Tante crisi, by Bruno Soro



Bruno Soro   Città Futura on-line
«La ricchezza delle nazioni (…) non si costruisce sul denaro, sugli interessi di mercato o sull’ingegneria azionaria, per quanto ardita e a volte seducente: si misura sulla capacità dell’uomo di apprendere, e di applicare le sue conoscenze ai procedimenti di produzione e di consumo».
Guido Rossi, «Possibilità economiche per i nostri nipoti?», Adelphi, Milano 2009… 
Le crisi economiche sono endemiche al sistema di produzione capitalistico. Chiarisco subito, a scanso di equivoci, il significato che attribuisco alla locuzione «sistema di produzione capitalistico». Come cercherò di illustrare, al concetto di capitale sono attribuiti significati alquanto diversi, alcuni dei quali hanno assunto nel corso del tempo una valenza ideologica che è estranea al mio modo di intendere la disciplina economica ed il mestiere
dell’economista.
In una conferenza per certi aspetti profetica, tenuta nel febbraio del 1928,[1] John Maynard Keynes ebbe a sostenere che «L’economia deve rimanere una materia per specialisti – come l’odontoiatria. Sarebbe davvero magnifico se gli economisti riuscissero a pensarsi come una categoria di persone utili e competenti: come i dentisti, appunto». Un invito, questo, certamente disatteso dai numerosi esponenti del “pensiero unico liberista” i quali manifestano le loro certezze quasi quotidianamente sulle principali testate italiane e straniere. Personalmente preferisco lasciare sempre uno spazio al dubbio.  
Posso sbagliarmi, ma ciò che resta oggi di quell’auspicio è certamente la constatazione che l’economia è di fatto rimasta “una materia per specialisti”. Non fosse altro che per il linguaggio in uso in questa disciplina fatto di asserzioni controfattuali (“se vi fosse la piena occupazione allora…”), di concetti dalla incerta quantificazione (chi conosce davvero l’incidenza dell’«economia sommersa» nel calcolo del PIL?), e utilizzati sovente in maniera impropria (come quando si fa confusione tra il flusso del PIL e lo stock della ricchezza). Nel formulare le loro teorie gli economisti pongono poi tali concetti in relazione tra di loro mediante connettori logici del tipo, “il PIL risulta identico al valore dell’offerta aggregata”; le decisioni di consumo delle famiglie “dipendono dal reddito, dalla ricchezza e dal tasso d’interesse”; le decisioni di acquisto dei beni strumentali da parte delle imprese “dipendono dalle loro aspettative circa l’andamento della domanda per i loro prodotti” e così via. Ciò dà luogo ad una catena di connessioni non sempre facili da ricostruire. Non c’è da stupirsi quindi se, quando si legge un articolo di economia, a prima vista sembra di averlo compreso, ma è sufficiente cercare di ripeterne il contenuto o farne una sintesi, per accorgersi che non si è in grado di farlo.  Dunque, l’economia è materia “per specialisti”, difficile da comprendere e per sua natura complicata. [2]
In una delle sue forme più usuali, il «capitale reale» consiste nell’insieme dei mezzi di produzione che costituiscono la capacità produttiva di un sistema economico, vale a dire la sua capacità di produrre beni e servizi dando da lavorare ad un certo ammontare di occupazione. In quest’ottica, il «sistema di produzione capitalistico» altro non è che il modo di produrre le merci per mezzo di macchine (a loro volta soggette a produzione, quindi merci anch’esse) in una sorta, parafrasando il titolo di un fortunato saggio dell’economista italiano Piero Sraffa, di “produzione di merci a mezzo di altre merci”.[3]
Ora, se le cause delle crisi sono molteplici - per non citare che i casi più recenti si possono rammentare: le crisi da scarsità delle risorse (1974-75, crisi petrolifera); le crisi valutarie (lira e sterlina nel 1992); quelle monetarie (Argentina anni ’90); finanziarie con effetti locali (delle cosiddette Tigri asiatiche nel 1997); finanziarie con effetti globali (USA nel 2008); crisi da insostenibilità del debito sovrano (PIGS, Portogallo, Italia, Irlanda Grecia e Spagna nel 2012) -, qualunque sia la loro causa, tutte le crisi hanno una conseguenza comune: la trasmissione della crisi all’economia reale. In un primo momento la crisi dell’economia reale si manifesta con un eccesso di capacità produttiva, per rimediare il quale si innesca una successione di nessi causali (indicati con il simbolo →) del tipo: aumento della disoccupazione → riduzione della capacità d’acquisto dei salari → diminuzione dei consumi → diminuzione degli investimenti → riduzione della capacità produttiva → ulteriore aumento della disoccupazione, dando luogo ad un circolo vizioso che si autoalimenta.
Per contrastare la crisi dell’economia reale gli economisti di ispirazione keynesiana suggeriscono l’attuazione di misure di «politica fiscale» (inizialmente sotto forma di investimenti pubblici in disavanzo) accompagnati da misure di «politica monetaria» espansiva («accomodante» nel linguaggio macroeconomico) sul tipo del cosiddetto «allentamento quantitativo» (QE), quella misura attuata dalla Federal Reserve statunitense per contrastare la crisi dell’economia reale con i risultati resi noti nei giorni scorsi sulla ripresa dell’economia USA nell’ultimo trimestre. Oltre a una serie di condizioni politiche, istituzionali e sociali del tutto estranee all’Europa, il successo di una politica economica di questo tipo richiede però l’intervento di due autorità indipendenti (ma tra di loro coordinate): un Ministero del Tesoro che attivi le misure della politica fiscale e una Banca centrale che si occupi della politica monetaria. Niente di tutto ciò accade in Europa in conseguenza del modo in cui è stata pensata e costruita l’Unione Europea con il Trattato di Maastricht del 1992, con la sua appendice di un Sistema Monetario Europeo incentrato su una Banca centrale, il cui mandato prioritario è quello di occuparsi della stabilità dell’euro. Un insieme di regole incentrato su un sistema di cambi fissi, ossia sulla moneta unica, con i suoi vantaggi ed i suoi svantaggi, ma totalmente privo di una comune autorità di politica fiscale in grado di attuare la necessaria redistribuzione dei vantaggi di cui godono alcune aree a scapito di quelle che ne subiscono gli svantaggi.
E’ per questo motivo che il 12 ottobre scorso un centinaio di economisti italiani ha sottoscritto un appello per una «Bretton Woods» per l’eurozona, avente lo scopo di contrastare le asimmetrie dell’area euro rilanciando la domanda interna; di varare una politica europea di rilancio delle infrastrutture fisiche e digitali dei paesi membri; di armonizzare i sistemi fiscali nazionali, per contrastare il fenomeno dell’elusione fiscale, dal momento che regimi fiscali diversi per le imprese all’interno della stessa area monetaria assumono la forma di aiuti di stato mascherati; di varare forme di unificazione politica improntata a democrazia e partecipazione attiva dei cittadini. Ciò, nella convinzione che, in assenza di rapido e incisivo accordo per una modifica dei Trattati, la moneta unica è destinata ad implodere, con conseguenze devastanti sul piano sociale. Mi chiedo, ma la mia domanda è retorica, quali siano i successi ottenuti su importanti temi come questi dalla Presidenza italiana del semestre europeo che sta per concludersi.
Alessandria, 25 dicembre 2014

[1] “Prospettive economiche per i nostri nipoti”, apparsa nel 1931 nella raccolta di saggi “Essays in Persuasion”, uscito in traduzione italiana con il titolo “Esortazioni e profezie” per i tipi de “Il Saggiatore”, Milano, nel 1968. Il testo di quella conferenza è stato recentemente riproposto in un pamphlet edito da Adelphi nel 2009, accompagnato dal saggio di Guido Rossi citato nell’epigramma.
[2] A riprova del fatto che l’economia è materia complicata, quando all’ingegnere elettrico neozelandese A.W.H. Phillips (1914-1975) nel 1949 venne chiesto di insegnare presso la London School of Economics il funzionamento della macroeconomia keynesiana, non trovò di meglio, al fine di simulare l’impatto della politica monetaria sull’economia reale, che costruire il primo esemplare di «economia idraulica». Collegando tra di loro alcune taniche (rappresentative ciascuna di una variabile macroeconomica) e facendo scorrere al loro interno del liquido colorato per rappresentare la dinamica dei vari flussi, diede vita al primo computer analogico divenuto noto con l’acronimo MONIAC (MOnetary National Income Automatic Computer).
[3] Rifacendosi agli economisti classici, Piero Sraffa (1898-1983), economista italiano emigrato a Cambridge (UK) per sfuggire alle leggi razziali, è autore del breve ma acuto saggio “Produzione di merci a mezzo di merci. Premessa ad una critica della teoria economica”, Einaudi, Torino 1969, che rappresenta una delle pietre miliari nella critica alla teoria della distribuzione del reddito cosiddetta «neoclassica», che esclude, all’interno del processo produttivo, l’esistenza di un conflitto tra lavoro e capitale.

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