Resoconto esistenziale (racconto breve di Davide Morelli)


 Questo è solo un  resoconto esistenziale banale. Non sono più capace di odiare, né di amare. Non sono più capace di innamorarmi. Mettiamo il caso che incontri una bella donna, ci esca e ci faccia sesso. Sicuramente il sesso sarebbe un banco di prova, una prova del nove. Sicuramente lo racconterebbe alle amiche, a tutti. Verrebbe valutata la mia prestazione. Conosco gente che per fare bella figura si imbottisce di Viagra e Paroxetina. In fondo dovrei estraniarmi e pensare ad altro per durare molto di più. Forse solo poche persone riescono a vivere pienamente il presente. E poi il plateau dell’orgasmo dura solo poco. Ancora meno dura l’acme, l’orgasmo vero e proprio. Il piacere è intenso ma molto effimero. E tutto questo per cosa? Il sesso è sopravvalutato. L’educazione ci inibisce, l’industria pornografia e non solo quella ci disinibiscono. È una grande lotta. Il corpo vuole l’orgasmo, la coscienza rimorde. Io ho cercato invano di divincolarmi. Passiamo ad altro. Non sono più viscerale o emotivo come un tempo. Anni fa ero molto più impulsivo, rancoroso, come si dice a Roma fegatoso. Ho raggiunto la maturità forse? Oppure solo un equilibrio psichico. Non sono capace di pregare, né di pensare. C’è sempre qualcosa che mi disturba: un rumore del mondo o un rumore indistinto dentro me stesso. Il pensiero e la preghiera hanno carattere di frammentarietà. Il pensiero è spesso una voce dentro, un ragionare tra sé e sé, ma talvolta si susseguono, si accavallano le immagini ed anche da lì nascono le idee. Ma poi spesso si tratta di piccole ideuzze, di minuscole epifanie. Riesco a pensare con più continuità solo mentre scrivo col tablet. Quando inizio a scrivere non so ancora cosa penserò. Ogni giorno è una scoperta. In quei frangenti cerco di rincorrere le idee. A volte penso subito dopo aver letto un libro o qualcosa su Internet. Non ho voglia di pensare all’io conosciuto, a quello sconosciuto, a quello conoscente. C’è sempre qualcosa che ci sfugge. Forse oltre il mio orizzonte conoscitivo c’è l’inferno o forse Dio. Non mi è dato saperlo finora. Da un lato l’eterno divenire, il nulla fenomenico, dall’altro il noumeno. Non ho voglia di pensare all’io statico, all’io dinamico, al concetto di sé, alla costruzione dell’identità. Forse un giorno farò chiarezza su ciò o forse mi arrenderò definitivamente. Navigo su Internet. Faccio ricerche. Visito casualmente molti siti. Frequento i social network. Controllo la email. Sono pratiche quotidiane, rituali postmoderni. Il momento migliore del giorno è quando mi stendo sul letto e mi perdo in certe fantasticherie, fantasie non più erotiche, in cui mi diverto a configurare vite immaginarie. Svolgo le mie faccende, faccio quello che devo fare tutto il giorno per attendere alla fine questo momento di sospensione. Tutto il tempo è attesa e quando ho un momento per me finisce che mi perdo in una dimensione parallela, in un altrove. Ma so bene di essere fortunato a vivere qui ed ora. Non voglio barattare il mio presente con un altrove. So che se questo altrove si avverasse sarebbe peggio. Solo che è più forte di me immaginare un’altra vita, un altro me, un altro mondo. Ma ciò significa che ho ancora dei residui di ideazione. Mi immagino una nuova casa, una nuova città, nuove strade, nuove case nei paraggi, nuova gente. Ma tutto ciò è ipotetico o meglio fittizio. Ricordo per sommi capi la gente che ho incontrato prima, la vecchia casa, la gente di un tempo. Anni fa rimuginavo fantasie erotiche o incameravo malumori pensando ad aneddoti negativi della mia vita. C’è un piccolo ragno sul muro. Lo lascio stare. Non lo ammazzerò fino a quando non mi infastidirà con la sua tela. Ma poi alla fin fine colgo la metafora: sono io quel ragno e Dio è una persona che mi osserva nella stanza e quando vorrà deciderà di schiacciarmi. Il libero arbitrio poi viene sempre soggiogato dall’arbitro di Dio o del caos. Sono nella penombra. Nella stanza accanto il televisore è acceso e la luce è soffusa. La porta della mia camera è socchiusa. Adesso posso rilassarmi e dormire. Mi metto a ricordare tutte le cose che ho fatto oggi e anche quelle che non ho fatto. Mi metto a ricordare tutto ciò che è accaduto durante la camminata di cinquanta minuti:  l’itinerario, tutti i visi intravisti, tutte le persone in cui mi sono imbattuto. Mi ricordo fotogrammi, sguardi, odori, profumi, colori. Cerco di fare sforzi di memoria. Ricordo alcuni cancelli, alcuni giardini e alcune donne affacciate alla finestra. Ricordo se c’era il vento che fischiava e se il cielo era limpido oppure minacciava un temporale. Ricordo se ho rischiato di inciampare o meno in qualche buca nel marciapiede, se ho rischiato di pestare escrementi di cane nella strada. Mi chiedo se ci sono state cose particolari e stravaganti che hanno destato il mio interesse durante il tragitto. Una di queste mattine sono passato accanto ad una comitiva di ragazzi che stava per prendere il treno alla stazione. Era vicina al sottopassaggio. Avevano gli zaini in spalla e dei trolley tra le mani. Uno di loro ha inveito contro di me perché mi ero messo la mascherina quando gli sono passato vicino. Mi ha urlato: “guarda questi rincoglioniti! Che rischio c’è? Hanno paura di tutto. Povero mondo! Povera Italia!”. Sono passato senza dire niente. L’ho guardato per un attimo sorpreso ma poi ho distolto subito lo sguardo, facendo finta di niente. Non so se era veramente convinto di quello che diceva, se era in uno stato alterato di coscienza o se voleva fare il bullo di fronte alla ragazza, che rideva a squarciagola. Mi sono chiesto che male ci fosse ad indossare la mascherina quando si passava accanto a degli sconosciuti ed inoltre era anche non un consiglio spassionato del ministero ma una regola da osservare. Non mi sono curato di lui, di loro. Ho fatto finta di niente ed ho continuato a camminare. D’altronde cosa dovevo controbattere? Se rispondevo era peggio. Avrei rischiato di prendermi delle botte da tutta la comitiva. Dovevo fare finta di niente. Non avevo possibilità di scelta. La sua ragazza pian pianino mi ha detto: “qui comandiamo noi”.  Il meglio di me comunque riesco a darlo quando sto in casa e  mi assento. Tempo fa stavo a fissare il soffitto. Mi concentravo. Ora preferisco perdermi, assentarmi, non avere più un centro, avere la vertigine del nulla. Che sia l’assenza l’anticamera della morte? Che sia l’incoscienza, il sogno una anticipazione dell’aldilà? Quindi per un istante ritengo che l’inferno bisogna anche saperselo meritare e che è meglio andare ingiustamente all’inferno che ingiustamente in paradiso. Questione di equità! Non mi sembrano giuste certe leggi bibliche, certi principi religiosi. E poi siamo così sicuri che all’inferno si sta così male? Quanti poeti e quante poetesse che non si sono salvati! Non dovrebbe essere così noioso l’inferno. Inoltre sono stanco del solito circolo peccato-senso di colpa-rimorso-espiazione. Non me importa più niente di ciò che è represso e ciò che è rimosso. La facciano pure altri la psicanalisi o l’autoanalisi incessante. Ogni sera mi abbandono con fiducia e rassegnazione alle braccia di Orfeo. So che devo riposare. Ho fiducia che non succederà niente perché sto bene, non ho dolori. Nessun presagio insomma. Ma chi mi dice che il mio cuore non possa fermarsi o che il mio cervello non possa fermarsi? Bisogna anche fidarsi del proprio organismo, della propria salute, dell’esito degli ultimi controlli medici fatti. Pur tuttavia viviamo nell’incertezza, nella precarietà. Mi ricordo che da bambino piansi tutto un giorno perché io e i miei cari avremmo dovuto morire tutti. I miei genitori mi consolarono dicendomi che sarebbe accaduto tra tanto tempo. La cosa mi rincuorò, ma il pensiero fisso rimase per qualche giorno. Oggi non ci penso più. Il futuro e con esso la morte è qualcosa di indefinito. Qualcosa da rimandare e spostare il più in là possibile con medicine, stile di vita e altri trucchi. Spero solo che la morte non mi colga impreparato, che mi lasci il tempo di fare tutte le mie cose. Mi auguro di non lasciare niente a metà, ma spesso molte vite sono eterne incompiute. Accade raramente che sia più teso e mi rigiri più volte nel letto. A volte basta una inquietudine sottile. Niente di più. Poi mi dico che non si può pensare a tutto, che non si può mettere tutto in conto e finisco per dormire. Anche il dormire è una soluzione, almeno per rifocillare la mente e tutelare la memoria. 

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