DOLORE, MALATTIA E MORTE COME NARRAZIONE E RICERCA DI SENSO IN AMBITO INTERCULTURALE,


intervento due di noi a Spoleto
DOLORE, MALATTIA E MORTE COME NARRAZIONE E RICERCA DI SENSO IN AMBITO INTERCULTURALE
Intervento presso il Convegno “Ad occhi aperti:Dialoghi e fotogrammi per una comunicazione multidisciplinare” organizzato da Aglaia –USL Umbria2 e Regione Umbria (Spoleto, Novembre 2013)
Dott. Pierpaolo Pracca, Dott.ssa Francesca Lagomarsini

Questo contributo è dedicato alla memoria dell’amico e maestro Prof. Giorgio Blandino. 
Introduzione
La società multietnica ci pone in contatto con nuove mentalità, culture, sensibilità che, negli ultimi anni, hanno finito con l’influenzare anche la nostra visione del dare e ricevere cura; una sfida che ci chiama al recupero di una visione del soggetto malato nella sua unità di mente e corpo nella consapevolezza che qualsiasi iter di cura non può prescindere da una buona ed efficace relazione tra colui che richiede aiuto e chi opera nella relazione d’aiuto. Tale relazione si fonda sulla capacità di ascolto e di favorire una adeguata narrazione del disagio sia esso fisico o mentale. Ma perché ciò avvenga possibile è necessario che accanto alla nostra capacità di cura vi sia anche l’adeguata curiosità. Non è un caso, infatti che queste due parole (cura e curiosità) abbiano la stessa radice.
Chi offre cura deve necessariamente essere anche curioso: curioso di ascoltare e guardare il mondo del paziente con la finalità di costruire un adeguato percorso terapeutico. 
La malattia come impossibilità
Come ogni essere vivente, l’uomo subisce la malattia e la morte, ma a differenza di tutti gli altri animali (grazie alla presenza della neocortex) è in grado di trasformare questi fenomeni biologici in eventi eminentemente culturali. I miti, le religioni, la letteratura  da sempre pervasi dalla presenza di malattia e morte e  narrano dalla rottura di un equilibrio tra
soggetto e mondo; si viene raggiunti nel proprio io posso da un io non posso, da una incapacità che non è soltanto fisica, ma emotiva e relazionale.
Il momento della malattia richiede uno spazio sociale di narrazione e di elaborazione ed è nel dialogo con l’altro che si crea lo spazio del racconto di sé come luogo di ri-costruzione tra soggetto e mondo. Lo spazio del dialogo e della narrazione di sé ha a che fare con l’aspetto riparativo. Ma perché questo spazio possa essere agito e riempito è necessaria una condizione  e cioè quella che il soggetto si senta parte di una relazione Io-Tu-Mondo.
La malattia grave, il dolore cronico, la perdita possono decostruire fino a dissolvere il mondo della vita…La narrazione è un processo di localizzazione della sofferenza nella storia, di collocazione degli eventi in un ordine temporale dotato di senso. Dare forma, attribuire un nome all’origine del dolore significa, oltre che alleviarlo, fare un passo fondamentale nella ricostruzione del mondo del soggetto. (B. Good, 1996)
Questa frase ci fa comprendere che la percezione che l’individuo ha di sé e della propria esistenza comprende la stretta relazione tra un Io e gli altri.
In questo modo potrà nascere un concetto di cura più attenta ai reali bisogni del malato e più consapevole del fatto che, dal primo vagito all’ultimo respiro ogni individuo è un insieme di soma, psiche e polis e che quindi è contemporaneamente corpo, persona ed individuo comunitario.
E’ in questa complessa dialettica che si gioca la nostra possibilità di elaborare un momento di crisi come l’esperienza della malattia e della morte. E’ nel dialogo e con il dialogo che elaboriamo il passaggio dall’io posso all’io non posso. Se è vero che la malattia è anzitutto perdita di  senso il malato e la comunità tenteranno di riconquistarlo attraverso un cammino dove il dialogo recita un ruolo fondamentale. E’ attraverso la narrazione nella relazione che diamo significato a ciò che accade (significare come signum facere, trovare una direzione!)
Da ciò ne consegue che malattia e  morte non sono mere entità, ma modelli esplicativi del mondo. Esse non si verificano solo nel corpo ma godono di una portata semantica che le colloca nel tempo, in una famiglia, in una società, nella storia. Quindi come è comprensibile l’esperienza soggettiva non può che sfociare in una multidimensionalità dove i differenti livelli (soggettivo, familiare e sociale) si influenzano reciprocamente. Stiamo parlando della capacità tipicamente umana di costruire dei dispositivi sociali di elaborazione della perdita (dall’io posso-all’io non posso) che consistono in luoghi di comunicazione e di ascolto (psichici o sociali) i quali ci permettono di trasformare il dolore in una relazione dialettica. Depositari di queste competenze da noi, per secoli, furono guaritori, sacerdoti così come in parte lo sono ancora nelle culture tradizionali ad interesse etnologico. Con la medicina scientifica in occidente questo ruolo è stato via, via assunto dal medico il cui linguaggio attinente al biologico non sempre riesce ad intercettare i livelli emotivi e sociali del disagio.

Cos’è la salute?
Quando si parla  di salute e malattia si è condizionati a considerarli fenomeni naturali di segno opposto tra i quali esiste una precisa separazione; del resto, nella cultura occidentale, essere una persona in “salute” equivale all’essere una presenza attiva, autonoma, vigile e consapevole (rappresentazione iconografica del corpo umano leonardesco contraddistinto da una verticalità in cui il corpo coincide con lo spirito che lo trascende). Il corpo inerte, passivo, malato e dipendente è un corpo vissuto negativamente, che si sottrae alla vita, una sospensione dalla norma e quindi dalla vita stessa. Consideriamo che questa separazione salute/malattia è un processo storicamente determinato, venuto a sovrapporsi alla natura per imprimerle un carattere adatto all’organizzazione che se ne voleva fare (Ongaro Basaglia, 1982). E’ bene introdurre rapidamente quattro diverse definizioni di salute che si sono delineate culturalmente e succedute nel tempo, sebbene coesistano ancora e talvolta si sovrappongano:
-        Salute come stato fisiologico del corpo umano: ovvero salute come assenza di malattia, come “silenzio del corpo” mentre malattia come anomalia nel funzionamento e/o nella struttura di una parte, sistema o processo del corpo. Questa concezione corrisponde al modello biomedico che si propone come al di sopra della variabilità culturale e con validità universale;
-        Salute concetto applicabile solo all’individuo quindi come stato soggettivo come soggettiva e la percezione del proprio “essere nel mondo” (individuo unica possibile unità di analisi);
-        Salute e malattia definite separando la sfera fisica da quella mentale (separazione tra le diverse sfere della globalità biopsicosociale dell’uomo);
-        Salute come condizione di armonioso equilibrio funzionale, fisico e psicologico dell’individuo dinamicamente integrato nel suo ambiente naturale e sociale. La malattia è, dunque concepita come mancato adattamento tra l’uomo e il suo ambiente. Corrisponde al modello biopsicosociale che ha indubbiamente costituito una prima spinta verso un approccio sistemico al concetto di salute-malattia (Ogni condizione di salute e malattia è conseguenza dell’interazione tra fattori biologici-psicologici e sociali, (Engel, 1977 – Schwartz, 1982)
Se consideriamo quanto accade nella realtà della vita quotidiana, a partire ad esempio dall’incontro medico-paziente, notiamo che il paziente conferisce alla salute una valenza più ampia del semplice “corretto funzionamento del corpo” ma in realtà esiste effettivamente una definizione di salute che enfatizza il carattere sociale e individuale del benessere e della malattia.
Se, come sostiene l’approccio più recente, quello “olistico”, salute e malattia sono ai capi di uno stesso continuum più o meno dinamico, si comprende come la posizione che ciascun individuo occupa all’interno di questo continuum varia in base alle condizioni di vita, all’integrazione in un contesto ambientale e sociale, alla condivisione all’interno del gruppo culturale di appartenenza, alla propria esperienza individuale (Cozzi, Nigris, 2003). In tutte le culture salute e malattia sono profondamente interconnesse con la vita sociale, morale e politica della comunità; nella cultura occidentale “sano” equivale anche a “moralmente buono” quindi l’aggettivo può essere abbinato a elementi disparati: carattere, gusto, giudizio, l’azienda, l’economia ecc. Ne consegue che la salute assume un valore fondamentale per la vita in cui il corpo e la sfera morale appaiono uniti come progetto, obiettivo da raggiungere, valore in sé.
Questa interconnessione viene poi declinata in maniera differente a seconda della cultura di appartenenza; la differenza riguarda non tanto gli “attori” in gioco ma il tipo di scambio e di comunicazione che avviene tra loro: il paziente, come sostiene efficacemente l'antropologo Nathan (1996), nelle culture tradizionali è portato a nominare la propria malattia, a cercare di descriverla secondo le etziologie appartenenti alla propria tradizione. Tra i Soninké del Mali, invece, ad esempio, il paziente non propone mai egli stesso la propria interpretazione della malattia ma si limita a presentare un certo numero di sintomi che il “terapeuta” dovrà poi decodificare. In questo secondo caso il paziente non fa che presentare una sofferenza già codificata dall’interno in quanto conforme alla logica culturale che contraddistingue quello specifico gruppo o società (nell’etiologia della possessione, secondo Nathan, il soggetto si presenta inizialmente depresso, chiuso, silenzioso, anoressico, con il corpo dolente e le funzioni escretorie bloccate: sembra evidente che si tratta di un insieme di sintomi che nella nostra cultura non si collegano alla possessione ma a ben altre patologie).
Se consideriamo il corpo umano come cornice  dell’identità personale e sociale, risulterà ancora più evidente quanto l’esperienza umana fornisca una certa ricchezza di simboli fisici che hanno la potenzialità sia di significare che di realizzare la relazione tra la persona e  mondo (pensiamo all’uso del termine “testa”: tener testa, tagliare la testa al toro, in testa al gruppo, ecc.). Come è stato dimostrato dalla ricerca antropologica anche l’uso dei termini di vita e morte connessi al corpo è operazione ordinata culturalmente: rappresenta la continua interazione tra classificazioni sociali e naturali all’interno delle varie culture. In ciascuna di esse l’ordine sociale trova la propria immagine nel corpo fisico e può acquistare lo statuto di verità naturale. Ciò condiziona le identità soggettive che vengono a fondersi con questi valori collettivi presentati come “oggettivi”. Possiamo ricordare al proposito gli studi di Susan Sontag relativi alla produzione di metafore sociali rispetto alla condizione di malattia. La produzione di metafore e di simboli è da sempre e in ogni società connesso ad una ricerca di senso, al tentativo dell’uomo di conferire un senso a quanto accade e gli accade.  La malattia è, poi, come definita da Marc Augé (1984) una “forma elementare dell’evento”, nel senso che le  manifestazioni biologiche della malattia che si iscrivono nel corpo dell’individuo  per essere comprese necessitano di un’interpretazione sociale che richiama le relazioni e i rapporti tra soggetti. Le cause sociali della malattia identificate culturalmente si basano su interpretazioni che considerano le posizioni di forza degli individui all’interno del gruppo (giovani o vecchi, poveri o ricchi, uomini o donne, ecc.), la loro appartenenza sociale, la maggiore o minore autorità di parola (il capo villaggio piuttosto che il giovane in età puberale) le quali concorrono a spiegare il malessere biologico. Come sostiene Augé (1984): “dare un senso all’evento-malattia non mette in gioco solo il credere o no ai virus, ai batteri o ai microbi ma tentare di rispondere all’interrogativo: perché sono io a essere colpito? E da chi?”.

Oltre il paradigma organicista
Esiste dunque una stretta interrelazione tra psiche e cultura e la riflessione che più interessa riguarda la necessità, in un mondo globalizzato, di individuare linguaggi specifici utili alla creazione di spazi di ascolto del dolore. A questo proposito le perturbazioni derivate dal contatto interculturale costituiscono uno dei campi elettivi dell’etnomedicina. In che modo ci interrogano questi modelli di cura, non più studiati come modelli esotici, ma, al contrario, come evidenze quotidiane?
La nostra medicina e psicologia si incaricano di una nuova sensibilità che è quella di aprirsi ai  pazienti immigrati portatori non solo di un disagio trattato a livello di organismo (per usare una categoria della medicina fenomenologica), ma anche a livello di quello spazio psichico e sociale che è essenziale nella dialettica  alla base di ogni processo di cura. Il che significa che le professioni d’aiuto dovranno sempre più dotarsi di conoscenze trans-culturali nell’ottica di una multidimensionalità teorica problematica che contenga la capacità di leggere l’eterogeneità dei fattori concorrenti alla costituzione dell’identità del paziente.
E’ necessario pertanto dotarsi di migliori diottrie per imparare a vedere e non bisogna dimenticare che per osservare le cose giuste occorrono gli strumenti adatti. Se per vedere nitidamente una coltura microbica occorre il microscopio, per osservare la presenza di spiriti o dèi occorrono operatori adeguatamente preparati e predisposti allo studio di modelli di pensiero che prevedono questi tipi di realtà. In questo modo apprenderemo che al di fuori dell’area culturale occidentale, influenzata dal logos greco antico, esiste un’idea di corpo e di mente molto diverse dalle nostre e quindi anche di malattia e di morte. La sfida è superare quella linea di demarcazione culturale che prevede da una parte la verità del metodo scientifico e di un logos e dall’altra un universo basato sulle categorie del simbolico, del magico e della superstizione. A questo proposito va ricordato la necessità di sondare quella parte di universo umano definito da Popper Mondo Tre circoscrivendo le modalità attraverso le quali esso interagisce e si rapporta con il mondo esterno e a quello delle esperienze vissute. Tale mondo presenta uno straordinario catalogo di elementi che vanno dagli spiriti, ai simboli, dai miti alle idee religiose, dalle figurazioni estetiche alle associazioni poetiche. La difficoltà più grande e, qui sta la sfida, consiste nel cogliere la vita multipla di questo mondo, la coesistenza di sogno ed equazione logica, di visione mistica e teoria scientifica. Una nuova prospettiva che vede tra queste diverse cornici epistemologiche una relazione osmotica che, a seconda del tipo di ambiente storico-sociale, può esprimersi con minore o maggiore facilità. Sto parlando delle esperienze francesi di Nathan condivise all’interno di gruppi di medicina  transculturale dove il gruppo di cura funziona da appoggio e rassicurazione conforme alla visione ideologica del paziente e dei suoi familiari. All’interno di questa rete relazionale un posto centrale viene costituito da soggetti con funzioni e competenze di mediazione interculturali in grado di parlare la stessa lingua del paziente dove per lingua s’intende non solo l’aspetto linguistico in sè, ma soprattutto l’ immaginario sociale che essa veicola. Torniamo così all’importanza del dialogo quale evocatore di un universo fisico, affettivo, conoscitivo ed esperienziale capace di attivare la costruzione dello spazio riparativo che è il luogo della cura e che si trova intimamente legato al mondo al quale apparteniamo. Nella ricerca di senso, nell’attribuire direzione al nostro percorso di cura non è possibile quindi prescindere da quel mondo che è la nostra identità individuale e sociale pena rimanere invischiati in una visione esclusivamente organicistica dell’individuo che, come affermava G. Manganelli, impedisce di scrutare all’interno di quella abissale continuità esistente tra materia e psiche.

Malattia e Linguaggio
Per quanto riguarda la ricerca di  senso da attribuire non solo alle condizioni di malattia e di salute ma anche all’evento morte concentrandoci sulla comunicazione e sul dialogo come elementi basilari per la trasmissione delle emozioni e dei contenuti culturali, è necessario soffermarci sul tema del linguaggio. Come afferma Edgar Morin (2002) il linguaggio non solo consente lo sviluppo della cultura e della comunicazione ma è parte integrante di quell’enorme processo antropologico di scambi tra l’uomo e il mondo che agisce attraverso il processo di cosmo-morfizzazione dell’umano[1]. Esiste un’idea di metamorfosi o integrazione dell’uomo con il cosmo che Morin denota con il termine di cosmomorfismo. E’ l’idea della morte e della rinascita, inserita all’interno del ciclo naturale cui l’uomo stesso partecipa e di cui può assumerne le forme e le caratteristiche (pensare di morire e rinascere pianta, albero, ecc., ad esempio). Accanto a questa idea che si combina con quelle di rinascita, c’è dunque  nelle culture arcaiche la concezione della sopravvivenza dell’anima rispetto al corpo (nella cultura occidentale legata all’idea platonica di immortalità dell’anima). L’uomo scopre la propria immortalità perché attraverso il cosmo-morfismo si rivela come creatura che comincia, finisce e ubbidisce a un ciclo di nascita e morte (come le foglie in autunno marciscono e si rigenerano e gli animali in primavera si risvegliano alla vita). L’umanità arcaica ha creduto intimamente a questa immortalità mitica e magica e ancora oggi i contenuti antropologici della morte sviluppano quanto di più umano vi è nell’uomo: l’aspirazione all’immortalità ma anche ad una realizzazione che la vita non ha saputo incarnare. Se pensiamo alla credenza negli spiriti, questa si integra in determinate culture ad un vasto ciclo di rinascite che lega l’antenato e il neonato; in alcuni gruppi arcaici, secondo gli studi dell’antropologo Mauss il morto rinasce spesso nel “neonato autoctono” e Morin ricorda come le donne della tribù degli Algonchini (indiani dell’America del Nord-Est) che aspirino alla maternità accorrono al capezzale del moribondo affinché la sua anima penetri in una di loro. Teniamo presente che nella nostra società, a fronte dei vasti fenomeni migratori che conducono nei paesi europei uomini e donne dal Maghreb, dal sud America, dai paesi dell’est e dall'Asia, vengono a contatto due concezioni della medicina e della salute ovvero due sistemi di cura, quello magico-religioso, proprio della medicina tradizionale e quello biomedico della medicina occidentale, due metodi che spesso diventano due modi simultanei di affrontare il disagio, la malattia e anche la morte[2].
Nel Maghreb, ad esempio, per la maggior parte delle persone la frontiera tra un disturbo di origine organico e il malessere causato dal malocchio, che si crede in quella cultura portato dallo sguardo cattivo dell’altro oppure causato da un djinn, un demone, è piuttosto impreciso. Non è raro che le madri, accanto ai medicinali specifici di tipo pediatrico, utilizzino mezzi propri per scongiurare la cattiva sorte causata dal malocchio. Riportiamo, a questo proposito la testimonianza di una donna maghrebina dal testo di Marta Castiglioni “Percorsi di cura delle donne immigrate”(2001):
il malocchio viene attraverso gli sguardi, per esempio una mamma aveva un bambino bello, una bambina bella, allora non si avvicinava nessuno per baciarli perché si sa che può produrre il malocchio ma ecco una vicina di casa le andava incontro e dicendo “Oh, com’è bello questo bambino!”, lo prendeva e lo baciava. La mamma gelosa si ritraeva, allora la vicina di casa diceva: guarda che non ho fatto niente di male al tuo bambino…In quel momento la mamma pensa che il bambino ha il malocchio. Allo stesso modo ritroviamo questa convinzione nella testimonianza di nuna donna latino-americana: il malocchio non è una cosa che ti hanno fatto bere, no, viene semplicemente così, con la vista…attraverso lo sguardo si ha il sentimento di invidia.
Teniamo presente che, come spiega efficacemente Castiglioni l’immigrazione comporta necessariamente per chi emigra uno spostamento che crea cambiamenti nello spazio linguistico, oltre a trasformazioni nella rappresentazione del corpo. In questo senso ci si riferisce non a come viene definito il corpo dalle scienze biomediche ma ai vissuti personali che il linguaggio medico non riesce a descrivere in quanto utilizza una conoscenza del corpo molto lontana dall’autopercezione e da quanto l’individuo sente corrispondere al proprio vissuto.
Il linguaggio, dunque, è ricettacolo dei simboli e delle credenze di ogni cultura e in un momento delicato come quello della malattia e del fine vita risente delle impostazioni culturali e sociali di ogni gruppo umano.
Se riflettiamo sul  linguaggio e sulla alla comunicazione della malattia e della morte nella cultura occidentale possiamo osservare che vige un’assenza relativa al linguaggio che si esplica mediante l’uso di lunghi e abbondanti giri di parole usati spesso in riferimento al trapasso: “andarsene”, “volare via”, “non esserci più”, “mancare” sono tra i verbi che spesso sopperiscono a questo allontanamento della morte dalle nostre esistenze. Anche il morente che sente avvicinarsi il momento della fine, se avverte la disponibilità all’ascolto delle proprie angosce o sensazioni, tende, nella nostra cultura  a non comunicarlo in modo diretto: si utilizza un linguaggio più o meno semplice (so che si avvicina la mia ora) o più o meno simbolico oppure  si utilizza un’altra forma di comunicazione, spesso molto esplicita: il silenzio. In ogni caso, secondo Eliana Adler Segre (2005), psicoanalista e psicoterapeuta, la richiesta che la persona morente indirizza all’altro è sempre quella dell’ascolto, di raccogliere una testimonianza che in taluni casi emerge, tramite il linguaggio simbolico del sogno. I sogni del morente possono, però, non essere di facile decodificazione anche per l’angoscia che spesso trasmettono ad un ascoltatore che può non possedere gli strumenti culturali per interpretare i messaggi onirici. L’angoscia della morte è spesso presente sotto forma di pensieri paranoidi; diversi autori riferiscono che i sogni dei morenti sono quasi tutti di persecuzione con la proiezione del persecutore (una malattia, un incidente invalidante e mortale) all’esterno. Sia Eissler (1955) che Zapparoli (1988) hanno trattato questo tema  considerando i sogni come veicolo di comunicazione della paura della morte. Prendere coscienza del linguaggio del morente (Berger e Mortola, 1974) può, in questo senso, aiutare chi raccoglie la sua testimonianza a decodificare l’angoscia e ad accogliere la consapevolezza che il soggetto acquisisce della propria fine. Anche questa operazione di ascolto attivo[3], di ascolto empatico, tanto più importante in quanto offerto alla persona che attraversa l’esperienza del fine vita, può conferire senso e costituire una preziosa esperienza, sia per il morente che per chi ne “raccoglie” la parola, i sogni, i ricordi, le esperienze di una vita, che può trasmettersi come testimonianza proprio nel momento del suo volgere al termine e, in un certo senso, realizza, così, ciò che si è in parte mantenuta in alcune società arcaiche: l’idea dell’immortalità . 

Il primato del dialogo
Per il malato il dialogo è il luogo della riflessione,  della rielaborazione e del ri-orientamento rispetto alle esperienze passate e ai propositi futuri. Per questo ogni cultura ha elaborato  proprie strategie di cura: esiste un lungo filo che lega le prescrizioni per i morenti del Bardo Todöl, i culti funebri lucani descritti da De Martino e le più attuali prescrizioni etnomediche sperimentate in Francia da Nathan e dal suo gruppo di ricerca. Ognuno di questi dispositivi di cura rappresenta il tentativo di attribuire significato alla malattia e al fine vita.
Prendere coscienza del linguaggio del malato ed in ultima istanza del morente,può, in questo senso, aiutare chi raccoglie la sua testimonianza a decodificare e ad accogliere la consapevolezza che il soggetto acquisisce intorno all’evoluzione del suo male. Si ribadisce, così, l’importanza del dialogo quale evocatore di universo fisico, affettivo e conoscitivo in grado di attivare la costruzione di quello spazio riparativo che è il luogo della cura e che si trova intimamente legato al mondo al quale apparteniamo.
Tiziano Terzani è forse colui che, nel recente passato, ha riassunto in sé queste diverse ricerche di senso e di elaborazione del lutto. Egli, con e nella sua famiglia, affronta il faticoso cammino che lo conduce alla morte, esperienza che gli consente di integrare disperazione, dolore, affetti, riuscendo nel compito di ri-orientamento esistenziale ed è nel dialogo con il figlio Folco e nella fatica dell’ascolto reciproco che questo avviene. La malattia (il cancro in questo caso) è affrontata come parte della vita, quasi come un’evoluzione, una fase che conduce a quell’ultimo che è la morte. La fine, come accade in molte culture ad interesse etnologico, è vissuta come naturale superamento di quel ganglio individuale (per dirla con Bateson) che noi chiamiamo “me”, ma che per quanto racconta l’esperienza di Terzani sembrerebbe la parte di una mente più ampia che chiameremo vita.
Una strada c’è nella vita. La cosa buffa è che te ne accorgi solo quando è finita. Ti volti indietro e dici oh, guarda, c’è un filo. Quando vivi non lo vedi il filo, eppure c’è. Perché tutte le decisioni che prendi, tutte le scelte che fai sono determinate, si crede, dal libero arbitrio, ma anche questa è una balla. Sono determinate da qualcosa dentro di te che è innanzi tutto il tuo istinto, e poi da qualcosa che chiamano il karma accumulato fino ad allora.
T. Terzani,Un altro giro di giostra
E’ negli ultimi colloqui con il figlio Folco che Terzani lascia in eredità a chi rimane il suo dono: quello del perdono nei confronti propri e della vita. In questa accettazione di sé e dell’esistenza (essere-per-la morte) consiste forse, la vera guarigione.
Bibliografia
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Zapparoli  G.C., Lo psicanalista e la morte, Seminario sull’Orthotanasia, Palazzo delle Stelline, Milano, 3 dicembre (1988).

Note biografiche autori:
Francesca Lagomarsini: nata a Genova nel 1971, è psicologa e collabora con scuole di diverso ordine e grado. Ha pubblicato con Pierpaolo Pracca i saggi Cesare Pavese, il meriggio e il sacro (Nova Scripta) (2006) e, insieme a Franco Vaccaneo, Cesare Pavese, le colline, il sole (Priuli&Verlucca)(2007);
Pierpaolo Pracca: è nato nel 1967 ad Acqui Terme dove risiede alternando il lavoro di scrittore  a quello di psicoterapeuta. Studioso di storia delle mentalità e antropologo ha pubblicato diversi saggi: Natura e morale (Nova scripta) (2004) e, insieme a Francesca Lagomarsini i saggi Cesare Pavese, il meriggio e il sacro (Nova Scripta) (2006) e, con  Franco Vaccaneo, Cesare Pavese, le colline, il sole (Priuli&Verlucca)(2007).

[1] Morin (2002) precisa che le parole denominano, isolano, distinguono e determinano gli oggetti proprio come farà l’utensile. Ma le parole possono compiere anche il percorso opposto ed evocare stati interiori consentendo di esprimere e di incanalare verso l’esterno tutta l’affettività umana. Da ciò il duplice aspetto del linguaggio: da una parte con i suoi segni rappresenta il referente cioè un universo di fatti ed oggetti e al tempo stesso consente di trasformare questo referente in segni di stati mentali, di stati d’animo. Le parole e le frasi sono veicolo degli scambi antropo-cosmomorfici sia oggettivi che soggettivi.

[2] L’antropologia medica si sofferma proprio sulla coesistenza a livello culturale di un “doppio binario”: si tratta proprio della  copresenza, appunto, di due diversi modelli interpretativi della malattia.

[3] L’ascolto attivo secondo l’approccio di Rogers non è un semplice modello teorico, si basa su una ricerca pratica eseguita su centinaia di persone negli anni ‘40 e ‘50 in America. I risultati vennero esposti da Rogers nell’articolo “Barriere e vie d’accesso alla Comunicazione” (1952).

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