Ha ancora senso scrivere saggi?

Ha ancora senso scrivere saggi?


di Giovan
e uomo alla finestra
 
FinfinNel primo capitolo de La fine della fine della terra, una raccolta di saggi di Jonathan Franzen pubblicata l’anno scorso da Einaudi, l’autore americano si interroga sulla dimesione del saggio critico contemporaneo. 
Quella che segue è una mia riflessione, conseguente a una lettura che ha suscitato in me una semplice domanda: «ha ancora senso, oggi, scrivere un saggio?».

Per Franzen viviamo nell’epoca d’oro del saggio in quanto, scimmiottando i social media, anche il saggio parte dell’assunto che «anche la più piccola micronarrazione soggettiva meriti non sono un’annotazione privata, come in un diario, ma una condivisione con altra gente».
Il saggio, quindi, come ennesimo specchio in cui il soggetto narciso si rimira, vertendo l’esperienza personale nel fantomatico “qualcosa da dire”, e autoassegnando a sé e al proprio messaggio non solo autorità, ma anche dignità di interesse comune. In questo modo, il saggio si ritrova deformata la sua natura sociale di testo come mezzo di divulgazione di informazioni (sapere, conoscenza, cultura) specializzate, allo scopo di formare chi legge. 
La trasmissione di un sapere altamente specifico, spesso frutto di anni di ricerca, studio e comprensione della materia, da parte di una persona parimenti specializzata e autorevole: questo, forse, può essere considerato un “saggio” nella sua accezione più pura e immanente, sia come genere letterario, che come settore all’interno del mercato editoriale. L’autobiografia, interpretando Franzen, dopo la narrativa, si è fagocitata anche il saggio – anzi, è la narrativa stessa che assomiglia sempre di più al saggio: «l’unica modalità di narrazione autentica e politicamente difendibile è l’autobiografia».
L’industria culturale contemporanea è, oggi, ipertrofica, cannibale – aggettivi ormai assodati, acqua calda. Gli intellettuali sono sempre incalzati, dal forsennato show di massa in cui si sono trasformati i media, a intervenire, dire qualcosa, per guadagnarsi un’autorità la cui chiarezza pare direttamente proporzionata a quella dei riflettori sotto cui si devono porre. 
Attingere al proprio ego più che a un sapere sviluppato in modo graduale, approfondito e autentico diventa, quindi, quasi un meccanismo di sopravvivenza. 
Ma la questione che riguarda il genere saggistico non dipende soltanto dalla parte dell’élite culturale e intellettuale fatta di soggetti che, spesso, si ritrovano a non essere più in grado di separare il proprio ego dall’opera di cui intendono fornire la collettività. Il quesito che si pone Franzen è, allo stesso tempo, cruciale e rivelatore:«dobbiamo piangere l’estizione del saggio? Oppure festeggiare la sua conquista della cultura di massa?».
Se del saggio, oggi, viene messa in dubbio ogni sua funzione, dimensione, esclusività – in soldoni, la sua utilità e ragione di essere –, questo non dipende solamente dal vertice da cui parte e viene irradiato il sapere. Il sapere, ogni tipo di sapere di qualsiasi ambito, sfera sociale, ramo conoscitivo, ha raggiunto la dimensione globale perché potenzialmente si può conoscere e parlare di tutto, ed è globalmente accessibileper due motivi: l’aumentato livello generale di istruzione, e la tecnologia. Miliardi di persone hanno accesso a fonti primarie quali notizie, testi e contenuti multimediali con cui possono apprendere qualsivoglia conoscenza. 
Con questi elementi fondamentali possono comprendere e formulare la propria idea riguardo a un determinato argomento e, attraverso i mezzi di cui sono dotate, trasformare questa idea personale in un sapere condivisibile, e condividerlo, inserendosi nel burrascoso flusso di informazioni e scambi a cui tutti noi possiamo accedere in mille modi. 
Lo stesso Franzen, infatti, continuamente rimbalza il suo ragionamento tra la dimensione intima dell’autore-saggista e quella caotica e impazzante della trasmissione via social media.
Questo per dire che, se forse una volta si poteva pensare al saggio come a un racconto di conoscenza che dall’autore partiva per raggiungere il lettore, e questo lettore, riconoscendo al contempo la propria dimensione e quella dell’autore, faceva di questo racconto un contenitore di idee con cui non solo poteva arricchire la propria conoscenza ma, soprattutto, sviluppare una più ampia percezione dei fenomeni della realtà in cui vi era immerso, il saggio contemporaneo vive in una dimensione molto più paritaria e dialogica
Il sapere trasmesso attraverso il saggio è, oggi più che mai, potenzialmente soggetto a critiche, contestazioni, risposte, riformulazioni, poiché impregnato di una matrice fortemente personale e soggettiva. Attacchi, quindi, dalla parte di chi lo riceve. E se questo, per certi versi, è indice di sacrosanta libertà di informazione, pensiero e dibattito, dall’altra può degenerare.
L’autore americano fornisce un esempio di come questa assoluta parità delle parti che i mezzi di comunicazione e informazione oggi hanno instaurato può compromettere l’utilità del saggio stesso (e di tutto il lavoro intellettuale che sta alla sua fonte). 
Quando, affrontando un discorso sul catastrofico cambiamento climatico e sull’immagine pubblica di una certa ONG ambientale, Franzen decide di pubblicare un proprio saggio-commento sul «New Yorker». Così descrive la reazione al suo lavoro: non uno scambio alla pari con dei lettori più o meno specializzati sull’argomento, costruttivo e in grado di espandere quel sapere oltre i limiti della pagina scritta da Franzen, ma «un attacco ad hominem [...] un attacco missilistico dal silos progressista», con insulti e «frammenti dell’articolo ritwittati fuori contesto» così da deformare l’intero contenuto (e scopo formativo) del saggio.
Se forse, allora, l’effettiva validità del saggio critico langue, è perché viviamo in un momento storico in cui è molto difficile distinguere la conoscenza dalla pura opinione, il valore oggettivo dalle ragioni soggettive.

Il saggio è un elemento di fissità: deposita il sapere dentro un’opera, e lo mette a disposizione di chiunque possa coglierlo nel flusso del reale. Un saggio universalmente compiuto, giusto ed esaustivo, per quanto piccolo possa essere l’argomento trattato, non può esistere («avrei continuato a riscrivere il mio saggio», conclude il capitolo Franzen); ma è altresì vero che la dimensione saggistica di oggi pare in equilibrio precario tra la rivelazione del reale e il discorso soggettivo. Se ogni sapere può essere contestato e rifiutato; se, addirittura, lettori non specializzati possono estrapolare lo stesso sapere per proprie vie e filtrandolo attraverso le percezioni personali; se l’autore stesso, in generale, spesso si rivela non in grado di vedersi accreditata o mantenere una posizione di preminenza o specializzazione: ha ancora senso scrivere saggi? O sarebbe più opportuno aspettare che la polvere si posi, e da lì riprendere in mano, più consapevoli e concordi in tutte le parti, il sapere del nostro mondo, e la sua divulgazione?
Michele Maestroni

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