Case per i figli di Dio
Agostino Pietrasanta Appunti Alessandrini
Ricordo una piccata risposta di mons. Charrier: a chi gli obiettava la disponibilità offerta agli alluvionati del 1994, dei locali di Betania, egli rispondeva che le case di Dio sono a disposizione dei suoi figli.
Anche per questi insegnamenti, la memoria fa difetto e non escludo che succeda pure a me: spesso per mia personale tranquillità, certi insegnamenti li accantono volentieri. E tuttavia della battuta del defunto vescovo, mi sono ricordato, quando ho letto, sui media locali, delle prospettive di accoglienza migranti, rese possibili da un’eventuale disponibilità degli spazi abbandonati delle nostre parrocchie.
Va precisato che non ci sfugge certo la complessità del problema: mesi addietro sul nostro blog, ne abbiamo discusso grazie ad un confronto fra diverse opzioni e prospettive ideologiche; sta di fatto che
una convergenza significativa si è espressa per una costatazione della ineluttabilità del fenomeno, al netto delle diverse valutazioni circa un coerente e compatibile governo delle inevitabili conseguenze. Tanto va detto, anche per evitare le facili, quanto trite accuse di buonismo, sparse a piene mani dei devoti benpensanti.
Ora, venendo al caso nostro, ciò che suscita perplessità è il silenzio assordante della Chiesa locale, in risposta alla provocazione dei succitati media locali. Sia chiaro: nessuno può banalizzare le attività della “Caritas”, né l’impegno di sacerdoti impegnati nella direzione degli uffici missionari, né la disponibilità di varie congregazioni religiose, a cominciare dai salesiani; e tuttavia si ribadisce la perplessità sul silenzio, probabilmente imbarazzato, alla questione posta sui media locali, delle parrocchie vuote e sulla loro possibile apertura all’accoglienza dei migranti.
Tra l’altro, grazie ad informazioni acquisite da persone competenti di prima mano, so che non mancherebbero neppure vantaggi finanziari: ci sarebbero disponibilità e risorse sufficienti per riaprire spazi lasciati all’abbandono dell’incuria, della fatiscenza e del pericolo. Non entro nel merito, ma non sarebbe affatto difficile l’informazione, per chiunque non si voglia chiudere nella propria prospettiva di rifiuto ideologico.
Ovviamente per la missione della Chiesa c’è qualcosa di più, sia pure senza banalizzare i possibili vantaggi pratici; e non mi limito a richiamare i riferimenti del giudizio della misericordia e l’esplicito comando evangelico dell’accoglienza dello straniero. C’è da rivedere l’obiezione che certi spazi sono riservati al culto e magari agli esercizi spirituali: anche qui nessuna facile scappatoia, ma ci sono situazioni in cui cala l’ammonizione della parabola. Il sacerdote non si è fermato accanto al malcapitato derubato e massacrato dai briganti: temeva l’impurità prevista dalla legge e la conseguente impossibilità di celebrare il culto. Resta inteso che non avrei altra risposta, né più calzante controdeduzione.
Con questo non voglio certo dire che si debba sempre concludere per un’accoglienza senza opportune riserve ed attenzioni, dico solo che non si può tacere, non si può girare testa per lidi più interessanti e gradevoli. Il silenzio non è mai una ragione e noi invece, senza escludere l’ultimo e magari il più anziano dei fedeli laici, siamo proprio chiamati, se leggiamo attentamente la prima lettera di Pietro, a rendere ragione della speranza che è in noi. Nella pratica, potrebbe voler dire saper rispondere a Salvini (bel personaggio!), quando dice a papa Francesco di prendersi lui i migranti; se praticassimo in tutte le situazioni possibili (non esclusa quella che si prospetterebbe nel caso che abbiamo rilevato), potremmo rispondergli che non solo il papa, ma anche il popolo cristiano lo sta facendo.
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