D’Alema, Sansone ed i Filistei

Domenicale ● Agostino Pietrasanta
Non provo alcun interesse, né tanto meno mi appassiono alle polemiche innescate dalle ultime dichiarazioni di Massimo D’Alema, secondo le quali il leader pidiessino sarebbe pronto ad appoggiare il candidato pentastellato al ballottaggio romano al fine di mettere in definitiva difficoltà l’odiato presidente del Consiglio che, per inciso, è anche il segretario del suo partito. Non mi appassiono neppure alle diverse e svariate smentite e neppure a riparatrici dichiarazioni del leader(?) di sempre a favore del candidato della sua parte; quel che succede è solo un sintomo, uno dei tanti della condotta non solo di D’Alema, ma di parecchi dirigenti nazionali e locali del PD.
Tuttavia il nostro protagonista ha sempre interpretato il ruolo di rottamatore di tutto ciò che non risultava a suo diretto e forse esclusivo vantaggio con stile e registro prevalenti, ma anche con responsabilità politiche rilevanti di parecchi altri leader della sinistra . D’Alema è, per intanto e, per quanto la penso personalmente, soprattutto un coprotagonista del fallimento dell’Ulivo, nell’occasione in cui, impallinato Prodi, con l’appoggio di Bertinotti è diventato nel 1998, presidente del Consiglio dei ministri; in altre parole è corresponsabile della sconfitta storica di un tentativo straordinario: mettere assieme le rappresentanze politiche delle forze popolari per un progetto riformista. Di conseguenza, venuta meno la rappresentanza popolare, i partiti politici già in gravissima difficoltà per diversi motivi, non ultimo la questione morale, si sono liquefatti.

Non insisto, ma dovrei, su questo versante; si trattava di ricostruire, se non l’unità, la convergenza parlamentare e politica delle rappresentanze che avevano dato vita alla Repubblica, unità che, per ragioni storico/politiche ben note, De Gasperi aveva dovuto sospendere nel maggio del 1947. Ora, se ben valutate, il dinamico personaggio ha puntualmente confermato il suo atteggiamento, mettendo in crisi le maggioranze della sua parte politica in ogni occasione e impallinato segretari del suo partito nonché responsabili dell’esecutivo da lui formalmente sostenuti, fino alla caduta fragorosa, propria dello stile della sinistra, del caso Prodi candidato alla presidenza della Repubblica. Non per nulla provo stupore di fronte al disimpegno (apparente) di Bersani, in presenza del percorso dalemiano, dal momento che nel caso della cosiddetta carica dei centouno fu proprio il segretario politico pro/tempore a rimetterci faccia e leadership. C’è niente da fare, la vocazione al suicidio politico è tanto appassionante quanto costitutiva della sinistra italiana contemporanea.
Qualcuno mi obietta che la strada della divisione non è da oggi nella sinistra: è vero, ma spero che nessuno voglia assimilare i percorsi di divisione e le fratture, sia pure discutibili, provocate da scontri ideali ed ideologici (c’è che mi ha ricordato il Congresso di Livorno del 1921) con le beghe vergognose dei suicidi di oggi.
C’è anche chi mi oppone che chi ha introdotto nel PDS/DS prima e nel PD dopo, il metodo del “tiro al piccione” sono gli eredi della Democrazia Cristiana (D.C.). Sarebbe facile contrapporre che D’Alema non era certo un democristiano, ma il vero nodo sul punto è un altro. Intanto in un primo momento e almeno fino agli anni settanta la D.C. da una parte ed il P.C.I. dall’altra assicurarono ed in modo fisiologico, un tessuto democratico, forse difettoso, ma indiscutibile: la D.C. non permettendo una deriva autoritaria di destra, sempre sognata dalle forze conservatrici ed anche da alcune componenti ecclesiastico/clericali ed il P.C.I. moderando ed indirizzando su soluzioni dialettiche le spinte centrifughe e faziose della sua base elettorale, basti ricordare l’atteggiamento di Togliatti dopo l’attentato subito nel luglio del 1948. E tutto questo, non c’è dubbio, fu possibile per una politica se non priva di trabocchetti, tuttavia compatibile con la fisiologia di un sistema democratico. Certamente non suicida.
Non c’è dubbio che, in seguito, non mancarono le faide interne ai partiti, ma appunto furono faide interne: così nella DC, se Andreotti faceva le scarpe a Moro lo faceva solo per favorire qualcuno all’interno del suo partito: certo che si trattava spesso di comportamento censurabile, ma non suicida, tanto che la D.C. governò il Paese per cinquant’anni senza grosse o decisive cadute elettorali e sempre con significative maggioranze. Ora le faide si servono di forze politiche dichiarate avversarie; ci si serve di avversari politici o dichiarati tali per colpire il nemico più caro all’interno della propria compagine politica. Al netto delle diversità ideali, ci si comporta come Sansone che si uccise per uccidere e sconfiggere i Filistei. E lo si fa, sia per pochezza personale, sia per l’assenza di veri e propri partiti capaci di filtrare le divergenze e comporle. Non confondiamo queste miserie col comportamento dei partiti della prima Repubblica, ed in particolare la D.C. di cui peraltro , e per dichiarazione di lealtà e sincerità, sono sempre stato non pentito elettore, sia pure sempre relegato in minoranza.

E così ci troviamo ad affrontare, con questa miseria di uomini sedicenti leader, uno dei passaggi epocali più drammatici legati alla inevitabile globalizzazione ed ai relativi processi che rischiano di trasformarsi in uno scontro di popolazioni diverse. E rischiamo, non in un lontano futuro, ma in corso d’anno di vedere ai vertici degli Stati che hanno creato i tessuti e le norme della democrazia i nemici dichiarati dell’unità europea, i rottamatori degli ideali di solidarietà, gli interpreti più pericolosi della xenofobia populistica. Con quali conseguenze? difficile prevedere l’entità del disastro, ma sarà sulla pelle di tutti.

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