, la prima biografia del personaggio: “L’ultimo leader. Biografia di Sergio Cofferati”, di Nunzia Penelope (Editori Riuniti, Roma, 2002). Il solito D’Alema, in quella fase, cominciò il suo ricorrente gioco di far fuori i grandi leader non figli della burocrazia di partito (come Lama, come Cofferati, come Renzi, se gli fosse riuscito), cominciando a dire che, in politica, i sindacalisti non vanno bene. E tanti clarinetti dell’ex apparato comunista gli dicevano di sì. Meglio Natta, meglio Fassino, meglio Bersani, insomma “l’usato sicuro” … Cofferati riempiva piazze e sale ovunque andasse, ma non gli fu spianata alcuna strada, nonostante la povertà di leader, denunciata allora da Nanni Moretti su una Piazza di Roma (“con questi leader perderemo sempre”). In alternativa gli fu offerto di andare a fare il sindaco di Bologna. Con delusione successiva dei bolognesi, perché il “Sergio” era nato agitatore e leader d’organizzazione di massa e non amministratore. Fu per me la prova, percepita con malinconia, che Cofferati – contro quello che avevo sperato - non era un leader nazionale, ma uno pronto a gettare la spugna prima della battaglia decisiva, vendendo la primogenitura per un piatto di lenticchie municipali (poi andategli pure per traverso). Dopo di che Cofferati divenne deputato europeo, e tale resta. Infine gli si prospettò l’occasione di diventare candidato del centrosinistra per governare la Liguria ed accettò. Ma i tempi erano cambiati perché nel frattempo era nato il PD, sorto dall’unione - stranissima storicamente - tra post-comunisti e post-democristiani. Una formazione politica seleziona i capi conformi alla sua natura. Così arrivò Renzi, un uomo finalmente nuovo, giovane, leader, post-comunista, già della sinistra “cattolica” ma per nulla democristiano, come non lo è Rosy Bindi: il nuovo segretario del PD che ha subito fatto aderire il suo partito – cosa mai fatta nei sei anni di vita precedenti del PD - al Partito Socialista Europeo; e lo ha fatto diventare, con le elezioni europee, il primo partito della sinistra europea, popolarissimo in tutte le socialdemocrazie fuorché in Italia. In pratica come sinistra, con Renzi, si è finalmente usciti dal guado del non essere “né comunisti né socialisti” e si è entrati a vele spiegate nella socialdemocrazia europea. Ma per la porta della destra socialista europea. Siccome i comunisti (o meglio i postcomunisti), da Occhetto a D’Alema, avevano impedito che ci si entrasse “alla francese”, da sinistra, per la via di Jospin, bocciando ogni aperta metamorfosi socialista, anche fatta per unire tutta la sinistra come avrebbe potuto esser fatto tra 1989 e 1991, e ogni leader non sgusciato dall’apparato ex comunista, si è sfondata la porta della socialdemocrazia europea “in Italia” da destra, per la via di Tony Blair. Tanto più che il riformismo, dopo la fusione tra ex comunisti ed ex democristiani, poteva ormai essere solo un “ultrariformismo”, sulla linea della destra socialista europea. Per questa stagione, ma la storia non finisce qui. Quelli che strillano come aquile contro il “rinnegato Renzi”, come Lenin nel ’19 gridava in un suo famoso piccolo libro contro il “rinnegato Kautsky”, avrebbero dovuto impedire la nascita del PD, cioè il matrimonio tra post-comunisti e post-democristiani, e soprattutto avere il coraggio di lasciar nascere un leader molto forte fuori dalle loro piccole vecchie logiche da uomini di apparato che avevano tutti acquisito i gradi da “colonnello” o “generale” nel PCI. Oggi lì è tutto un lamento da “secchia rapita”, ma ormai è tardi. Indietro nella storia non si torna. Ormai la socialdemocrazia europea “di sinistra”, ammesso e non concesso che non sia la solita ribollita “né socialista né comunista” velleitariamente cercata da Occhetto e da tutti gli epigoni del PCI, si può tentare solo spaccando il PD di Renzi; ma gettando via, se lo si farà, l’acqua sporca col bambino, e facendo sfacciatamente, senza crederlo, il gioco del centrodestra, ridando ad esso ossigeno: un centrodestra fattosi nel frattempo sempre più lepenista e xenofobo, cioè fascistoide. Ma naturalmente pretendere che anche i migliori epigoni del defunto comunismo o marxismo, rivestitisi di panni costituzionali ma sempre ugualmente minoritari e marginali rispetto al “mondo della politica”, possano comprendere che per tal via si opera per la sconfitta della sinistra e per il trionfo di una destra-destra sarebbe eccessivo. Comunque la loro irritazione, benché tardiva dopo il matrimonio coi democristiani di sette anni fa, “umanamente” si può capire. Il “renzismo”, infatti, ha segnato la fine di tutta la vecchia guardia, compreso Cofferati. Ha pure posto fine al diritto di veto, implicito, dei sindacati sulla politica sociale, irritando a morte chi l’aveva esercitato. E tutta questa “vecchia guardia” naturalmente si è irritata. Perciò sembra italicamente pronta a rovinare il riformismo possibile per costruire, tramite la fabbrica della nostalgia, nuovi “strumenti” all’antica, nuovi partiti, costi quel che costi. Questa “vecchia guardia” della sinistra non è né stupida né irresponsabile, per come la conosco io. Ma è  tentata dallo scissionismo: dopo che la CGIL è scesa in campo contro Renzi e dopo che si è profilata la vittoria di una nuova sinistra in Grecia. Tuttavia la CGIL, dopo l’acme dell’opposizione sociale dello sciopero generale avvenuto, secondo me nell’anno in corso - non saprei dire quando - dovrà tornare all’interlocuzione col governo, e Renzi, che è un po’ cinico ma niente affatto stupido, dovrà fare altrettanto, per molti motivi che non sto a elencare. Con ciò la retrovia “di massa” della CGIL, per un “nuovo partito”, verrà subito meno. Quanto alla Grecia, essa è un piccolo glorioso Paese che è totalmente difforme dall’Italia; è un Paese paragonabile per sviluppo capitalistico alla Calabria. Perciò, dal più al meno, la “nuova sinistra” resterà quella vecchia, più o meno ferma al 5%, generalmente non raggiunto, dal 1964. Oltre a tutto l’idea che il nuovo leader di una nuova sinistra nascente non sia uno come Maurizio Landini, che non vuol saperne di smettere i panni da sindacalista, che in effetti sarebbe il solo che avrebbe l’età e il carisma giusti “alla bisogna”, bensì un vecchio leader più volte bruciato dalla storia come l’ottimo Cofferati, è davvero una pia illusione.
   Ma torniamo ai “fatti recenti di Liguria”. Dati i tempi “renziani”, a Cofferati, lì, si è contrapposta la quarantenne Raffaella Paita, che l’ha distanziato. Lo scontro aspro da un lato, e la volontà di molti ex – o non ex – di destra di condizionare il PD votando la “renziana”, hanno prodotto episodi gravissimi, da condannare in modo alto e forte, che hanno portato ad annullare il voto di tredici sezioni, facendo però emergere ugualmente un distacco netto a favore della Paita di 4500 voti, poco meno del dieci per cento dei votanti alle primarie, ossia assoluto. Cofferati non ha accettato il risultato ed ha preferito uscire dal PD, però guardandosi bene dal mollare il seggio europeo restituendolo al partito che l’ha eletto. E nessuno gliel’ha neppure chiesto. I tempi ormai sono così per tutti.
   Naturalmente tutti gli oppositori di Renzi hanno gridato all’untore, che sarebbe il Matteo, il “rinnegato Renzi”. Egli avrebbe preso il problema sotto gamba, trattando in modo spiccio la grave questione. Personalmente non concordo, anche se non sono iscritto ad alcun partito. Ho seguito, come faccio sempre, la Direzione del PD, venerdì 16 gennaio, dalla prima all’ultima parola, per TV. La questione è stata sollevata in almeno cinque brevissimi interventi, per lo più genovesi, ma pure, e con più decisione e calore di tutti quanti gli altri a favore della Paita, dal sindaco di Alessandria, Rita Rossa, che forse varrebbe la pena d’intervistare in proposito. Renzi ha ricordato che sulla questione si è pronunciata una commissione di vigilanza del PD presieduta da un giudice al di sopra di ogni sospetto già membro della Corte Costituzionale. Questa Commissione ha annullato il voto di tredici sezioni e però stabilito che, ciononostante, la Paita aveva vinto con uno scarto di ben 4500 voti. Ora si trattava di lavorare unitariamente – ha detto Renzi - per far prevalere il PD e il centrosinistra anche in Liguria. Può essere vero, come diceva Bersani per TV il 19 gennaio sera a Lilly Grüber, che le primarie vanno riformate, ma ciò naturalmente varrà per primarie future. Non certo per fare lì nuove primarie. E comunque se alle primarie del PD vanno a votare ex votanti di destra, “purché” non eletti in liste, e non tuttora militanti iscritti ad altri partiti, e non “pagati”, questo si chiama sfondamento del fronte avversario, e potrebbe essere visto male solo da puri masochisti. Se gli altri si sgretolano, noi abbiamo il dovere di aiutarli a sgretolarsi. Fatevelo spiegare da qualche ex dirigente comunista sopravvissuto.
   Non sono un militante, ma un osservatore partecipe. E renziano. Sono contento che finalmente un vero nuovo leader – giovane, abbastanza colto, furbo, concreto e determinato, com’era ed è necessario - sia emerso, grazie al Cielo, finalmente, “dalla nostra parte”. Ma sono molto preoccupato. In queste settimane e giorni si sta segando il ramo su cui si è seduti. Ho notoriamente una buona memoria politica su oltre cinquant’anni di storia vissuta, oltre ad averla molto studiata “en historien”. Tra il 1962 e il 1974 furono fatte grandi riforme, che ci hanno dato un Welfare State molto avanzato, rese possibili dalla dialettica costruttiva tra governi di centrosinistra più o meno riformisti (democristiani di sinistra e socialisti) e opposizione di sinistra. politica e sindacale (sostanzialmente comunista). Ma dopo? – Dopo non è arrivato quasi niente. Certo abbiamo visto tanti uomini di sinistra al governo. Ma per fare che? - Tanti sacrifici, e inoltre la storica adesione dell’Italia all’Unione Europea e all’euro. Tutte cose importantissime, ma di per sé non “di sinistra”.
   Ora arriva un PD che per la prima volta governa quasi da solo (il che è già un elemento di alternativa di sinistra), e si pone come protagonista dell’innovazione in politica economica e soprattutto a livello di macchina dello Stato. Se Draghi in Europa ha potuto spingersi così avanti contro politiche deflazionistiche, il renzismo “c’entra” (e molto, come fuori d’Italia tutti riconoscono tranquillamente). Sono stati dati, “for ever”, 80 euro in più a dieci milioni di lavoratori. Sono stati detassati largamente coloro che assumono a tempo indeterminato. E’ vero, è stato commesso l’errore di attaccare l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, cosa che qui ho subito criticato, non parendomi il caso di andare a sfidare la CGIL su una faccenda che in un Paese in cui il 90% degli addetti lavora in piccole imprese senza quello Statuto, riguarda pochissime persone all’anno. La CGIL e la UIL hanno risposto come si sa, e qui non aggiungo commenti. Comunque Renzi, che non è affatto sordo alle critiche, ha cercato di correggere il tiro: prima ha stabilito che l’abolizione valesse solo per i nuovi assunti, e poi che fossero esclusi, dalla cancellazione dell’articolo 18, gli statali. Anche sulle riforme del sistema elettorale ed istituzionale, proprio nella Direzione del 16 gennaio, ha potuto fare l’elenco delle cose modificate, proprio su pressione della sinistra, rispetto al primo accordo del Nazareno con Berlusconi: la soglia per correre da soli al 3 e non all’8% (io preferirei il 4); il livello per avere il premio di maggioranza al primo turno non al 37 ma al 40%; il premio non alla coalizione, ma alla lista. E’ pur vero che ciò spingerà poi a listoni ampi, come ha ricordato Bersani per TV il 19 gennaio, ma proprio di lì passa l’avvento di un sistema sostanzialmente bipartitico (non per numero di partiti in parlamento, ma di governo, che in sostanza saranno due).
    Resta la faccenda dei capolista “garantiti” nei cento collegi della Camera, che è pesante, perché manterrebbe secondo i critici cosiddetti di sinistra un parlamento di nominati (dai partiti!) al 60% e secondo i renziani al massimo al 40. Solo un po’ meglio che al tempo di Bersani, per anni senza che alcuno se ne lamentasse. I primi due partiti veri certo avrebbero un numero limitato di nomine del genere, essendo i collegi cento, ed avendo il primo 340 seggi e il secondo duecento o più. Gli altri, piccoli, invece vedrebbero limitata la libertà degli elettori. Non trascuro affatto il problema. E’ chiaro che Berlusconi, il re traballante dei cosiddetti moderati, non vuol rinunciare ai suoi nominati (“capolista”). Io riterrei pazzesco non votare questa riforma solo per tale aspetto negativo. Se gli oppositori avessero l’accordo a portata di mano col Movimento 5 Stelle potrebbe avere senso. Ma in mancanza di ciò, com’è addirittura palese, il far fallire l’Italicum sarebbe una scelta assolutamente folle e infantile.
   A me sembra incredibile che gente con la testa sul collo non capisca che al mondo ci sono solo due sistemi: quelli bipolari oppure quelli proporzionali. Ciascuno dei due con tanti varianti nazionali. Quelli proporzionali - in generale, e tanto più dove non esistano più “partiti forti” o fortissimi e unificanti le grandi masse - producono governi o di coalizione tra moderati e ultramoderati con la sinistra riformista (il centro sinistra col trattino), o di unità nazionale. In Italia è andata così dal 1946, e ancor più dal 1961, al 1994. Gli altri sistemi, bipolari, si basano sull’alternativa tra blocchi omogenei opposti, sia che  siano maggioritari di collegio o presidenziali o semipresidenziali, o bipolari di partito (come nell’Inghilterra e, con varianti legate alla nostra storia, nell’Italia che si cerca di “rifare” con Renzi).
   Ora io sono convinto di poter dimostrare che ove si prescinda dalla mancata rivoluzione protestante di cinquecento anni fa o giù di lì (che fu una vera rivoluzione morale, da noi ormai “fuori tempo massimo”), la causa principale della spaventosa corruzione italiana, nella sfera pubblica, sia stata il trasformismo: il mettere insieme il diavolo e l’acqua santa; tutto un sistema in cui o in forma manifesta o anche occulta parti opposte tra loro su quasi tutto sono costrette a governare e a ricattarsi a vicenda, mentre quelle fuori dall’area di governo, come spesso il vecchio PCI (o in tanti enti locali in cui governava il PCI, i democristiani), o si mettono d’accordo “sotto banco” nei modi più cinici e amorali, o premono per entrare anche loro “con” almeno una parte, o con tutti, gli avversari. Rinunciando con ciò, salvo le sceneggiate per il loggione di tanto in tanto, a quel ruolo di “costruttiva” e “separata” opposizione e “controllo” che spetta alla minoranza nella democrazia “dell’alternativa”, cioè “vera”. No, grazie! “Ghemu già da’”. Ora Renzi, con la sua riforma elettorale, fa vincere il sistema dell’alternativa. E chi è di sinistra o liberale già solo per ciò dovrebbe benedirlo. O vincerà il primo partito della sinistra (col 55% dei seggi) o della destra (sempre col 55%), grazie a un premio di maggioranza dato al primo turno se il primo abbia il 40% oppure al secondo se non l’avesse avuto al primo. Questa separazione sana tra campo dei moderati e campo dei progressisti in Italia non c’era quasi mai stata, dal 1876 in poi e prescindendo dal fascismo. In Italia sin dall’inizio del Novecento abbiamo avuto una sinistra che o ha fatto e fa l’utile idiota dei moderati, sia pure a fin di bene e anche portando a casa benefici per tutti, oppure abbaia alla luna. Integrati o apocalittici. Con Renzi però diventa  prevalente “un’altra sinistra” (è arrivata la compagna Europa). E così arriva a compimento il sistema dell’alternativa democratica, tentato dal 1994 ma bloccato sia dal prevalere di una destra pasticciona e corrotta, col suo capo ideale conforme, e sia da norme assurde come il bipolarismo ma “di coalizione” e a un solo turno, e poi immonde come il Porcellum completo, usato disinvoltamente per molti anni anche da chi oggi strilla contro i capolista bloccati (che in effetti ove e quando sarà possibile dovranno essere superati).
   Si sta anzi determinando una situazione di lotta aperta contro il renzismo, passata ormai tutte le sere nella TV, e persino in parlamento. Ai limiti della scissione. Gli oppositori, che non hanno ancora capito che il vero modo di “essere costretti” a fare il governo con Forza Italia e probabilmente con la destra è quello di far fallire l’Italicum, tornando a una qualche proporzionale, sono scatenati. I “niet” della CGIL e il prossimo successo della nuova sinistra in Grecia li hanno di nuovo rigettati nelle vecchie illusioni stramorte e “strafallite” nella storia. Sono bravissimi compagni, cari amici e spesso ottimi intellettuali, ma non hanno compreso che a furia di sputtanare Renzi, per motivi economicamente limitati e istituzionalmente senza la minima alternativa, riducono paurosamente la distanza tra centrosinistra e centrodestra. Quando vedo tali cose, mi sembra di sognare, perché una sinistra che lavora contro il sistema dell’alternativa tra partiti opposti, che mette fine al reciproco sputtanarsi con gli avversari ideologici e di classe, mi sembra persino impossibile. Anche prescindendo dalla questione decisiva della governabilità degli Statinell’epoca della crisi degli Stati nazionali. Non l’avrei creduto possibile neanche nei più cupi momenti  di sconforto politico. E non ci credo neanche ora, sperando che stiamo solo assistendo a piroette tattiche tra frazioni assolutamente interconnesse di un partito e della sinistra. Ma è un gioco molto pericoloso, che se fallisce darà a chi lo fa l’imprinting degli irresponsabili, di fronte alla storia, con l’aggravante della cinquantennale recidiva. Spero perciò che chi si oppone al renzismo riesca a migliorare le riforme senza far “saltare il banco”. Ma qualora tali “giochi pericolosi” si risolvessero nella vecchia logica del “tanto peggio, tanto meglio”, non mi basterebbero tutti gli aggettivi qualificativi più coloriti del vocabolario e del gergo popolare per definire chi nella storia abbia agito, per la centesima volta, in tal modo.

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