Ode a “L’anatra messicana” di Angelo Marenzana
Non conosco nulla del Messico, se non i luoghi comuni quanto la realtà storica e le mezze verità carpite attraverso le immagini dei western all’italiana anni 60/70, i romanzi di Pino Cacucci, le foto in bianco e nero di Pancho Villa e Emiliano Zapata. O quelle pubblicitarie. Manifesti dove il bianco è prepotente e il sole abbaglia cactus e aridi paesaggi.
Una terra di indios e di pejote, di trafficanti, dove i rivoluzionari sono lerci, la polvere la fa da padrona e tutti si spostano su corriere traballanti e sommerse dai bagagli, piene di viaggiatori che fuggono da sempre, con in braccio ceste di uova e polli starnazzanti.
Senza scordare i suoni. Lenti e malinconici. I Mariachi con chitarra e sombrero, e sangue e budella di Rodriguez, che si sovrappongono a scene di matrimoni, gente ubriaca, tavolacci di legno, ciotole con zuppe di fagioli, peperoncini rossi come il
fuoco e piccanti come l’inferno.
E la sensualità e la carnalità di balli all’aperto, gonne che svolazzavano sopra le gambe abbronzate di donne dai capelli colore dell’inchiostro, appassionate e disponibili, mentre gli uomini bevono con ingordigia tale da versarsi il vino lungo il collo, sui baffi, sulla camicia. Un mondo di mille risate, ironiche quanto crudeli, della truffa delle promesse, e la certezza della fregatura che si trasforma in poetico disincanto. Dai messicani ci si aspetta di tutto, persino di essere falciati da una Gatling sulle rive del Rio Bravo. E dagli sbirri messicani qualcosa in più, addestrati come sono al doppio gioco, alla corruzione e alla tortura. Come ci raccontano film come Traffic o The bridge.
Questo è il Messico che ho conosciuto sui romanzi d’avventura e sullo schermo. Forse non è così, proprio come gli italiani non sono spaghetti pizza mandolino e mafia, e l’anatra non è quel simbolo di ironia e sberleffo come si cerca di farcela digerire. Soprattutto il petto. Ma anche questo è un mistero, visto che non ho mai mangiato anatra.
E con queste premesse come potevo farmi sfuggire un titolo come L’Anatra Messicana (The Mexican Tree Duck), perché capita che prima di leggere si fantastica. E’ questo il potere che avoca a sé un titolo di romanzo o la sua grafica di copertina. Un binomio capace di stuzzicare nel mio immaginario colori e sapori di antiche magie, anche quelli più cupi che vengono a galla scavando sotto la crosta delle debolezze umane. Come riesce a comporre James Crumley insieme a colui che può essere definito il suo alter ego, il suo detective reduce (come lo stesso Crumley) dal Vietnam e barista part time, C.W. Sughrue. Entrambi narratori di una umanità spesso delirante e quasi al limite della decomposizione fisica. Duro, ironico, rabbioso e spietato nel narrare con un ritmo grintoso in linea con le storie on de road che tagliano come lame di un rasoio la geometrica geografia degli USA.
Pare che l’editoria italiana si sia scordata di James Crumley. L’ultima apparizione de L’ultimo vero bacio risale a ben undici anni fa, al 2004 con Einaudi, mentre per l’Anatra Messicana l’ultima edizione è del 1999 con i Gialli Mondadori, e con Baldini e Castoldi qualche anno prima.
Un romanzo scritto con un linguaggio da duri spesso irreale (ma che sta perfettamente in equilibrio sulla scia dell’hard-boiled) per narrare di un’America border line costruita sulla neve e sul deserto, dove i sogni non sono di casa perché una casa forse nemmeno c’è. Magari un tetto, ed è già molto. E l’illusione non regna nemmeno più in una bottiglia di whisky. Una società dove il denaro non compera tutto perché la ricchezza è transitoria e si consuma in una vita scellerata. Però alcuni valori resistono agli assalti crudeli dell’esistenza, il senso della giustizia, magari non quella canonica da codice, l’amicizia, e a volte l’amore, magari quello più volgare, rivestito di pessimismo e di ombre della notte, in quelle pieghe tenebrose dove il male interiore dell’uomo è libero di spaziare per traferire il dolore come un virus. Ma è la forza dell’ironia con cui è intrisa la scrittura che riesce a rendere affascinante un’anatra messicana, a non permettere al lettore di crollare nella depressione, a rimanere staccato, a non farsi infettare dal malessere altrui e a rimanere spettatore del degrado umano.
Con la speranza che qualche editore di casa nostra si rammenti di James Crumley e della sua regale anatra messicana.
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