LA MANCANZA DI LAVORO FAVORISCE LA DESTRA


di Renzo PENNA
Disoccupazione, in particolare per i più giovani, aumento della diseguaglianza sociale e crescita della povertà sono gli ingredienti esplosivi che stanno alimentando in Europa la crescita dei movimenti di destra e che fanno ipotizzare, nelle elezioni europee di maggio, la conquista del 30% dei seggi del parlamento da parte dei partiti anti europei portatori di una retorica populista e xenofoba. Se questa analisi, che Nadia Urbinati sostiene e teorizza, si rivelerà giusta esistono tutti i presupposti perché il contributo italiano a tale risultato non risulti affatto marginale.
Infatti, secondo l’Istat, il numero complessivo dei disoccupati a fine anno in Italia è prossimo ai 3 milioni e 200 mila (12,5%), mentre per la fascia di età compresa fra i 18 e i 29 anni il tasso di disoccupazione giovanile si attesta al 28% e conta più di un terzo del totale. A questi, e rappresenta il dato più allarmante, si devono aggiungere oltre un milione e 900 mila di scoraggiati, persone che non cercano un lavoro perché sono certe di non trovarlo. Tra i 15 e i 24 anni il tasso di inoccupazione dei più giovani raggiunge addirittura un record, con il 41,2%, in parte dovuto alla rinuncia delle aziende nello stabilizzare i contratti a termine e per il fatto che non stanno realizzando nuove assunzioni.
Per quanto riguarda la diseguaglianza, che secondo il presidente Barack Obama rappresenta “la sfida che definisce la
nostra epoca”, nel nostro Paese la crisi non ha affatto reso i ricchi meno ricchi. Anzi i poveri, a cominciare dalle classi medie in declino, sono diventati più poveri. Soprattutto al Sud, dove erano già più poveri. Secondo uno studio pubblicato dalla Banca d’Italia il 10 per cento più ricco, circa 4 milioni di persone, se nel 1983 assorbiva il 26 per cento del reddito nazionale oggi si attesta attorno al 34 per cento. In meno di 25 anni la porzione di reddito per questo 10 per cento è cresciuta di quasi un terzo. Se l’ultima Italia egualitaria risale ai primi anni ’80, il processo di ascesa dei ceti medi che contribuiva a ridurre le diseguaglianze si è bruscamente interrotto nel 2007 con l’inizio della crisi.
E nella crisi, secondo l’indagine “Reddito e condizioni di vita” curata dall’Istat, è a rischio di povertà o esclusione sociale il 29,9% delle persone residenti in Italia. Un numero che supera di ben 5,1 punti percentuali la media europea. Peggio di noi nella Ue stanno solo Bulgaria (49,3%), Romania (41,7%), Lettonia (36,6%), Grecia (34,6), Lituania (32,5%), Ungheria (32,4) e Croazia (32,3). Con, per quanto ci riguarda, una significativa differenza tra il Nord, il Centro e, soprattutto, il Sud dove è a rischio di povertà quasi la metà dei residenti (48%). 
Nel Nord il quarto più povero della popolazione dispone del 5,7 per cento del reddito complessivo, una quota che nel Mezzogiorno crolla al  3,7 per cento. Molti di questi italiani “nuovi poveri” - che l’Istat etichetta come “severamente deprivati” - non vivono sotto i ponti e non chiedono l’elemosina. Spesso hanno una casa e anche un lavoro, ma non possono permettersi neppure una vacanza di una settimana (50,8%) o non possono riscaldare la propria casa (21,2%), permettersi un pasto proteico ogni due giorni (16,8%), oppure sono in arretrato con il pagamento dell’affitto, del mutuo o delle bollette (13,6%).   

Dopo il drammatico esito della seconda guerra mondiale le nuove democrazie europee si sono date come compito quello di sconfiggere la povertà eliminando la disoccupazione e riducendo le diseguaglianze attraverso la costruzione di tutele sociali, tendenzialmente, universali. Trovando un compromesso tra libertà, lavoro e diritti e un valido riferimento economico e culturale nelle politiche keynesiane le quali avevano aiutato a superare la crisi del 1929 che, non dimentichiamo, lasciò in eredità un disoccupazione terribile, molta miseria e favorì i nazionalismi e le dittature. 
Su quest’ultimo aspetto la politologa che insegna alla Columbia University ritiene che il rapporto tra disoccupazione-reazione autoritaria e occupazione-democrazia, ancorché molto schematico, bene rappresenti la storia politica europea del secolo scorso e possa influenzare anche quello attuale. Ma l’Europa che si prepara alle elezioni per il suo Parlamento interpreta ancora quell’indirizzo ed è animata dallo stesso spirito o - dietro la retorica dell’Europa sociale da tutti ripetuta a parole ma nella sostanza abbandonata insieme alla volontà di unificare l’Unione - si è nei fatti convertita alle politiche neoliberiste che in questi lunghi anni di crisi hanno parlato solo di sacrifici, di riduzione del debito e di rigore a senso unico, puntando a ridimensionare i diritti dei lavoratori e le politiche sociali, aumentando le tasse e riducendo l’occupazione? 
Se si considera che a partire dagli anni ottanta abbiamo assistito ad una drastica svalorizzazione del lavoro, della produzione e della ricerca in favore di una sempre più spinta finanziarizzazione dell’economia e che ciò ha determinato una colossale redistribuzione della ricchezza a beneficio dei profitti e delle rendite finanziarie, la risposta non può che essere affermativa. E la mancanza di lavoro, la crescita delle diseguaglianze e l’impoverimento dei ceti medi, alimentando le incertezze e i timori sul futuro, finiscono per favorire, da un lato le chiusure egoistiche in chi non è toccato dalla crisi e dall’altro l’insofferenza verso i più poveri e gli immigrati. 
In questo contesto è la tenuta democratica a vacillare, specie in un Paese come il nostro che deve fare i conti con vent’anni di oscurantismo berlusconiano  nei quali abbiamo assistito all’esaltazione dell’io, allo svilimento del rispetto delle regole - ad iniziare dalla Costituzione Repubblicana -  all’imbastardimento della parola “libertà”, alla diffusione a piene mani dei veleni dell’antietica e dell’anti cultura. Anni perduti nei quali l’Italia è immiserita e arretrata. E parte delle proteste cui abbiamo assistito nei giorni scorsi, se rappresentano un sintomo e sono conseguenza della crisi, per forme, contenuti e modalità suscitano più di un’apprensione.
Da questo clima traggono alimento e forza i programmi della destra europea che ha i più robusti e organizzati rappresentanti nel Freedom Party olandese e nel Fronte Nazionale francese di Marine Le Pen, i quali, in vista delle elezioni, hanno siglato un’alleanza che ha trovato l’immediata adesione in Italia della Lega Nord e dei partiti e movimenti populisti e xenofobi di Austria, Danimarca e Svezia. Retorica protezionista e nazionalista, contro il “mostro” della burocrazia europea e la moneta unica dell’Unione e, soprattutto, tolleranza zero verso gli immigrati; questo il collante ideologico della destra che riceve nuova attenzione da chi vede peggiorare la propria condizione economica e sociale o non trova risposta alle sue aspirazioni per la mancanza di una adeguata offerta di lavoro e di occupazione. Per fronteggiare e opporsi a questa pericolosa involuzione democratica occorrerebbe uno scatto da parte della sinistra, delle  forze progressiste e socialiste in Italia come in Europa. 
Capaci di prendere finalmente le distanze dalle disastrose politiche liberiste, dal potere esorbitante delle banche centrali e, rafforzando politicamente l’Unione dell’Europa, segnare un cambiamento netto in direzione della giustizia sociale, della riduzione delle diseguaglianze, di uno sviluppo rispettoso dell’ambiente e di una nuova centralità da riassegnare al lavoro e ai diritti, riscoprendo il valore democratico della “buona” e “piena” occupazione.

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