Kabul. C’eravamo anche noi a fare certe promesse, di Francesca Folda

 

Kabul. C’eravamo anche noi a fare certe promesse, di Francesca Folda

Questa foto mi imbarazzava da anni. Oggi ancora di più.

Kabul, 2004 mi pare. Mi ha sempre imbarazzato quell'accostamento assurdo di me con elmetto e giubbetto anti-proiettile, sorridente, in posa accanto a ragazzini disarmati, che avevano poco da sorridere e non sapevano chi fossi. 

Ero una giornalista di Panorama, avevo da poco concluso un corso organizzato dallo Stato Maggiore della Difesa per "Giornalisti in aree di crisi". Ero partita "embedded", come si diceva allora scopiazzando una tradizione degli eserciti americani, con il contingente della missione italiana in Afghanistan. Mi sembrava la prova che ce l'avevo fatta. Mi sentivo una giornalista con la G maiuscola. Come mi sbagliavo...

Vivevo nella caserma superprotetta con i soldati italiani, per lo più ragazzi della mia età. Loro dormivano in camerate, io avevo il privilegio, come il cappellano militare, di un container/stanza singola. Non c'era una camerata di donne soldato. Forse a quel tempo di donne non ce n'erano affatto, ma stavano per arrivare.

Uscivo dalla caserma solo con elmetto e pesantissimo giubbetto antiproettile, in una colonna di almeno tre mezzi militari blindati. Quando ero seduta tra due soldati armati fino ai denti nella pancia di quel mezzo, non vedevo molto dai microfinestrini impolverati. Ricordo che per motivi di sicurezza eravamo costretti a correre come pazzi per quelle strade piene di buche. A me, là dietro, al caldo, al chiuso, con un po' di paura, veniva da vomitare. 

Ricordo quando una mattina all'improvviso sentii il soldato siciliano accanto al guidatore gridare "Minchia, u' carretto!" e poi una violenta sterzata. L'anziano afghano con il carretto trainato da un mulo fu evitato per un pelo, noi continuammo la nostra corsa lasciando la consueta nuvola di polvere dietro di noi.

Quando scendevamo, i militari si mettevano in cerchio, io in mezzo, protetta. Con me il fotografo che scattò anche questa foto, qualche volta altre autorità. Visitammo una scuola, una clinica dove si curava la leishmaniosi che aggrediva la pelle di adulti e bambini, un piccolo villaggio. Tutte aree protette dai soldati italiani. Nella scuola c'erano anche le bambine. 

Solo un giorno uscii "da civile". Con l'aiuto dell'ambasciatore, mi fu indicato un autista afghano fidato. Indossai il burqa. Usammo una sgangherata auto locale. Camminai con lui nelle viette del bazaar, vedevo attraverso la rete del burqa, tenevo d'occhio i suoi piedi per essere sicura di essergli sempre accanto. Cercavo di osservare quel che avevo intorno, le bancarelle, le altre donne velate, i palazzi con i segni stratificati di una guerra dopo l'altra. Cominciai a capire di non sapere nulla.

Quando giravo con la squadra CIMIC (Cooperazione civile militare), i militari mi dicevano che in realtà non c'erano fondi per fare iniziative concrete di cooperazione, o arrivavano a singhiozzo. Impossibile programmare attività. Senza contare che una volta stabilita una relazione di fiducia con i capi villaggio, i docenti, i medici locali, persino con il personale delle Ong internazionali, il contingente ripartiva e arrivava un altro battaglione, un'altra ondata di ragazzi italiani che dell'Afghanistan e delle sue tradizioni sapevano poco o niente. E si ricominciava tutto da capo.

Con alcuni soldati di esercito e carabinieri diventammo amici, con alcuni di loro sono ancora in contatto. Bravissime persone, ottime intenzioni. Anche per questo, contando sul fatto che loro sarebbero rimasti in missione ancora qualche mese, appena tornata in Italia organizzai una piccola raccolta fondi, spedii a loro il denaro e in poco tempo fu costruito un pozzo nel villaggio che avevo visitato. 

“C’eravamo anche noi a fare certe promesse”, scrive oggi Paolo Giordano sul Corriere della Sera https://www.corriere.it/.../nostre-false-promesse-futuro...

Sì, c'eravamo anche noi, non solo gli americani, a promettere ai ragazze e ragazzi afghani degli anni 2000 di poter bere acqua pulita, di poter studiare, di non dover indossare un burqa, di scegliere chi sposare, di vivere dignitosamente, di potersi impegnare con l’obiettivo di avere un lavoro, di poter viaggiare e confrontarsi nel mondo. 

A promettere un Paese pacificato dove il futuro non impone ai ragazzini di imbracciare un Kalashnikov. Dove non sia scontata la vista di oppositori impiccati ai pali della luce, donne lapidate nello stadio della città, mani tagliate.

In vent'anni, avremmo potuto insegnare a quei bambini a crescere adulti di pace e non a saper usare fucili. Avremmo potuto addestrare più medici, architetti, insegnanti, che soldati. Abbiamo affiancato una intera generazione!

C’eravamo anche noi a fare quelle promesse.

E oggi il minimo che possiamo fare è accogliere chiunque scelga di rinunciare alle proprie radici, di separarsi da persone che ama, di rischiare la vita per superare il confine. Chiunque si metta in gioco con coraggio per conquistare quella visione che gli abbiamo trasmesso, chiunque stia cercando di lasciare l’Afghanistan tradito.

C’eravamo anche noi a fare certe promesse. E seppure quelle promesse non siamo stati capaci di mantenerle, possiamo onorarle.

Sì ai corridoi umanitari, urgenti. Si ai visti da rifugiati. Sì all’accoglienza. 

Al primo visto negato, al primo rimpatrio di un afghano, i talebani avranno vinto a casa nostra. Perché avremmo definitivamente perso noi stessi i valori che abbiamo cercato di esportare con venti anni di missione militare.

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