Anarchia non vuol dire bombe
Silverio Tomeo da: Città Futura on-line
L’utopia anarchica nasce alle origini delle confuse e plurime istanze di liberazione e di emancipazione dall’assolutismo delle monarchie autoritarie e dal maturare delle guerre imperialiste, e assieme alle prime configurazioni del potere “produttivo”, e non soltanto repressivo, della borghesia come classe generale e del capitalismo come generalizzazione del sistema di produzione e circolazione. L’utopia socialista e quella comunista prenderanno presto il sopravvento e già a partire da Karl Marx e Friedrich Engels innerveranno la teoria politica del movimento operaio post-tradeunionista, il movimento politico del lavoro, come lo chiamava Hannah Arendt. “Dalle rivoluzioni del 1848 alla rivoluzione ungherese del 1956, la classe operaia europea, la sola organizzata e quindi la frazione dirigente del popolo, ha scritto uno dei più gloriosi e probabilmente dei più promettenti capitoli della recente storia”, scriveva la Arendt in Vita activa, del 1958, e già allora vedeva prossimo a finire il ruolo politico e rivoluzionario del movimento del lavoro (ma non di quello sindacale né di quello di altri movimenti collettivi). Una storia tragica e assieme grandiosa di più di un secolo, che va dalla I alla III Internazionale e oltre, che si esaurisce quando la classe operaia non può più essere la classe
“generale” e quando il movimento operaio “si fa Stato”, quando il socialismo diventa “reale”, quando il comunismo storico da utopia diventa regime politico nell’ex “campo socialista” e più avanti in Cina. Non deve meravigliare, allora, che l’elaborazione luttuosa della fine del movimento operaio internazionale occupi tanti decenni, né che la crisi dei marxismi lasci riaffiorare vecchie correnti minoritarie ed eretiche piuttosto che la presenza forte e immediata di un nuovo pensiero post-marxista di liberazione e transizione. Marx , in una polemica politica con i marxisti belgi, avrebbe detto: «Tutto quello che so è che non sono un marxista», ed era ben titolato a poterlo dire, da teorico originario e da leader internazionale del primo movimento operaio. L’utopia anarchica è sin dall’inizio un insieme di nobiltà, ingenuità, aporie, pratiche libertarie, oscillanti tra non violenza ed esaltazione salvifica dell’uso del gesto violento, spesso individuale. Nel secolo delle guerre e delle rivoluzioni, nel Novecento, mai ebbe luogo una rivoluzione anarchica, e quel pensiero può al massimo riguardare una piccola comunità autogestita, mai un corpo sociale o una formazione statale nazionale. Michel Foucault, che ironicamente si definiva un anarchico di sinistra, che tanto ha dato e dà ancora da pensare, ha prodotto un pensiero sul potere niente affatto rozzo, dal biopotere ai micropoteri. Foucalut si entusiasmò per la “rivoluzione khomeinista” che ebbe esiti niente affatto libertari, segno che sui macropoteri non ci indovinava poi troppo. Da Pierre-Joseph Proudhon a Michail Bakunin, da Wlliam Godwin a Petr Kropotkin e Errico Malatesta, da Max Stirner a Ernest Jünger, si va dal socialismo libertario utopistico all’anarco-individualismo, dall’anarco-comunismo all’anarco-sindacalismo, dall’insurrezionalismo a versioni propriamente di destra. Non si coglie quasi mai nel pensiero anarchico una critica dell’economia politica, al massimo un anticapitalismo esistenzialistico o morale, così come è presente persino un anarco-capitalismo nel versante americano. Nessuna delle eresie del movimento operaio, dallo stesso anarchismo al trotskismo, sino al bordighismo, rappresentò mai un’alternativa possibile reale nel proprio orizzonte storico, senza con ciò inoltrarsi nelle aporie filosofiche, storicistiche e politiche, dello stesso Marx, di Lenin e molto oltre. La fine del movimento operaio come movimento politico internazionale resta ancora da elaborare a lungo, ma la sinistra non è un “cane morto”, è presente nella società, nelle culture, nei movimenti collettivi. Altra storia e travagliata è quella della sinistra nella sua forma politica. L’ “altro mondo possibile”, vagheggiato dai movimenti altermondialisti, ha significato riaffacciare la necessità di un’ orizzonte globale di cambiamento non semplificabile in un –ismo, né riconducibile alle ideologie storiche. Una democratizzazione radicale globale con elementi seri di socialismo e ambientalismo rappresenterebbero già una controtendenza al dogma neoliberista e al clima da stato d’eccezione permanente che produce post-democrazia e guerra civile globale endemica.
Quello che ama autodefinirsi come l’ “originale operaismo italiano” ha rappresentato un’aporia del post-marxismo, una delle tante a livello europeo. Neo e post-autonomi sono entrati spesso in competizione, conflitto, alleanze episodiche con istanze anarchiche organizzate. L’autonomia sociale, che è già molto meglio dell’autonomia del politico, va rispettata nella sua realtà di movimento collettivo così come nelle occupazioni sociali che da decenni si misurano sulle pratiche, indipendentemente dai relativi riferimenti teorici più o meno plurali, in un melting plot spesso produttivo. Rimarcare ossessivamente la necessità dell’antagonismo politico, quando è già difficile l’agonismo e la competizione, è puro sfogo di parole, oltre che linguaggio propriamente e inutilmente guerresco. Senza il rinnovamento dei linguaggi e delle categorie interpretative si reagisce solo con la regressione alle difficoltà storiche del momento. Se poi ci si rinserra in maniera settaria in quelle che Freud chiamava “formazioni reattive” si va oltre le resistenze reattive nevrotiche e le regressioni da difficoltà o da scacco politico-esistenziale. La formazione reattiva implica che l’individuo debba difendere con le unghie una sua costruzione nevrotica compensativa ed auto-giustificativa. La cosa funziona così anche collettivamente. Alcuni circoli anarchici, distinti e distanti da una tradizione libertaria e riflessiva storica tutt’ora presente, tendono a rinchiudersi in un universo paranoide e autistico da cui vedono incombere un tutto unico fatto di potere, istituzione, oppressione e repressione. Tendono ad avere un atteggiamento strumentale rispetto ai movimenti collettivi reali, ad esprimersi spesso in “azioni parallele” in piena scelta soggettiva. Spesso non solo non sono dialoganti, ma si manifestano come insultanti, con linguaggi che attingono a stilemi da teppa sottoproletaria. Tendono a darsi un’identità mitica in una immaginaria storia parallela del movimento operaio e del Novecento, delle lotte e delle repressioni delle stesse. Amano rappresentare il gesto improntato all’estetica del conflitto. Tutto sommato potrebbero rappresentare un esito post-moderno del nichilismo reattivo, in un contesto situazionale già segnato pesantemente dal populismo e dal nichilismo politico.
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