Crisi politica e perdita di senso

Daniele Borioli (*)
(La discussione avviara da Ap sul futuro della politica si arricchisce, a poche ora dalla Brexit, di un prezioso contributo da parte del Senatore Borioli. Segue gli interventi di Marco Ciani, con Politica, Giacomo D’Alessandro, con Sale della terra, Franco Livorsi, con Fare politica nel mondo d’oggi,  Carlo Baviera con Quando destra e sinistra non soddisfano, Angelo Marinoni, con Un po’ di Politica e Patrizia Nosengo, con  Tra elezioni amministrative e referendum di ottobre: riflessioni sparse sulla democrazia del leader e sul futuro della democrazia).
Intervengo tardi e, con colpevole ritardo, sul tema della crisi della politica che è stato apertor su “Appunti” dal contributo di Marco Ciani del 30 marzo scorso. Ma questo mi dà l’opportunità di farlo dopo la chiusura di un turno elettorale amministrativo che, secondo, molti, ha terremotato in via definitiva il sistema politico italiano.
E comincio subito dal primo spunto: sul carattere “definitivo” di quanto è successo, dico aspettiamo di vedere cosa succede nei prossimi mesi, e magari anche un po’ più in là. Mi fermo per ora alla superficie del fenomeno elettorale: il M5S ha vinto, concretamente a Roma, Torino e in diverse città, simbolicamente su tutto il campo di gioco; il PD ha perso, largamente, inequivocabilmente su tutto il campo, accendendo qualche luce anche molto importante, tipo Milano, ma diciamo pure che ha solo
perso; ha perso il centrodestra e, nel centrodestra, hanno straperso i populismi nazionalisti e xenofobi, per quanto Salvini e Meloni la raccontino.
Vedremo cosa capiterà ora. Il M5S è chiamato alla prova del governo in due città costantemente sotto l’attenzione dei media mondiali. Per un po’ butterà la palla verso la tribuna dei “colpevoli predecessori”. Ma, finita la gita in gondola, i cittadini si rivolgeranno loro non più per protestare contro “la casta al potere” ma per misurare quante buche sono state toppate per strada, quanto viaggiano puntuali i mezzi pubblici, come sono stati risolti i problemi della sicurezza dei cittadini e del decoro delle periferie, quali aliquote delle tasse e dei servizi peseranno nel loro portafogli.
Per il bene delle comunità locali amministrate, solo un pazzo potrebbe augurarsi che falliscano. Ma solo un frescone potrebbe far loro lo sconto di non pretendere la rapida trasformazione degli slogans e delle proposte fantasiose con cui hanno imbarcato larghissimi consensi a destra e a manca in un vero e proprio programma, inevitabilmente chiamato a selezionare e a dividere i consensi in base agli interessi e ai diritti messi in gioco.
Ha ragione chi dice che all’Italia va meglio che a interpretare la protesta e la generica spinta al cambiamento sia un movimento di segno non pericolosamente destrorso come in altri. Ma l’eclettismo che contraddistingue l’astuta politica del Movimento, soprattutto sui temi più insidiosi e divisivi per l’elettorato, non reggerà a lungo, man mano che crescerà il loro peso politico.
In questo quadro, anche la sconfitta della coppia del rancore, Salvini-Meloni, va considerata comunque non definitiva, purtroppo. Perché una parte dell’elettorato di destra che è corso a votare per i 5S in segno di protesta contro il Governo o contro il PD, o ancora contro entrambi, potrebbe tornare sui suoi passi e ridare fiato al radicalismo interpretato da Fratelli d’Italia e della Lega. Staremo a vedere.
Degli altri sconfitti e in particolare del PD vale la pena parlare guardando un po’ più in profondità e un po’ più in lungo a ritroso nel tempo. Perché sono loro i soggetti politici sui quali si misura più appropriatamente la “crisi della politica” intesa come consunzione di un sistema che ha cercato di dar vita, senza mai riuscirci completamente, alla cosiddetta e incompiuta “seconda Repubblica”.
Comincio intanto col dire che, a mio avviso, le due partite non sono tra loro paragonabili per natura ed entità. Le difficoltà del PD sono quelle di un partito che mantiene un cospicuo insediamento elettorale, pur in fase di grave erosione, e che sta sicuramente pagando, e condividendo con altri grandi partiti europei, il prezzo del Governo in una delle più tormentate, durature e profonde crisi di tutti i tempi, da quando esiste il capitalismo.
Mentre il centrodestra, nelle sua articolazioni più moderate, è investito a cominciare da Forza Italia, da un progressivo e in gran parte già compiuto processo di sgretolamento, di lacerazione e guerra intestina che dal PDL ha portato all’esplosione di svariate formazioni ognuna delle quali non si capisce bene cosa rappresenti e, soprattutto, cosa voglia rappresentare in futuro.
Parto dalla crisi di questa parte del campo politico, facendo in primo luogo un’affermazione che spero non venga fraintesa, ma che mi pare a questo punto della vicenda repubblicana utile introdurre: lo spappolamento del centrodestra italiano consumatosi in questi tre anni non è stato e non sarà un bene per la democrazia italiana. Il fatto che, in qualche modo, il centrosinistra italiano e in parte lo stesso PD abbiano pensato che a muovere dalla sacrosanta e ineludibile defenestrazione di Berlusconi dal Senato, si potesse cancellare, per disintegrazione, un avversario dal campo è stato un errore clamoroso.
Perseguito in maniera ondivaga, percepito in una prima fase da Renzi, che per correggere il tirò varò il “Patto del Nazareno”, per poi ritornare sui suoi passi, sotto l’incalzare del dibattito interno, facendolo saltare e consegnando un Berlusconi privato di buona parte della sua credibilità alla guerra per faide che si stava aprendo in Forza Italia.
Quando dico questo, so bene di agire su un tasto sensibile. Io stesso, per onestà, ammetto di aver fatto consapevolmente parte del coro che si sollevò al tempo contro quel patto. Ma ora considero che aver lo fatto definitivamente saltare sia stato un errore, in cui certo il Cavaliere ci ha messo del suo, ma in buona nostra compagnia.
Perché dico che quello è stato un errore? Perché credo che un buon sistema democratico non possa non avere una gamba solidamente moderata e conservatrice che, tuttavia, poggia i suoi valori fondanti nell’humus di civiltà, di regole e di cultura politica che reggono le altre analoghe famiglie politiche europee.
Come dice proprio oggi, in un’acuta intervista a “Repubblica”, il Presidente Prodi, il problema che oggi abbiamo di fronte non è cambiare le classi dirigenti politiche (anche quelle, certo, in diversi casi), ma è cambiare le politiche. E, aggiungo più modestamente io, cambiare le politiche vuol dire prima di tutto fare i conti con i propri valori di riferimento, e ritrovare senso all’azione politica e di governo.
Ecco, può sembrare “scandaloso” dirlo dopo aver praticato per un ventennio un “antiberlusconismo d’assalto”. Ma noi avremmo dovuto cercare di favorire la trasformazione di una destra a sua volta populista, demagogica, tutta centrata sul carisma del capo assoluto, in una destra democratica di vero conio europeo. Anche accettando che quel processo fosse Berlusconi stesso a guidarlo. E il passaggio di un comune impegno nella riforma della seconda parte della Costituzione, poteva essere in tal senso proficuo.
Dovevamo, insomma, lavorare per aiutare la metamorfosi di Forza Italia e non per la sua distruzione.
E veniamo così alle dolenti note che riguardano noi. Il PD. Ma anche alle praterie che ci stanno di fronte a che ci invitano a cavalcare con rinnovata energia verso una correzione di rotta, certo, ma soprattutto a risolvere le incompiutezze che, a mio avviso, sono alla base dei guai in cui oggi ci troviamo.
Dopo le elezioni di domenica, il PD emerge come soggetto insieme vittima della crisi della politica e, secondo alcuni, concausa di essa. Le due cose sono entrambe vere ed entrambe false. Siamo vittime della crisi della politica in quanto paghiamo più di altri il peso del governare in un momento di difficoltà economica e sociale per milioni di persone, che scaricano su di noi responsabilità e tensioni delle quali non siamo né gli unici né i principali colpevoli. Siamo concausa per alcuni errori evidenti di strategia e di tattica politica, ma soprattutto per non aver saputo dare esito compiuto al progetto originario del PD.
Non siamo vittime per tutto quanto dipendeva da noi e non abbiamo saputo fare. E non siamo causa per quanto non avevamo né la forza di fare né l’investitura democratica sufficiente per farlo anche in nome di chi non ci aveva votato.
La crisi della politica e delle istituzioni non può essere letta, oggi e frettolosamente, alla luce di un’ansiosa e rancorosa pulsione alla resa dei conti domestica e contingente. Intanto, essa è in primo luogo l’esito di un lento ma fatale percorso di fallimento della seconda Repubblica, che si era immaginata, prima di tutto da parte del centrosinistra, come luogo del bipolarismo e dell’alternanza di governo. Dopo gli interminabili decenni di proporzionalismo bloccato intorno all’inamovibile centralismo della Democrazia Cristiana.
Decenni che hanno inoculato, complice il mancato rinnovamento delle classi dirigenti, nel corpo sociale e democratico veleni che ancora oggi circolano abbondantemente e verso i quali, va detto, la Costituzione pur “più bella al mondo” ha mostrato di non avere alcun antidoto efficace.
Vista in questa chiave, la stessa nascita del Partito Democratico, lo dico per chi ha memoria corta, è già un tentativo di risposta al declino del modello bipolare di coalizione, di fronte all’incipiente declino del secondo governo Prodi. Nella sua genesi contingente, il PD non è il frutto di una meditata e approfondita stagione di costruzione politica e culturale, ma il salto per alcuni aspetti un po’ al buio determinato a chiudere la fase delle coalizioni e ad aprire quella del partito a vocazione maggioritaria.
Voglio sottolinearlo, perché credo che molta parte della discussione che legittimamente la minoranza del PD alimenta sia viziata dalla mancata valutazione di quel passaggio. Quando Bersani parla di “ritorno alla ditta”, collegando a questo ragionamento il rilancio di una strategia di coalizione, mettendo in discussione la coincidenza del ruolo di leadership e di premiership, lascia in realtà intendere che la ditta che lui ha nel cuore e verso cui naturalmente tende sono più i DS che non il primo PD, molto più vicino per genesi, natura e disposizioni statutarie, al PD di Renzi.
Allo stesso modo, le molte spontanee e generose invocazioni che si sentono in questi giorni e in queste ore, circa l’esigenza del PD di tornare a sinistra e verso il popolo che la sinistra sente come “suo”, anche se da esso è stato ormai da molti anni abbandonato, rendono palese la mancata comprensione e metabolizzazione da parte di molti dirigenti e militanti democratici di cosa dovesse essere, nelle intenzioni dei fondatori, il “partito nuovo”.
Non un partito “di sinistra”, ma un partito capace di legare insieme la sinistra riformista, il cattolicesimo democratico anche nelle sue espressioni non apertamente progressiste, le nuove culture dei diritti e dell’ambientalismo. Si diceva un “partito post-ideologico”, in grado di costruire una cultura politica e un’identità nuove, non sulle macerie ma su una sintesi alta delle culture e dei valori di provenienza.
Qualcuno, allora, parlò del rischio di una “fusione a freddo”. Va detto ora, certo con il senno del poi, che quel qualcuno non aveva tutti i torti. Il processo di costruzione e amalgama culturale non è mai in realtà partito: e ne abbiamo avuto plastica rappresentazione in occasione della recente vicenda sulle unioni civili. Stretto tra le scadenze e le alterne fortune elettorali, il PD si è rapidamente acconciato ad essere molto più una somma di correnti che un soggetto politico in grado di federare e unificare la pluralità di culture.
Le quali, oltretutto, hanno finito per frammentarsi e diluirsi nella degenerazione di un gioco correntizio che appare più orientato alla logica vassallatica di “fedeltà ai capi”, che non animato dal confronto sui valori, sulle idee, sui programmi.
Ciò ha alla fine impedito la formazione di un vero “gruppo dirigente”, capace di interpretare sia la funzione di esprimere al massimo livello il punto di confronto e incontro del pluralismo interno, sia quella di rappresentare agli occhi della società italiana un progetto in grado di coinvolgere tanto i settori di storico riferimento per i “partiti matrice”, quanto settori nuovi e di nuova tracciabilità sociale e culturale, quanto ancora settori popolari storicamente diffidenti verso la sinistra e più propensi alle proposte del centrodestra.
Nell’esito delle elezioni del 2013, arrivato in modo bruciante, dopo una vittoria attesa ma già di fatto pregiudicata dalla troppo lunga stagione di sostegno al governo Monti, si legge tutto il peso della sconfitta, certo non definitiva, di quel progetto. Sconfitta in cui hanno giocato tanto l’antipolitica emergente e il diffuso assenteismo del tradizionale “popolo della sinistra”, se non la sua corsa verso i messaggi a cinque stelle, quanto l’evidente incapacità di catturare consenso dall’elettorato centrista e moderato.
Quando si ragiona di Renzi, di questi tempi più per ingiustamente demonizzarlo, si trascura o si finge di vedere come il suo trionfo alle europee ha permesso seppure in modo non stabile, e attraverso un processo repentino che il nuovo leader anche per sua responsabilità non ha saputo consolidare, a quel progetto di riprendere fiato. E, oltretutto, di porsi come uno dei non troppi punti di resistenza, a livello europeo, rispetto alle derive populiste e nazionaliste.
La crisi della politica, che è anche inevitabilmente crisi delle istituzioni democratiche, è giunta in questi giorni e non solo nel nostro Paese alla sua fase forse più acuta. E non per il referendum sulla riforma costituzionale, come affermano i più fondamentalisti tra i sostenitori delle ragioni del NO; e neppure, ovviamente, per quanto è successo alle recenti elezioni amministrative. Certo, anch’io sento bruciare sulla mia pelle la sconfitta del PD. Ma credo per alcuni aspetti positivo che una forza come il M5S arrivi alla prova del governo in città importanti come Torino e Roma.
Mi riferisco al fronte europeo, di cui quasi mai parliamo quando ci rotoliamo nelle nostre risse da pollaio, e dal quale invece provengono le spinte più preoccupanti. Spinte di disgregazione, di rinascita del pregiudizio razziale e xenofobo, di ostilità ipernazionaliste, che soffiano nelle vele dei movimenti più estremisti della destra radicale un vento solo sino a qualche anno fa impensabile.
L’aver ritardato la stesura di questo articolo, mi mette nelle condizioni di concluderlo a poche ore dell’esito nefasto del referendum sulla Brexit. Vedremo le conseguenze economiche con la speranza che non siano disastrose. Ma non è quello il terreno che più mi preoccupa. Vedo nero sul fronte della tenuta di quel sistema di valori e di tessuto istituzionale, per quanto ancora gracile, che ha legato insieme il continente più antico, più ricco, più colto e, al tempo stesso, più guerrafondaio del mondo.
Pensare che noi si possa salvare la qualità della nostra bella ma piccola democrazia, in un’Europa che si faccia a sua volta più piccola e divisa, oltreché senza una visione comune sui rapporti con il resto del mondo e, soprattutto, con quella parte di esso che attraverso il Mediterraneo arriva nel cuore dei nostri territori: pensare questo è una pura illusione, così come forse è destinato a rimanere un sogno, almeno per la mia generazione, la speranza degli Stati Uniti d’Europa.
Chissà se nelle nostre dissertazioni sulla crisi della politica e delle istituzioni riusciremo ad aprire questo capitolo, per andare un po’ più in profondità.
In questa giornata nera, leggo un solo segno di speranza. Dai dati che ci ha fatto vedere la figlia di un mio caro amico sindaco, una ragazza in gamba della “generazione Erasmus” che ora lavora a Bruxelles, sembra che il 64% dei giovani tra i 18 e i 24 anni abbia votato Remain. Forse il futuro potrà riaprire la porta che oggi si chiude.
(*) Senatore PD della provincia di Alessandria



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