La “Buona Scuola”? Quella ispirata da “umiltà francescana” by Elvio Bombonato

Luigi Einaudi
by Elvio Bombonato Alessandria
La prestigiosa Fondazione Einaudi di Torino ha pubblicato i risultati di un’indagine, tramite questionario rivolto ai genitori, sulle lezioni private. Stima un’evasione di 800 milioni l’anno e afferma che metà degli studenti italiani delle scuole superiori va a lezione
OPINIONI - La prestigiosa Fondazione Einaudi di Torino ha pubblicato il 9 maggio 2016 i risultati di un’indagine, tramite questionario rivolto ai genitori, sulle lezioni private. Stima un’evasione di 800 milioni l’anno; afferma che metà degli studenti italiani delle Scuole Superiori va a lezione privata, il 70% presso docenti della stessa scuola. Il questionario era anonimo “perché in caso contrario gli intervistati avrebbero rifiutato il questionario”. Le materie più richieste sono latino, greco e matematica. 
Salvo l’ultima considerazione, non sono d’accordo. Un’evasione fiscale di tale importo, sbriciolata tra decine o centinaia di migliaia di docenti è un’inezia rispetto e ben altre evasioni.
Ci vuole buon senso: se un insegnante impartisce qualche lezione privata per comprare i vestiti ai figli, io non ci vedo nulla di male. Tenete conto che quasi tutti gli insegnanti d’Europa guadagnano uno stipendio doppio di quelli italiani, e non sono migliori di noi, anzi. Chi ha insegnato all’estero o ha ospitato classi straniere nel proprio Istituto lo sa bene. 
Anche la vulgata che i docenti degli altri paesi lavorino di più è una bufala: hanno 18 ore le settimana di lezione frontale come noi; al più si recano a scuola di pomeriggio per qualche attività, correggere i compiti e preparare le lezioni: esattamente quello che fanno i nostri insegnanti coscienziosi. E che in Italia il rapporto numerico insegnanti/alunni sia troppo basso, è un’altra bufala: nel contare gli insegnanti italiani entrano anche 24mila docenti di religione (non è un giudizio di merito: al “Saluzzo” c’erano tre docenti di religione eccellenti), 120mila insegnanti di sostegno, 20mila tecnico-pratici. Togliendoli dal conto, numerico, si capisce, saremmo alla pari con gli altri Stati. Se la scuola italiana fosse davvero così disastrata come la dipingono gli apocalittici, non si spiegherebbe come mai i nostri laureati e ricercatori siano così apprezzati all’estero; si usa il termine la fuga dei cervelli, proprio perché sono cervelli.  E chi li ha  formati?

Le lezioni private ci sono sempre state. Talora obbligatorie. A dieci anni per accedere alla scuola media del mio quartiere (Carignano a Genova, era la prestigiosa “Andrea D’Oria”), ho dovuto sostenere l’Esame d’Ammissione, la cui Commissione era formata dai docenti della scuola stessa, in quali si sceglievano gli alunni (su tale fenomeno, vedere il caustico capitolo de “Il maestro di Vigevano” di Lucio Mastronardi); contava molto come ti presentavi: mia madre mi fece il bagno più lungo che ricordi, e indossai i vestiti migliori. C’era ovviamente una sorta di numero chiuso prestabilito e taciuto, ma questo lo capii molto dopo. Ora il programma dell’Esame di Ammissione era diverso da quello della quinta elementare, doveva essere preparato apposta. La maestra dalla quale fui mandato a lezione era anziana, aristocratica, arcigna, espertissima, per cui lo passai col massimo dei voti. Domenico Starnone ha scritto un gustoso quadretto sulla sua analoga esperienza di decenne, non ricordo in quale libro.
Nella mia classe prima media eravamo 30, tutti maschi; ogni anno ne venivano bocciati 10, lo stesso numero dei ripetenti che sarebbero arrivati l’anno successivo. Tutti andavamo a lezione di latino: la nostra docente spiegava la grammatica leggendo il libro, che non era il Tantucci, bensì il vecchio Manna, orrendo graficamente e scritto in un incomprensibile italiano.  A ridosso dell’esame di terza media, tutti andavano a lezione di quasi tutto: i ripetitori erano consigliati dai docenti, e vivacchiavano così, ai margini della scuola, dove non erano riusciti a entrare.

Con la riforma della scuola media unica del 1962, la schifezza di determinare il destino scolastico di un bambino a dieci anni, sostanzialmente sul censo, finì; si lamentarono molto i docenti delle medie, entusiasti quelli dell’avviamento.

Le famiglie non lo sanno, ma la scuola in cui insegni, specialmente i primi anni, oggi decenni, è decisa dal caso: il decesso estivo del titolare, un trasferimento, un pensionamento. Mia moglie, allora, arrivò a Valenza al Noè a 23 anni, al posto del prof. Maestri trasferitosi in Alessandria. Ne dimostrava 18; il Preside Frè la squadrò e le chiese: “Ma lei è in grado di sostituire il prof. Maestri?”, che peraltro detestava per pregiudizio politico.  Lei rispose soltanto: “Mi impegnerò per fare meglio che posso”; era bionda ma tosta; ancora oggi se incontra quegli ex allievi, le esprimono affettuosamente la propria riconoscenza. Eppure tra un carismatico longobardo col vocione e una fanciulla di Guinizzelli si notava subito la differenza; ma, come diceva Croce, “tutti i metodi sono buoni quando sono buoni”.
Le lezioni private imperversavano. Di solito il sistema funzionava così: al colloquio l’insegnante diceva: “Suo figlio purtroppo manca delle basi (di sicuro non di altezza), presenta delle lacune, ha bisogno di un aiuto”.  Attenzione, l’allievo era certamente un somaro, ma se il docente fosse stato richiesto dal genitore in cosa consistessero la basi mancanti e le lacune, non sarebbe riuscito ad andare oltre la vetusta accusa alle scuole precedenti. Il genitore, pur disprezzando in genere la classe docente, domandava se avesse un nome da segnalare; quasi sempre il nome arrivava.

I genitori sono dei polli, inseguono il proverbio chi più spende meno spende; per cui se il ripetitore era carissimo, vuol dire che era bravo. Invece in molti casi, è meglio una studentessa universitaria, che si prende a cuore l’apprendimento del somarello, e lo segue con l’entusiasmo e l’energia dei giovani neofiti, un impegno inimmaginabile in un docente logorato da anni di servizio.
La normativa vigente è ancora quella dei tempi di Francesco De Sanctis Ministro dell P.I., più volte rinfrescata.  Oggi si trova nel Testo Unico della Scuola, Legge 277/1994: il Titolo I, art. 508 recita:
– E’ illegittimo impartire lezioni private ad alunni della propria scuola.
– Chi intende dare lezioni private a studenti di altre scuole, deve comunicare al Dirigente Scolastico i nomi degli alunni e la scuola di provenienza.
– Nessun alunno può essere giudicato dal docente dal quale abbia, anche in passato, ricevuto lezioni private: gli scrutini sono nulli.  Se accade all’ Esame di Stato, il reato è penale.

Il D.L. 27/12/2009 n. 150 obbliga a “non ricevere né accettare compensi, regali o altra utilità in connessione con la prestazione lavorativa”.  Va ricordato che un’altra legge vieta agli impiegati pubblici di ricevere regali di valore superiore ai 150 euro.  Per cui, se in quinta elementare le mamme donano alle maestre, che hanno formato e sopportato i loro figli per cinque anni, un mazzo di fiori o regalo analogo, si tratta di riconoscenza e non di un tentativo di corruzione.
Pare però che in alcune scuole del Sud, alcuni docenti compilino una lista di regali graditi; forse la figlia sta per sposarsi.
Il mercato delle lezioni private esiste, sommerso, protetto dal reciproco interesse dei ripetitori e dall’omertà; su questo fenomeno la Fondazione Einaudi ha ragione.
In alcune scuole del Sud, dove prevale il lassismo, vige il sistema (lo leggiamo sui giornali) di forare le gomme dell’auto al Dirigente Scolastico, e talvolta anche ai Commissari dell’ Esame di Stato: prevenire è meglio che curare.

In una di queste scuole è capitato che il marito, docente di latino, consigliasse per le lezioni di greco la propria moglie, docente dello stesso liceo, e viceversa. Prezzi da capogiro, promozione garantita. In realtà la partecipazione è più vasta: docenti, anche di scuole diverse, si scambiano gli alunni per le lezioni private, col tacito accordo che il somarello a fine anno verrà promosso: diciamo un favore reciproco.  Può accadere  che un allievo a lezione svolga un compito con la guida, dettatura, del ripetitore. Ebbene l’indomani il compito in classe che svolge il ragazzo è identico a quello svolto a lezione. Dirà il somarello: “Che culo!”, la pacata risposta del ripetitore sarà: “Vedi che l’esercizio serve”. E la mamma pagherà il prezzo alto delle lezioni, dicendo alle amiche: “Che bravo quel docente; in quattro mesi ha rivoltato mio figlio”. 
I docenti statali che considerano le lezioni private il loro primo lavoro sono davvero un’esigua minoranza; godono di un certo prestigio e notorietà, magari pure meritata. Dov’è il problema allora? La giornata di sole 24 ore. Dove trovano il tempo di preparare le lezioni, di aggiornarsi, di correggere i compiti? Contini veniva in aula con la lezione preparata; Giacomo Debenedetti compilava via via dei quaderni che, pubblicati postumi dalla figlia Renata, sono considerati di capolavori di critica letteraria.  A Genova, il mio docente di filosofia morale Romeo Crippa veniva in aula con un promemoria predisposto; lo stesso faceva Cesare Federico Goffis con Manzoni, e Pier Vincenzo Mengaldo, e altri. Eppure erano bravissimi a parlare a braccio o a improvvisare.
Oltretutto le lezioni private sono faticosissime: hai di fronte un allievo che non conosci, con difficoltà di apprendimento, devi mantenere una concentrazione intensa e costante; magari nel momento culminante di una spiegazione o correzione, suona il campanello: avanti un altro, il seguito alla prossima puntata.  Quando le lezioni private diventano una catena di montaggio, prima di cena hai la testa che fuma. E i compiti da correggere? Sono il problema minore: alcuni studenti di liceo sostengono che il loro docente corregga interamente il primo tema in prima, poi per tre anni si limita a leggere qualche periodo a caso; il voto e il giudizio sono già scritti.  

E in classe che fanno? Si riposano, scherzano, dirigono dibattiti sulla pace nel mondo, fra il tripudio degli allievi, che tanto poi andranno a lezione privata. In una scuola di Torino, un docente – catena di montaggio, non riuscendo a finire il programma per l’esame, aveva pensato un escamotage: la letteratura italiana del ‘900 veniva fatta al pomeriggio come corso (retribuito?) di approfondimento, obbligatorio.  Il programma era più o meno (invento perché non ricordo): Montale un’ora, Gadda un’ora, Pavese e Fenoglio mezz’ora ciascuno, come Saba o Ungaretti. Ovviamente non era un corso di approfondimento, bensì un mezzo Bignami esposto con la lingua del Bembo, che tuttavia la usava per lo scritto, un gergo, secondo Gadda, che lo ha satireggiato egregiamente nel “Primo libro delle favole”.

In Alessandria c’era un’insegnante di filosofia, che talvolta arrivava come commissaria al “Saluzzo”, Esame di Maturità, con l’atteggiamento, all’epoca non infrequente, “adesso sono arrivata io a mettere le cose a posto”, dimenticando che l’Istituto Magistrale era di quattro anni, uno in meno del Liceo, col programma quasi identico. Con la sua autorità, si impadroniva della Commissione, correggeva i temi, interrogava il più possibile. Se il membro interno avesse detto qualcosa, l’avrebbe ancor più incattivita. Ignorando le norme dell’Esame, che impongono ai Commissari di prendere atto delle situazioni che si trovano di fronte (per dire: al Professionale di italiano si interroga in modo diverso che al Liceo), di tenere nel debito conto il curricolo degli allievi, i voti presi durante gli ultimi tre anni, la presentazione del Consiglio di Classe, la nostra, che non conosceva i canti XI-XIII del Purgatorio dantesco, infliggeva voti bassissimi, bocciando qualcuna presa superficialmente a caso.
Ebbene, quando esisteva ancora il concorso magistrale provinciale per ottenere il posto di maestre, costei impartiva lezioni collettive (il masochismo dell’allieva o del genitore che credono che l’insegnante più “severo” sia il più colto ed efficace), grazie alla fama conquistata sul campo, facendo denaro a palate. Chissà, l’avrà devoluto all’Unicef. Oltretutto nell’ultimo di questi concorsi l’argomento fondamentale erano i Nuovi Programmi: alla prima lezione la nostra dichiarò che non sarebbero stati trattati perché lei non li aveva letti; magari poi ci avrà ripensato.
In Alessandria ha insegnato al “Plana” un latinista che vinceva premi ai concorsi internazionali di composizione in latino, presentati in forma anonima: un Pascoli alessandrino. Ora è in pensione; possedeva, a mio avviso, quella che Contini definiva la migliore dote di uno studioso: l’umiltà, francescana.  Lo ha descritto con parecchi decenni di anticipo, Leopardi: “E’ curioso a vedere che quasi tutti gli uomini che vagliono molto, hanno le maniere semplici: e che quasi sempre le maniere semplici sono prese per indizio di poco valore” (Pensieri, n. CX). 
16/06/2016

Elvio Bombonato - Redazione Appunti Alessandrini - redazione@alessandrianews.it

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