L’amore bugiardo - Gone girl, by Barbara Rossi
(Gone girl, David Fincher, 2014)
by Barbara Rossi La Voce della Luna
Tratto dal best seller di Gillian Flynn, L’amore bugiardo - Gone girl è un trattato di teoria e pratica sull’eterna dicotomia finzione - realtà, applicato alla maniera finchiana a un rapporto di coppia, quello tra Nick (Ben Affleck) ed Amy (Rosamund Pike), che diventa emblematico simbolo della crisi in cui versano, da qualche decennio, i rapporti fra uomo e donna.
Due giovani, belli, di talento, molto abili nel confezionare parole e trame: una fase dell’innamoramento esaltante, come spesso accade, seguita da un prevedibile ma in apparenza felice matrimonio, almeno sino a quando la perdita dei rispettivi lavori incrina l’esteriore solidità del sodalizio, facendone affiorare le crepe e gli scheletri (sanguinari) sepolti nell’armadio.
Inizia così la sarabanda infernale di Nick, marito senza troppe qualità, e l’altissimo scotto da pagare per aver consenzientemente sepolto la brillante e avvenente moglie nel vuoto e nello squallore di una enorme casa, nella profonda e sonnolenta provincia americana.
Dove nulla è come appare: e vicini di casa dai mille occhi, finte amiche pettegole, improbabili testimoni sono pronti a giurare di aver visto l’invisibile, e disponibili a rovinare una vita.
David Fincher, in linea con il suo immaginario cinematografico inquietante, violento, potentemente nero, attraversato da schegge di follia e da un pessimismo esistenziale che non offre spazio all’happy end (vedi Seven), decostruisce l’immagine fintamente glamour di una coppia, conducendo i suoi personaggi-pedine nel grottesco imbuto della paranoia più spinta, del linciaggio prodotto da una società massmediatica isterica, volgare, aggressiva, sempre smaniosa di sbattere il mostro in
prima pagina.
Efficaci sia Ben Affleck, nell’insistita non espressività del volto e del corpo, sia, in particolar modo, Rosamund Pike, nella sbandierata doppiezza, tremenda e assassina, della sua “mitica Amy”.
Un film dal ritmo sincopato e teso, che cattura come la ragnatela in cui Nick si ritrova, suo malgrado, imprigionato: da godere, nonostante un certo sfilacciamento della trama e delle situazioni narrative sul finale, e da cui farsi sedurre lentamente, per riflettere su verità e apparenza, essenza e rappresentazione, sull’atto del guardare e su quello, irrimediabilmente più complesso e, in certi casi, addirittura tragico, del saper vedere.
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