Iacopo Dal Verme, condottiero e capitano di ventura

Jacopo Dal Verme

Dizionario Biografico degli Italiani. Volume 32 (1986) di Michael E. Mallett.
Iacopo Dal Verme nacque, probabilmente nel 1350 a Verona, da Luchino e Iacopa di Bonetto de' Malvicini e morì a Venezia il 12 febbraio 1409.
Il padre si era gradualmente allontanato dai Della Scala e, bandito da Verona nel 1354, non vi aveva più fatto ritorno.
Scarse sono le notizie che abbiamo sugli anni della giovinezza; trascorse probabilmente gran parte della fanciullezza al seguito del padre, nella Lombardia meridionale, e poi a Parma, a Bologna, a Genova e infine a Pavia. Le fonti narrano che uno dei figli di Luchino prese parte alla spedizione cretese del 1364 e nel novembre di quell'anno partecipò al torneo tenutosi a Venezia combattendo con il re di Cipro Pietro I di Lusignano. La notizia, però, non dovrebbe riguardare il D.: il giovane è detto diciottenne e l'età dovrebbe corrispondere a quella del fratello maggiore del D., Luchino Novello. La prima notizia certa sul D. risale al 1367, quando lo troviamo a Costantinopoli al momento della morte del padre avvenuta in questa città. Il D. scrisse al Petrarca per un consiglio sull'opportunità di trasferire in patria il corpo di Luchino; il poeta gli rispose il 9 giugno, consolandolo per la morte del padre ed esortandolo a non traslarne i resti in Italia.
mausoleo dei Dal Verme
La storiografia ritiene che, nonostante la precedente rottura tra Luchino e i Della Scala, il D. abbia ricevuto la sua prima condotta proprio nell'esercito di Cansignorio Della Scala, con ogni probabilità nel 1368 quando le truppe scaligere vennero mobilitate in appoggio a Bernabò Visconti contro la lega guelfa e in particolare contro Mantova. In seguito, però, il D. passò al servizio dei Visconti e combatté in Piemonte a partire dal 1369: fatto cavaliere dal marchese di Saluzzo nel 1370, nel 1372 è ricordato come uno dei principali condottieri milanesi nella campagna promossa da Galeazzo Visconti per impossessarsi del Monferrato dopo la morte di Giovanni II.
Si ritiene generalmente che il D. fu allievo di Alberico da Barbiano ma si tratta solo di una componente del mito a lungo diffuso, che negli anni '60 e '70 Alberico fosse l'unico grande condottiero italiano di rilievo in un panorama dominato da capitani tedeschi e inglesi. A ben vedere, però, appare difficile che il D. debba il suo addestramento militare ad Alberico, dato che tra loro non c'era una differenza d'età significativa: il D. aveva, infatti, solo un anno di meno dell'altro condottiero. D'altro canto mancano testimonianze di un rapporto tra i due in questo periodo e i loro nomi risultano associati solo nell'ultimo decennio del secolo XIV, quando Alberico si unì al gruppo dei capitani
viscontei.
Nel 1373 il D. guidò una spedizione contro la rivolta guelfa scoppiata nella valle del Tidone, nel Piacentino. Negli anni successivi svolse, poi, un ruolo di maggior rilievo nel quadro della politica espansionistica viscontea. Prima manifestazione di tale nuova attività fu la missione svolta ad Avignone per raggiungere un accordo con Gregorio XI: le trattative impegnarono il D. per alcuni mesi e terminarono solo l'anno successivo con il trattato di pace concluso ad Oliveto in Val Salmoggia. Nel 1378 il D. fece una delle sue rare comparse a Verona, dove, probabilmente con l'assenso e la complicità di Galeazzo Visconti, operò per impedire che Bernabò Visconti e la moglie Regina Della Scala rovesciassero la signoria veronese. Con l'aiuto del D., infatti, Antonio e Bartolomeo Della Scala riuscirono a respingere l'attacco di Bernabò.
Il 4 ag. 1378 moriva Galeazzo Visconti e il D. tornò immediatamente a corte, a Pavia, per prendere posto a fianco del nuovo conte, Giangaleazzo. Nel 1379 fu nominato da quest'ultimo consigliere e capitano generale e guidò un nuovo attacco nel Monferrato conquistando la città di Asti. A partire da questo momento il D. si affermò come uno dei principali consiglieri di Giangaleazzo e svolse un ruolo decisivo nell'espansione territoriale viscontea.
In un primo tempo Giangaleazzo si limitò a rimanere all'ombra del bizzarro, imprevedibile e tirannico zio Bernabò. Cercava, cautamente, di estendere l'influenza milanese verso Genova e il Monferrato venendo in tal modo a scontrarsi con gli interessi del solido dominio sabaudo. Bemabò provvedeva a rafforzare innanzi tutto la propria posizione nella Lombardia orientale e a cercare nuove alleanze. Perciò da un canto, nel 1381, strinse un'alleanza matrimoniale con Antonio Della Scala, il quale si era da poco impadronito del governo veronese dopo aver fatto assassinare il fratello Bartolomeo dai propri partigiani; dall'altro, allacciò legami di amicizia con la Francia. Questa nuova politica minacciò gradualmente la posizione di Giangaleazzo il quale, nel 1385, decise di scendere in campo contro lo zio e di riunificare lo Stato visconteo.
Ai primi di maggio comunicò allo zio la sua intenzione di recarsi in pellegrinaggio al santuario della Madonna del Monte sopra Varese e il suo desiderio di incontrarlo durante il viaggio. Lasciò Pavia il 5 maggio e, scortato da un gruppo di fedeli, vestiti da pellegrini ma in realtà armati - tra i quali erano il D., Antonio Porro e Guglielmo Bevilacqua -, giunse la mattina successiva di fronte alle mura di Milano. Qui gli andarono incontro Bernabò e due dei suoi figli: non sospettando di nulla avevano lasciato la città senza scorta armata. Ad un cenno di Giangaleazzo, i suoi fedeli accerchiarono i nuovi arrivati e il D. fece prigioniero Bernabò. Questi fu portato subito nel castello di Trezzo, dove morì dopo pochi mesi: Milano insieme con la metà orientale del dominio visconteo passò rapidamente sotto Giangaleazzo. Il D. occupò, a nome del suo signore, le città di Parma e di Reggio.
Le prime reazioni nell'Italia settentrionale alla caduta di Bernabò furono favorevoli. L'unica eccezione fu costituita da Verona dove Antonio Della Scala offri asilo e aiuto a Carlo figlio di Bernabò. Era perciò naturale che Giangaleazzo, una volta completata l'unificazione dei territori viscontei, rivolgesse la sua attenzione alla Lombardia orientale per le successive mosse espansionistiche. Durante il 1386, comunque, si limitò ad assistere, senza intervenire, allo scontro tra Padova e Verona che si concluse, secondo le sue speranze, con due pesanti sconfitte di Antonio Della Scala. Da alcuni indizi rintracciabili nelle fonti possiamo dedurre che nel corso del conflitto aveva fatto quanto poteva per aiutare il signore della città natale e aveva sollecitato il conte Lando ed altri condottieri ad entrare al servizio del Della Scala. Nel 1387, però, Giangaleazzo fu pronto ad intervenire direttamente contro Verona. Le fonti non sono univoche nell'indicare l'atteggiamento assunto dal D. in questa nuova fase dei rapporti visconteo-scaligeri. Secondo alcune egli non avrebbe partecipato all'attacco contro Verona e addirittura si sarebbe recato in Germania per chiedere l'intervento dell'imperatore Venceslao a favore di Antonio Della Scala (Litta). Ma tenendo presente da un canto il quadro complessivo della sua carriera e dall'altro la sua antica ostilità verso il signore veronese, appare estremamente difficile credere che il D. si opponesse a Giangaleazzo in un modo così deciso. È probabile perciò che le fonti in questione lo abbiano confuso con lo zio Filippino, il quale continuò a sostenere Antonio Della Scala. Di certo sappiamo che alcuni esuli veronesi, in particolare Guglielmo Bevilacqua e Spinetto Malaspina, ebbero un ruolo importante nell'attacco sferrato dal Visconti contro la loro città natale e furono nell'esercito che entrò a Verona il 18 ott. 1387. Non è chiaro se il D. fosse al loro fianco, ma non appare possibile credere ad una opposizione del D. all'azione viscontea.
È comunque sicuro che l'anno successivo il D. guidò il conseguente attacco contro Padova. All'inizio del 1388, infatti, egli si recò a Venezia insieme con Niccolò Spinelli da Giovinazzo per preparare nei dettagli il piano dell'azione congiunta veneziano-viscontea contro Francesco da Carrara. Nell'autunno poi fu al comando dell'esercito che pose l'assedio a Padova. Si impadronì delle principali roccaforti dei contado, le fortezze di Limena e Noale, tagliò i rifornimenti idrici della città, seppe controllare saldamente le truppe per evitare l'ostilità della popolazione rurale e rifiutò qualsiasi compromesso con i Carrara. Quando Francesco Novello chiese di accordarsi, il D. gli consigliò di recarsi a Pavia per trattare direttamente con Giangaleazzo, e quando Francesco lasciò Padova, accettò la resa della città e presiedette alla divisione dei territori dipendenti. Infine, tenne fede all'impegno assunto verso Venezia consegnandole Treviso, occupata il 12 dic. 1388. Quale ricompensa per questo atto e per l'intera conduzione della campagna ricevette il palazzo dei Carraresi a Venezia e fu ascritto all'albo della nobiltà veneziana.
Completata l'occupazione della Lombardia orientale, Giangaleazzo spostò le sue mire verso il Sud. Nel maggio 1390 il D. fu inviato ad assediare Bologna, difesa dalle truppe fiorentine e dalle milizie di Giovanni Acuto. Dopo aver subito una sconfitta, fu costretto a sospendere l'azione contro Bologna e ad occuparsi di Padova che era stata rioccupata dai Carraresi. Inviò allora Ugolotto Biancardo a controllare Verona ed egli stesso si mosse verso Padova. Ma l'arrivo del duca Stefano di Baviera e il conseguente spostamento delle forze antiviscontee unite sotto la guida dell'Acuto, gli impedirono di portare avanti il suo piano.
All'inizio del 1391 il D. si trovava in condizioni di schiacciante inferiorità numerica, costretto a fronteggiare non solo la minaccia dell'Acuto, che marciava verso occidente diretto a Milano, ma anche l'imminente arrivo in Piemonte del duca Jean d'Armagnac, al soldo fiorentino. In un primo momento il D. si schierò alla difesa di Milano contro la minaccia delle truppe dell'Armagnac che giungevano da Occidente; ma in maggio l'esercito dell'Acuto arrivò all'Adda e il D. fu costretto a spostarsi per fronteggiarlo. Diede ordine di rimuovere dalle campagne tutte le scorte alimentari e di spianare gli argini dei fiumi per allagare ampie aree del Bresciano. Contemporaneamente evitò una battaglia campale con l'esercito numericamente superiore dell'Acuto e lo costrinse a ritirarsi nel Padovano per trovare i viveri che gli erano necessari. 
Tornò allora rapidamente ad Alessandria dove arrivò in tempo per fronteggiare l'Armagnac. Il D. disponeva di 2.000 lance e di 4.000 fanti, mentre l'esercito francese contava almeno il doppio di soldati. L'Armagnac, confidando in una rapida vittoria, si lasciò attirare con una parte del suo esercito fino alle mura di Alessandria; qui il 25 luglio venne catturato da alcune colonne viscontee uscite improvvisamente dalle porte della città. La vittoria del D. fu completa: lo stesso Armagnac e 500 dei suoi cavalieri vennero catturati e molti altri furono uccisi. Giangaleazzo ordinò tre giorni di festeggiamenti in tutto lo Stato visconteo e il D., con il bottino preso ai Francesi, acquistò in Alessandria un gruppo di case e le abbatté per consentire la costruzione della chiesa di S. Giacomo della Vittoria. 
Quindi si mise in marcia verso sud, diretto in Toscana e si attestò fra Pisa e Lucca per impedire che Firenze ricevesse i rifornimenti dal mare. Il blocco tuttavia riuscì solo parzialmente. 
Le truppe del D., poi, furono sconfitte dall'Acuto a Tizzana: ne derivò una situazione di stallo che solo la pace di Genova del 26 genn. 1392 riuscì a sbloccare. In questa campagna le doti militari del D. ebbero modo di esprimersi chiaramente: attraverso la ferrea disciplina che riusciva ad imporre, egli raggiungeva un pieno controllo dell'esercito e quindi riusciva a fargli effettuare rapide manovre; inoltre egli cercava di evitare grossi rischi, ma era sempre pronto a compiere, al momento giusto, una decisiva azione di attacco. 
I panegirici che di lui scrisse Antonio Loschi, sia in questa occasione sia in seguito, non erano meri esercizi di retorica cortese ma, almeno in parte, derivano dalla genuina ammirazione dei contemporanei per le sue capacità militari. La pace di Genova diede al D. la possibilità di unirsi a un gruppo di pellegrini diretti in Terrasanta di cui faceva parte anche il conte di Derby, il futuro re inglese Enrico IV.
La successiva campagna militare del D. fu quella del 1397 contro Mantova. La signoria dei Gonzaga, posta al centro della Lombardia, ben difesa dal suo "serraglio" attentamente progettato sia per tener lontano dalle mura della città gli eventuali attacchi, sia per garantire sufficienti scorte alimentari ai difensori, costituiva una costante frustrazione per i piani di Giangaleazzo. 
Nel marzo 1397 il Visconti ordinò una mobilitazione su vasta scala e il 10 aprile due armate milanesi mossero contro Mantova. Il D. attaccò da occidente il grande ponte fortificato di Borgoforte, mentre Ugolotto Biancardo puntava su Governolo, l'altra principale via d'accesso al Mantovano. 
Per prendere Borgòforte il D. si servi di galleggianti incendiari e di un intenso fuoco d'artiglieria e quindi si mosse per appoggiare Biancardo a Governolo. A questo punto, comunque, il fronte antivisconteo aveva già riunito forze schiaccianti guidate da Carlo Malatesta. 
Il D., contrastato da una flotta fluviale veneziana che minacciava di tagliargli la ritirata dal "serraglio", ritirò la cavalleria lasciando all'assedio di Governolo la fanteria e l'arfiglieria. 
Questa forza assediante fu distrutta da Carlo Malatesta e la campagna del D. venne seriamente compromessa. Egli ripiegò allora su Guastalla per radunare le proprie truppe ed attendere rinforzi. 
Riordinato e rafforzato l'esercito, tornò all'attacco con una flotta fluviale più consistente, che sconfisse la flotta degli alleati a Borgoforte e rientrò nel "serraglio" insieme con Alberico da Barbiano. 
Si era ormai alla fine dell'autunno: il D. voleva arrivare ad una conclusione del conflitto. Perciò, insieme con alcuni compagni, riuscì ad entrare a Mantova, travestito da frate, per discutere con Francesco Gonzaga le condizioni di una tregua.
Nel 1401 il D. difese lo Stato visconteo contro una spedizione guidata da Roberto di Baviera. Insieme con Facino Cane riuscì a bloccare a Brescia l'avanzata di Roberto; un successo dovuto, in questo caso, forse più alla confusione e all'impreparazione dell'avversario che alle sue capacità. 
Da questo momento, comunque, la compresenza, al servizio dei Visconti, di anziani ed esperti condottieri italiani rende più difficile l'individuazione delle qualità proprie del comando del Dal Verme. 
È comunque certo che nel 1402 egli assunse di nuovo il comando dell'attacco portato contro Bologna e che soprattutto a lui spetta la vittoria di Casalecchio sulla lega antiviscontea (26 giugno). Il D. entrò a Bologna alla testa delle truppe di Giangaleazzo il 30 giugno e progettò di proseguire l'azione, insieme con Facino Cane, per arrivare alla cacciata dei Carrara da Padova. 
Ma nei due mesi successivi, nonostante le pressanti richieste di istruzioni che il D. rivolse a Giangaleazzo, non si riuscì a concretizzare né questa spedizione né quella parallela contro Firenze. Si ha l'impressione di trovarsi di nuovo di fronte a una leadership milanese sempre più divisa e all'emergere, fra i capitani viscontei, di rivalità personali che impediscono l'elaborazione di una chiara linea politica. Il 3 sett. 1402 la morte improvvisa di Giangaleazzo portò in piena luce queste divisioni.
Il D., nella sua qualità di esecutore testamentario del duca e di membro dei Consiglio di reggenza, si affrettò a tornare a Milano. Fu testimone del giuramento di Giovanni Maria Visconti e ottenne la conferma della carica di capitano generale. 
L'insurrezione scoppiata in tutto lo Stato lo tenne impegnato per il 1403 nel tentativo di riportare l'ordine e di conservare la fedeltà delle città lombarde. Soppresse le rivolte di Lodi, Cremona e Brescia, ma ogni volta, appena le sue truppe lasciavano la città, queste tornavano a dichiararsi indipendenti. 
In settembre, insieme con Ottobuono Terzi e Galeazzo Gonzaga, respinse un attacco padovano a Brescia: ma tutti questi sforzi, diretti a preservare lo Stato visconteo, venivano vanificati dai contrasti esistenti a Milano fra Giovanni Maria e la duchessa Caterina e dal tentativo di molti capitani viscontei di trarre da quella situazione il maggior utile personale possibile. Nel 1404 la conquista di Verona da parte di Francesco Novello da Carrara fornì, se non altro, un polo attorno a cui poteva focalizzarsi la politica viscontea. 
Il D. fu inviato a Venezia per trattare una nuova alleanza contro i Carrara: durante il viaggio venne catturato dai Ferraresi i quali, comunque, grazie alle pressioni diplomatiche della Serenissima, lo rilasciarono prontamente. Obiettivo iniziale della sua missione a Venezia era quella di ottenere l'impegno di Venezia a far tornare Verona sotto il governo dei Visconti; la Serenissima avrebbe ottenuto alcune città carraresi, ma non Padova, che doveva rimanere a Francesco Novello e costituire un baluardo contro l'espansionismo veneziano. 
Ma la decisa volontà di Venezia di distruggere una volta per tutte i Carrara e il rapido inizio della guerra impedì un accordo definitivo. Il D., Galeazzo Gonzaga e Ottobuono Terzi si unirono alle forze veneziane che assediavano Verona più come condottieri indipendenti che come rappresentanti dei Visconti.
Anche in questa occasione, al pari delle altre in cui l'indipendenza della sua città natale era minacciata, la posizione del D. si fece in qualche modo ambigua. Venezia dovette temere che egli cercasse di impadronirsene personalmente ed evitò di dargli il comando supremo delle forze assedianti. 
Ma anche se è chiaro che egli fece ben poco per conservare la città ai Visconti, gli indizi che il D. nutrisse effettivamente questa ambizione sono scarsi, né ci sono prove concrete per sostenere - come è stato fatto - che in questa fase fosse mosso esclusivamente dalla sua decisa ostilità personale nei confronti di Francesco Novello. 
Quando nel 1405 Verona e Padova vennero conquistate, il D. si recò a Venezia e qui pare che si esprimesse a favore dell'esecuzione di Francesco Novello e dei suoi familiari, prigionieri dei Veneziani. 
Ma Venezia non aveva certo bisogno di essere persuasa per porre fine a una famiglia che nei precedenti cinquant'anni le aveva posto tanti problemi.
Dopo un'assenza di oltre un anno il D. rientrò a Milano dietro sollecitazione dell'arcivescovo che lo indusse ad assumere il comando della lotta contro l'aggressiva fazione ghibellina capeggiata da Facino Cane. Ancora una volta il D. fece del proprio meglio per riportare l'ordine nello Stato visconteo, ma - nonostante che la sua azione, a differenza di quella della maggior parte degli altri anziani condottieri, fosse diretta alla conservazione dell'unità del dominio visconteo - egli non riuscì a conquistarsi la fiducia del paranoico e imprevedibile Giovanni Maria. 
A metà dell'estate del 1406 la difesa degli interessi ducali fu affidata a Carlo Malatesta; ma il D. accettò di buon grado di operare per la restaurazione dell'unità e dell'ordine sotto la guida del Malatesta. Comunque, quando nel gennaio 1407 i ghibellini di Facino Cane si ribellarono apertamente, Carlo Malatesta si trovava in Romagna e il D. non riuscì ad impedire che Giovanni Maria giungesse a patti coi ribelli. Lasciò allora Milano e, alleatosi con Pandolfa Malatesta, Gabrino Fondulo e Ottobuono Terzi, prese le armi contro il regime di Facino Cane.
Il 22 febbr. 1407 il D. e i suoi alleati sconfissero Facino a Binasco e lo costrinsero a fuggire ad Alessandria. Il giorno di Pasqua entrarono trionfalmente a Milano. Rimaneva il problema dei ghibellini milanesi, asserragliati nel castello di porta Giovia: il 19 maggio ottennero la loro resa condizionata. 
Il successo del D. aumentò i sospetti di Giovanni Maria nei suoi confronti: peraltro, mentre doveva preoccuparsi della diffidenza del duca, il D. cercava di frenare gli eccessi di Ottobuono Terzi, riuscendo con grande difficoltà ad impedirgli di saccheggiare Milano. 
Nell'estate del 1407, alla scadenza del suo ultimo contratto, il D. ne aveva abbastanza: sollecitò allora Carlo Malatesta a riprendere il suo posto a Milano, radunò le sue truppe e lasciò la città per l'ultima volta. 
Si recò a Venezia, pensando di partecipare a una crociata, ma prima di poter organizzare l'impresa morì a Venezia il 12 febbraio 1409.
Il D. fu un ricco proprietario terriero. Nel 1377 aveva recuperato le proprietà familiari site nel Veronese che erano state confiscate al padre nel 1354, al tempo dell'esilio. 
Queste proprietà, che avevano il loro centro nel castello di Sanguinetto, furono arricchite negli ultimi decenni dei sec. XIV da donazioni scaligere e viscontee. Nel 1405 il D. ottenne da Venezia il possesso a vita del castello di Nogarola, come ricompensa dei suoi servigi durante la guerra contro Padova. 
Oltre queste terre, egli possedeva il feudo di Monguzzo concessogli da Giangaleazzo nel 1380 ed alcuni feudi nel Piacentino. Dalla Chiesa di Bobbio ebbe anche un certo numero di feudi ecclesiastici e nel 1400 acquistò il castello di Fortunago.
Il D. si sposò due volte, prima con Cia di Gasparo degli Ubaldini, poi con Francesca di Francesco Brancaleoni. Dei figli, Luigi fu il principale crede dei suoi possedimenti e della sua posizione militare; Antonio trascorse gran parte della vita a Piacenza e fu impiccato a Parma nel 1449 per aver tentato di consegnare la città a Francesco Sforza; Petrolino fu un condottiero milanese di rango inferiore. Si ricordano altri due figli, Francesco e Pierantonio, ma le notizie sulla loro vita sono scarse.
Fonti e Bibl.: Un buon numero di notizie sul patrimonio fondiario del D. si trovano nei documenti conservati presso l'Archivio di Stato di Verona, Fondo Zilieri-Dal Verme. 
Fonti essenziali per la sua biografia sono, poi, i numerosissimi documenti conservati negli archivi di varie città dell'Italia settentrionale di cui è impossibile fare un elenco completo. 
Per una figura così importante per la storia del tardo Trecento e dell'inizio del Quattrocento si possono citare qui solo alcune opere fondamentali. Del D. non esiste una biografia completa: per una rapida sintesi della sua vita si veda L. Bignami, Condottieri viscontei e sforzeschi, Milano 1934, pp. 47-74, che utilizza ampiamente P. Litta, Le famiglie celebri italiane, sub voce Dal Verme da Verona, tav. II. Le più utili tra le cronache edite sono Raphayni de Caresinis Venetiarum Chronica, in Rer. Ital. Script., 2 ediz., XII, 2, a cura di E. Pastorello, pp. 70 s.; G. e B. Gatari, Cronica carrarese, ibid., XVII, 1, a cura di A. Medin-G. Tolomei, I, ad Indicem; Corpus Chronic. Bononiensium, ibid., XVIII, 1, a cura di A. Sorbelli, III, ad Indicem; Cronaca di ser Guerriero da Gubbio, ibid., XXI, 4, a cura di G. Mazzatinti, ad Indicem; Cronica volgare di anonimo fiorentino giàattribuita... Minerbetti, ibid., XXVII, 2, a cura di E. Bellondi, ad Indicem. Si vedano, inoltre, A. Gloria, Monumenti dell'università di Padova, II, Padova 1888, ad Ind.; Repertorio diPlomatico visconteo, II, Milano 1918, nn. 2453, 2684, 3031. Tra i numerosi studi concernenti il D. si ricordano G. Ghillini, Annali di Alessandria, Milano 1666, pp. 76 s., 78, 81; B. Corio, Storia di Milano, Milano 1856, II, pp. 225, 323, 346, 456, 364 s., 387, 409-12, 436, 446, 452, 475 s., 478, 481 s., 486, 492-95; G. Da Schio, Sulla vita di A. Loschi, Padova 1858, pp. 48, 189 ss.; G. Finazzi, Guelfi e ghibellini a Bergamo, Bergamo 1870, pp. 18, 21, 132, 218 s., 225 ss.; I. Ghiron, Della vita e delle militariimprese di Facino Cane, in Archivio stor. lomb., s. 2, IV (1887), p. 573; O. Perini, Il feudo DalVerme in Sanguinetto. Diploma dell'imperatoreVenceslao, 1387, in Arch. stor. veronese, III (1879), pp. 314-322; P. Durrieu, Les Gasconsen Italie, Auch 1885, pp. 83-98; L. Frati Laguerra di Giangaleazzo Visconti contro Mantova, in Arch. stor. lomb., s. 2, IV (1887), pp. 40-47; G. Temple Leader-G. Marcotti, Giovanni Acuto, Firenze 1889, pp. 191, 198-203, 204-207; E. Ricotti, Storia delle compagnie di ventura in Italia, Torino 1893, pp. 324, 327-31, 333, 338, 346-49; M. M. Newett, Canon Pietro Casola's pilgrimage, Manchester 1907, p. 33; L. Frati, Le epistole metriche di A. Loschi, in Giornale storico della letteratura italiana, L (1907), pp. 88-99; G. Collino. La guerra viscontea contro gli Scaligeri, in Archivio storico lombardo, s. 4, VII (1907), pp. 113, 149; Id., Le preparazioni della guerraveneto-viscontea contro i Carraresi, ibid., pp. 220, 234, 249; Id., La guerra veneto-viscontea controi Carraresi, ibid., XI (1909), pp. 339, 364 s.; C. Argegni, Condottieri, capitani e tribuni, Milano 1936, I, pp. 222 s.; N. Valeri, L'ereditàdi Giangaleazzo Visconti, Torino 1938, ad Indicem; D. M. Bueno de Mesquita, GiangaleazzoVisconti, duke of Milan (1351-1402), Cambridge 1941, ad Indicem; Id., Some condottieri of theTrecento, in Proceedings of the British Academy, XXXII (1946), pp. 228 s.; L. Simeoni, Le Signorie, Milano 1951, I, ad Indicem; F. Cognasso, L'unificazione della Lombardia sotto Milano, in Storia di Milano, V, Milano 1955, ad Indicem; Id., Il ducato visconteo da Giangaleazzo a FilippoMaria, ibid., VI,ibid. 1955, ad Indicem; M. E. Mallett, Mercenaries and their masters. Warfarein Renaissance Italy, London 1974, pp. 53 s.; G. M. Varanini, Il distretto veronese nel Quattrocento, Verona 1980, pp. 65-68; G. Soldi Rondinini, La dominazione viscontea a Verona (1387 -1404), in Verona e il suo territorio, IV, 1,Verona 1981, pp. 88 ss.

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