Uscita di insicurezza

Il punto ● Marco Ciani
Con ogni probabilità ci vorranno diverse settimane per registrare fino in fondo le innumerevoli implicazioni che comporta l’uscita del Regno Unito dall’UE.
Non sfugge ormai a nessuno che vi saranno conseguenze economiche e finanziarie, ma soprattutto politiche. Alcune su scala locale. Altre a livello continentale. Altre ancora, infine, impatteranno direttamente sullo scenario globale.
Allo stesso modo, le tempistiche saranno diverse. Nel senso che avremo effetti di breve, medio e lungo periodo.
Oggi, a poche ore dal sisma, al netto del collasso che ha colpito le borse mondiali e delle annunciate dimissioni del premier britannico David Cameron, gli analisti brancolano in una serie incalcolabile di se e di ma.
Si va dagli scenari più catastrofici, tipo fine dell’Europa (e forse anche della globalizzazione tout court) a causa dell’effetto domino che rischia di propagarsi agli altri paesi dell’Unione (partendo da Francia e Olanda), fino ai più rosei, che ipotizzano – al contrario – un colpo d’ala dei 27 stati superstiti, i quali potrebbero reagire allo shock accelerando l’integrazione, auspicabilmente sospinti
dalla finora neghittosa Germania.
La realtà è che, scoperchiato il vaso di Pandora con la Brexit, nessun osservatore serio è in grado di predire con un grado sufficiente di giudizio dove diavolo saremo da qui ad un anno. Sempre che altri fattori (elezioni politiche spagnole, referendum costituzionale italiano, presidenziali americane, per citare le prossime tappe) non intervengano ad imbrogliare ulteriormente un quadro già di per sé complicatissimo.
Senza ripetere cose fin troppo note, vorrei svolgere tre brevi considerazioni.
La prima. Come ebbi a scrivere tempo fa, conservo vivido il ricordo di mio padre che, io bambino, spiegava ad un affascinato discente come l’ideale, allora molto sentito e positivo, dell’unità europea potesse essere realizzato solo da chi aveva vissuto sulla sua pelle gli orrori delle guerre mondiali. Esaurite quelle generazioni e stemperato il ricordo della tragedia fino a dissolversi, le spinte centrifughe avrebbero ri/preso il sopravvento. Mi sembra sia esattamente ciò che si sta avverando.
La seconda. Nel mondo occidentale non si può immaginare attualmente nessuna unione duratura tra stati (quale ne sia la forma), senza il coinvolgimento democratico. Che significa che il popolo (in questo caso europeo) si dovrebbe scegliere il proprio governo attraverso libere elezioni. Per farlo i paesi aderenti devono decidere a quali porzioni di sovranità sono disposti a rinunciare. Altrimenti non se ne esce.
E’ un ragionamento assai diverso dall’adottare un parlamento finto, come quello di Strasburgo, che di fatto conta quasi nulla, salvo uscire con direttive le più stravaganti, tanto da disciplinare anche la tassazione di basilico, salvia e rosmarino o le dimensioni delle vongole.
Se non si procede in tale direzione, prima o poi, le contraddizioni sono destinate a scatenarsi. La corda, troppo a lungo tirata, si spezza. Ovvero, la realtà presenta il conto. Se questo poi avviene a seguito di una recessione economica pesante, come quella che ci ha colpiti dal 2008 in avanti, la parcella sarà con ogni probabilità molto salata.
La terza e ultima. Più volte abbiamo ribadito che viviamo in un periodo dove l’effetto combinato delle dinamiche globali, della finanziarizzazione dell’economia e del progresso tecnologico sta producendo tre macro conseguenze che si influenzano e rafforzano vicendevolmente: complessità, instabilità e velocità.
Immagino che qualcuno troverebbe opportuno inserire in tale quadro anche l’esplosione delle disuguaglianze. Ma di questo non tratto perché riferisce a un tema molto articolato che presenta innumerevoli sfaccettature, non sempre così pacifiche come la lettura di autori alla Piketti, Krugman e Stiglitz indurrebbe a ritenere.
Vi accenno solamente. E’ vero che la classe media occidentale si è impoverita. Vi sono però centinaia di milioni di cinesi, indiani ed abitanti di paesi emergenti che sono usciti dalla condizione di povertà. Un bilancio complessivo appare problematico e non vi sono pareri concordi tra studiosi per concludere, al di là di ogni ragionevole dubbio, se il saldo complessivo sia positivo o negativo.
Resta certamente il fatto che in Europa il bilancio per la middle class è fortemente deficitario. Ed in tale contesto, l’individuare un parafulmine credibile che si chiami Europa, immigrazione o sistema bancario risulta un esercizio facile per demagoghi e populisti di ogni risma.
Ma tornando a noi, in un mondo che come dicevamo risulta caratterizzato da complessità, instabilità e velocità, l’equilibrio dei pesi e dei contrappesi può risultare estremamente precario e fragile. Infinitamente più delicato di un sistema separato o tendenzialmente tale, per quanto sia possibile nel mondo d’oggi chiudersi in una specie di riedizione dello splendido isolamento britannico di fine ‘800.
Ciò deriva, molto semplicisticamente, dal fatto che – nell’attuale pianeta globalizzato – gli intrecci economico/finanziari risultano talmente intricati da produrre, come per il butterfly effect (o effetto farfalla), ricadute macroscopiche a partire da una minima variazione delle condizioni iniziali. Figuriamoci poi se la modificazione dei presupposti risulta, come nel caso considerato della Brexit, tutt’altro che lieve. Il calcolo delle conseguenze su larga scala, sia geografica che temporale, si rivela improbo.
Cito un esempio. Venerdì 24 giugno, giorno in cui si è saputo dell’esito del referendum del Regno Unito, le borse mondiali sono crollate. Quella di Milano ha chiuso con un  calo del 12,50%, maggior ribasso di tutti i tempi. Paradossalmente, e contro le aspettative, la City di Londra ha chiuso in discesa di “appena” un 3,15%, la performance migliore (o la meno peggiore) tra tutte le piazze finanziarie.
Perché? La caduta libera della sterlina sulle altre valute ha reso probabile, nel breve periodo, un miglioramento per le maggiori aziende inglesi che esportano o che si fanno pagare in altre valute. Insomma, si tratta fin dall’inizio di questa crisi, di un piccolo saggio sull’imprevedibilità delle conseguenze dei fenomeni complessi.
Conclusione.
E ora che facciamo? Senza voler smentire quel che ho appena detto sull’impredicibilità del futuro, credo personalmente che l’Europa, intesa come istituzione politica, sia sul crinale più importante della sua storia pluridecennale.
In bilico non può più stare. A breve dovrà decidere, o meglio, i paesi principali che a questo punto si identificano grosso modo con le nazioni costitutive, dovranno scegliere: nascita di uno stato europeo con chi ci sta (un nocciolo duro, sufficientemente rilevante ed attrattivo), ammesso che sia ancora perseguibile. Oppure implosione dell’Unione ed assai probabile ritorno ai nazionalismi, magari in forme nuove o inedite.
Nel primo caso si potrebbe aprire una stagione positiva e, seppur a seguito di un trauma – ma quasi sempre i balzi in avanti, nella storia, avvengono per reazione ad episodi disastrosi – si potrebbe coronare un’utopia: gli Stati Uniti d’Europa, nazione libera e solida economicamente, fondata su ideali di convivenza e di solidarietà. Come era, del resto, nelle intenzioni dei padri fondatori. Che immaginavano l’economia quale premessa all’unità. Non fine a se stessa.
Nella seconda ipotesi ci ritroveremo invece in una landa inesplorata. Dubito però, e per svariate ragioni, che ai singoli stati, compresi i più forti, sarebbe concesso in tale frangente il lusso di resistere ai venti impetuosi della globalizzazione. Pagherebbero (e pagheremmo) in termini molto onerosi la loro incapacità di scrivere la storia, per essersi limitati a subirla. A quel punto però non saprei dire se e per quanto tempo ancora noi ed i nostri fratelli di ogni parte d’Europa potremmo vivere in prosperità, democrazia e pace.







Commenti

Post più popolari