Renzi è il nuovo Berlusconi ?


Franco Livorsi Città Futura on-line
Ho percepito la novità di Renzi nella politica italiana sin dai primissimi tempi, oltre tre anni fa; e proprio “Città Futura on line” mi è ampiamente testimone di ciò. L’ho fatto del tutto disinteressatamente perché, pur essendo sempre politicamente appassionato e di sinistra, da molti anni mi piace essere “indipendente”; e credo persino che la mia indipendenza, senza tessera né vincolo alcuno, non difenda solo la mia pace interiore di “meditante”, ma anche una totale autonomia di giudizio, che spero possa essere una minuscola risorsa per la sinistra. Alla sinistra, posso, infatti mandare messaggi e riflessioni, spero non proprio vani, senza freni inibitori d’appartenenza di alcun genere. Ciò posto, non ritengo che Renzi sia il grande leader storico che ci vorrebbe, ma sono sicuro che sia “il meglio” che possa esprimere questo Paese in questa fase storica, per provare a salvarsi dalla stagnazione economica, dalla decadenza politica e da una crisi di fiducia così totale negli uomini dello Stato da rischiare di essere, prima o poi, mortale per la democrazia. Finalmente arriva, con Renzi, un vento di cambiamento. Certo non ha né il respiro ideale né quello culturale che vorrei. Sin dall’inizio ho acquistato i libri di Renzi, ma non ho mai superato la pagina 50 di nessuno di essi. Non è né un pensatore politico né un filosofo né uno storico né un economista. Ma non importa. In questo mondo non si può avere tutto. E’ molto pragmatico, è molto determinato, è sicuramente riformista, è della parte per cui voto io e che piace a me, è furbo, è giovane, e fa emergere suoi simili, altri giovani, altri uomini e altre donne, per ora di tutto rispetto e che più oltre si faranno ancor più esperti, incarnando una nuova classe
politica (altre facce, finalmente). E vuole riformare lo Stato e i rapporti economico sociali. Ci sono molte cose imperfette e nebulose nei suoi progetti, ma i primi segnali che ha dato e dà sono molto buoni. Il resto verrà. E comunque provare a realizzare tali cose è importantissimo. Bisogna dargli una mano, e possibilmente anche due.
   Pochi giorni fa Sandro Bondi, un fedelissimo di Berlusconi, ha mollato l’ex Cavaliere. Bondi non solo stimava e approvava Berlusconi, ma addirittura lo amava. Tuttavia si sa che ogni grande amore è soggetto alla delusione. Bondi ha scritto una lettera alla “Stampa”, il 23 aprile ultimo scorso, intitolata: “Forza Italia ha fallito, sosteniamo Renzi”. I punti centrali sono due. Berlusconi “non ha potuto” fare la rivoluzione liberale e ha storicamente fallito. (Certo il capo creduto carismatico, per questo ex fedelissimo, non è responsabile della rivoluzione liberale mancata. La colpa sarebbe tutta degli alleati brutti e cattivi, fascistoidi o leghisti e consorti, come Fini, poi La Russa, Bossi e il bieco Tremonti). In secondo luogo l’erede del Grande Capo fallito sarebbe il suo formale avversario, Matteo Renzi. “Renzi- dice Bondi - rappresenta senza dubbio la prima vera cesura nella sinistra italiana rispetto alla tradizione comunista. Anzi, la sinistra di Renzi si colloca oltre la tradizionale socialdemocrazia europea, ed è più simile alla sinistra liberal americana di Obama e al nuovo Labour Party di Blair. Si potrebbe dire che Blair sta alla Tatcher così come Renzi sta a Berlusconi. Con la differenza però che Berlusconi non ha potuto portare a compimento una vera e propria rivoluzione liberale e una necessaria modernizzazione dell’Italia come ha fatto invece la Tatcher in Gran Bretagna, sia nella sfera economica che in quella dei diritti civili.”
  La riflessione è indubbiamente interessante, anche se solo apparentemente convincente. Spiega più la parabola di Bondi e di tanti ex dirigenti della sinistra finiti con Berlusconi che non il fenomeno Renzi. Si capisce che i più capaci tra loro siano delusi. Solo che molti tra quei tipi, essendo dei cinici, o dei politici più o meno spregiudicati, anche quando vengano dalle file del socialismo riformista o in qualche caso – come l’ex antico sindaco comunista Bondi - dal Partito Comunista, vanno nel “Nuovo Centrodestra”. Bondi, che aveva cercato davvero una sorta di “salvatore”, dopo Berlusconi pare guardare a Renzi, seppure senza voler più approdare da alcuna parte. Forse non opera da “vero politico”, ma certo opera - se davvero non sta facendo un salto di 180 gradi, il che non credo - da galantuomo. A mio parere dà un’indicazione, vedendo Renzi come l’erede politico di Berlusconi, ma collocandosi fuori campo. L’opzione di Bondi può far gongolare pure qualche nostro amico, che vede confermati i motivi sia di ripulsa di Berlusconi (e va bene) che di identificazione tra l’odiato Berlusconi e Renzi (e non va). Con buona pace di Bondi. Su ciò è possibile fare qualche piccola riflessione storico politica e strategica.
   Da molto tempo, sin dalla fine degli anni Settanta (per i primi tre aspetti citati di seguito), dopo molto studio, esperienze e riflessioni su storia e politica (in specie d’Italia), sono giunto ad alcune conclusioni di tipo politologico: I) che quando certe soluzioni sono storicamente mature se non riescono ad arrivare da una parte, per una specie di legge dei vasi comunicanti arrivano dall’altra: il che però non è affatto la stessa cosa, benché sia una cosa “omologa”; II) che la lamentata e deplorata, e da molti maledetta, “personalizzazione della politica” era ed è figlia “ovvia” della grande crisi (e poi del crollo) della prima repubblica; III) che tale “personalizzazione della vita politica” in Italia può dare frutti positivi, e comunque durevoli, solo se arriva da sinistra; IV) che Renzi non è affatto la versione realmente o addirittura solo apparentemente progressista del berlusconismo, ma tutt’altro.
I)  Sul primo punto potrei andare molto lontano nell’esemplificazione, sino a quello che è accaduto in Italia tra il 1914 e il 1922, ma me ne astengo. Resto ai dati relativamente più prossimi, pur parlando di cose che quelli che oggi hanno trenta o quarant’anni non possono neanche ricordare perché o erano all’asilo o alle elementari. C’è stata  la crisi della prima repubblica (1993), che era una repubblica basata sul potere dei partiti (partitocrazia) in quanto repubblica parlamentare, incentrata sul potere legislativo eletto con la proporzionale pura, che è il sistema che premia i partiti più presenti nel territorio, e sulla totale dipendenza del potere esecutivo (governativo) dal legislativo (parlamentare); oppure, e più correttamente parlando in termini storici, era una repubblica parlamentare nel senso anzidetto perché era una repubblica dei partiti, segnata dall’inizio alla fine da partiti già del Comitato di Liberazione Nazionale, con ovvie variazioni nel corso dei decenni. Si può anche sostenere che le democrazie liberali moderne dopo la prima guerra mondiale siano tutte “dei partiti”, che sono l’anello di congiunzione necessario tra sovranità del popolo e sovranità del parlamento. Ora questa repubblica dei partiti è entrata nella sua crisi mortale il 9 maggio 1978, quando Aldo Moro, il maggior capo storico della Democrazia Cristiana dal 1962, fu assassinato dalle Brigate Rosse. Con ciò nessuno fraintenda. Come non fu il nazionalista serbo che sparò all’arciduca d’Austria a provocare la prima guerra mondiale, e neanche i quattro gatti nazionalisti serbi (né tantomeno a determinarne il decorso), così non furono neanche i quattro gatti terroristi fanatici che assassinarono Moro credendo di essere in Bolivia, o che le camicie nere fossero alle porte (e neanche i loro omologhi dell’altra parte), a mettere in crisi la repubblica. In Europa la politica si fa sempre con e tra grandi masse, da almeno un secolo. La nostra Repubblica, entrata in stato necrotico dalla morte di Moro, era marcita per mancanza di alternanza, essendo impossibile a un primo partito della sinistra che si chiamava comunista, e che era davvero comunista, sia pure all’italiana, e che aveva tutti i parenti del mondo comunisti, succedere alla DC, anche quando sarebbe stato necessario come si vedeva a occhio nudo intorno al 1975. L’ultimo tentativo di evitare il “marcimento” morale istituzionale e sociale, insomma lo scacco dell’Italia, ma senza far saltare la repubblica dei partiti, era stato quello della tentata grande alleanza tra DC e PCI detta “compromesso storico”, promossa da Berlinguer tra 1973 e 1979: alleanza che aveva visto improvvisamente un tipo come  il cinico, spregiudicato e chiacchieratissimo Giulio Andreotti diventare il Presidente del Consiglio del governo di solidarietà nazionale che avrebbe dovuto portare al “compromesso storico”, con ovvia delusione di tutti i veri riformatori e riformisti (per non dire dei pretesi “rivoluzionari”). Sin dal bieco assassinio di Moro e dallo scacco della politica di solidarietà nazionale “base del compromesso storico”, intorno al 1979, ci fu qualcuno che capì che la repubblica dei partiti - o parlamentare e proporzionalista pura che dir si voglia - era finita. Qui naturalmente tutti penseranno al “Piano Solo” e alla loggia massonica deviata P2 di Licio Gelli, ma queste cose vanno bene per i lettori del solo Alexandre Dumas e del suo dimenticato romanzo su Cagliostro (“Giuseppe Balsamo”, 1848). In realtà chi se ne accorse prima e più di tutti era un finissimo politico che ancor oggi siede alla Corte Costituzionale, Giuliano Amato, che nel 1980 scrisse il libro “Una repubblica da riformare” (Il Mulino). Nasceva l’ideologia politica di Craxi (“la grande riforma”). Si voleva blindare la “governabilità”, introducendo l’elezione diretta del premier, alla de Gaulle-Mitterrand sia pure più moderatamente. Solo che Craxi, che impersonava il tentativo, e che aveva tra i principali fan e fraterni amici il miliardario Berlusconi, da un lato impersonava – e ne era anzi “l’autobiografia” - un partito come il PSI, promotore e realizzatore misconosciuto delle maggiori riforme di Welfare State e civili del Paese, e anche generatore di leader di prim’ordine, ma che ormai era troppo inquinato moralmente dopo una troppo lunga connivenza con la DC per poter impersonare una svolta “alla francese” (alla de Gaulle-Mitterrand). Inoltre il tentativo si scontrava con l’ostilità assoluta del PCI di Berlinguer, che temeva proprio la social democratizzazione; non voleva essere trascinato – alias egemonizzato – da disistimati “fratelli minori” socialisti, ed era ben consapevole – come poi si vide meritoriamente - della degenerazione morale subita in tanti anni di governo dal PSI. Tutto ciò fece sì che il progetto del “governo presidenziale” venisse messo in frigorifero, trasformato in propaganda, sostituito dal famoso patto d’acciaio Craxi Andreotti Forlani (CAF). Questo non restò senza conseguenze, data la necrosi della prima repubblica, aprendo la strada ad un’implosione graduale del sistema culminata nella grande resa dei conti tra ceto di governo e potere giudiziario chiamata “Mani pulite”. Ma - puntuale come un orologio - si verificò la solita svolta a rovescio, la “legge” dei vasi comunicanti: fallita da sinistra, l’alternativa alla moribonda repubblica dei partiti arrivò da destra, al solito da un transfuga del precedente tentativo, Berlusconi, già grandissimo amico del leader del mancato gollismo “da sinistra”, Craxi. Ora siamo daccapo. Berlusconi è fallito e sono emerse, negli ultimi anni, prima e dopo la caduta del suo governo, parecchi tentativi di tornare a meccanismi e alleanze politiche da prima repubblica. Ci sono state tendenze al ritorno alla proporzionale, mascherata “alla tedesca” o alla “spagnola”, non solo nell’area ex democristiana conservatrice di Casini, ma in una vasta area del PD compresa tra D’Alema e Bersani. Ci sono stati continui tentativi di resuscitare forme di unità nazionale che avrebbero potuto favorire tali processi, dal governo dei “tecnici” di Mario Monti a quello di Enrico Letta, specie sponsorizzati da Napolitano. Ma sono tutti falliti, culminando prima nel crollo di Bersani durante l’elezione del nuovo Presidente della repubblica, poi nella liquidazione di Letta da parte di Renzi. Può darsi che Renzi, che  rappresenta la discontinuità con tutto quel mondo che ha cercato invano di risorgere, sia in termini di legge elettorale che di grandi alleanze moderate, sia più subito che accettato dal Presidente della Repubblica. Ma non importa. Quale sia lo stato d’animo di questo o quel leader, di qualsivoglia partito, Renzi incarna una forma di sinistra, reale sebbene molto moderata, almeno per ora, o del gollismo, o del premierato all’inglese, o comunque, e per ora più plausibilmente, di un genere di governo - anche non eletto dal popolo sovrano - che accentua il ruolo arbitrale del primo ministro e ne fa un’istanza sempre più legata ad una volontà popolare diretta (ad esempio indicandolo come candidato sulla scheda alle prossime elezioni politiche, consentendo l’identificazione tra il partito e il suo leader). Non a caso Renzi è il leader di partito eletto a grande maggioranza, in competizione vera, dagli elettori del PD. Ha poi proseguito la sua corsa diventando capo del governo.
II) Qui bisogna essere al  tempo stesso onesti intellettualmente e realisti politicamente: la cosa può piacere o non piacere, ma nessuno, assolutamente nessuno, potrà far rivivere lo Stato con le regole elettorali e la centralità dei partiti della Costituzione e della Repubblica nate nel 1946-1948. In Italia i partiti come “parti dello Stato” non sono risultati rifondabili: intanto perché le ideologie del Novecento, e le classi del Novecento, sono in grave crisi ovunque; ma poi perché qui a ciò si era aggiunto il fatto che i partiti protagonisti della prima repubblica erano tutti morti, o per la bulimia, in cinquanta (DC) o trenta (PSI) anni di governo senza alternativa democratica, o per la connessa scandalosa, avvilente e nociva bancarotta finanziaria del debito pubblico, e per le ruberie diventate per decenni “normali”, e per la sclerosi burocratica. Il PCI riuscì a non crollare sotto le macerie della prima repubblica rifondandosi come Partito Democratico della Sinistra nel 1991, ma non avendo voluto tornare ad essere semplicemente un grande partito democratico e socialista europeo, ma “un’altra cosa” precipitò in una lunga crisi d’identità. In sostanza il grande soggetto di sinistra rimase vivo, ma a prezzo di una crisi d’identità che pareva interminabile, culminata nel crollo di Bersani e nell’avvento di Renzi. Certo i partiti avrebbero potuto rifondarsi, e lo hanno tutti tentato, ma siccome o tutti o la gran parte o comunque una parte decisiva dei rifondatori sono sempre quelli di prima, la gente non poteva e non può fidarsi; non vuole più delegare la propria volontà ad alcun partito, se non per il minimo indispensabile. In parole povere se non è più storicamente potabile la democrazia dei partiti diventa fatale quella cosiddetta personalistica, in cui non è il leader (o il presidente del Consiglio, o anche il sindaco o il presidente di Provincia o Regione, o persino il deputato) a essere “del” partito, ma è il partito corrispettivo ad essere “del” leader, “del” presidente del Consiglio, “del” sindaco, “del” presidente della Provincia, del “presidente” della Regione, e persino “del” parlamentare. Più o meno come in America. I cittadini vogliono scegliere loro, e a tempo debito sostituire, col loro voto, ogni “capo” che conti davvero. Non è un caso che i sondaggi dicano che il 95% non crede nei partiti e il 40% crede nei sindaci. Ed è molto interessante che i sindaci abbiano fatto da trampolino per l’ascesa del presidente come del vicepresidente del Consiglio d’oggi e che si cerchi di variare il modello della Camera delle Regioni tedesca, dei delegati regionali (Bundesrat), facendo più posto ai sindaci nel nuovo Senato delle autonomie.
   Per tutte queste ragioni la famosa deplorata personalizzazione c’è stata in tutti i partiti politici, persino minuscoli. Non è certo una disposizione d’animo a generare tutto ciò. Non scherziamo. Persino Sinistra Ecologia Libertà ha un tal rapporto col suo leader. Come fa la gente a credere in partiti che sono chiaramente dei residuati bellici, salvo il Partito Democratico, che però in tempi recenti non se la passava bene, e che solo dandosi anch’esso, con un ritardo storico di un quarto di secolo, un forte leader popolare (o se volete populista di sinistra), è cresciuto di 10 punti o quasi nei sondaggi rispetto al tempo di Bersani?
III) Tutto ciò mi conferma nella mia vecchia idea che una svolta “minigollista” in Italia possa avvenire e comunque avere buoni effetti, e durata, solo “da sinistra” (come da me spiegato tanti anni fa in un mio piccolo saggio intitolato “Socialismo e presidenzialismo”, in “Critica Sociale”, n. 7, 1990). Può avvenire solo da sinistra perché se si presenta “da destra” il sospetto che sia una ribollita di fascismo o comunque inquinata da tendenze autoritarie è troppo forte, anche legittimamente.  Bondi chiama “rivoluzione liberale” la svolta minigollista perché quello che vi si connette lo sarebbe. Provo a spiegarlo, certo esplicitando non solo il non detto, ma anche forse il “non pensato” dall’uomo che amò Berlusconi. In Italia sarebbe necessario stabilire o ristabilire una buona divisione e bilanciamento dei tre poteri fondamentali dello Stato e un sano rapporto di distinzione e di collaborazione dialettica tra società civile e Stato. Questa sarebbe una “rivoluzione liberale”. Ci vuole un governo forte del consenso popolare, nonché di legislatura, e in grado di avere una corsia preferenziale per le sue proposte alla Camera. Ci vuole un potere legislativo liberato dal macchinoso bicameralismo e con lo stretto, anche se non esclusivo, rapporto con il governo di cui si è detto. E ci vuole un potere giudiziario sempre molto autorevole, ed agguerrito contro la criminalità organizzata, ma anche tale da dare garanzie di giustizia rapida, con limiti di competenza molto più definiti, che evitino una supplenza che viene a concernere ormai persino la sorte di grandi aziende. E bisogna che le grandi organizzazioni sociali, come i sindacati dei lavoratori e degli stessi imprenditori, abbiano certo notevoli spazi di interlocuzione col potere esecutivo e legislativo, ma nessun diritto teorizzato, o di fatto, di porre veti nella politica economica del Paese. Ma tutto ciò, per ragioni che non è difficile capire, non può farlo né un potere sbilanciato sul legislativo (e sui partiti), come nella prima repubblica, né sul  giudiziario, ma semmai un potere esecutivo o governativo decisamente rafforzato tramite norme che consentano di sapere subito dopo le elezioni chi governerà per tutta la legislatura, con potere del premier, elettoo o meno dai cittadini, di nominare e revocare i ministri e di avere, per le proposte del governo, una corsiapreferenziale in parlamento, in un contesto semplificato dall’esclusiva legislativa da parte della sola Camera  dei deputati.
   Credo che sia più o meno questo quel che Bondi chiama “rivoluzione liberale”. Ed ha ragione a dire che con culture come quelle di matrice autoritaria erano impossibili. Solo che non si accorge che Berlusconi stesso ne è sempre stato il Capo, l’autobiografia, la quintessenza, il più populista della compagnia, per tacere di tutto il resto.
  Ora il progetto volto a dare al Paese un esecutivo legato al voto del popolo sovrano e garante a sua volta di riforme istituzionali come economico sociali, passa da Berlusconi a Renzi.
   Naturalmente ci sarebbe molto da discutere “nel merito” delle riforme istituzionali proposte dal governo Renzi (dopo il patto con Berlusconi). A me pare del tutto ovvio che se due contraenti con una loro base di massa fanno un compromesso – doveroso per non tornare indietro alle regole della prima repubblica o peggio – esso porti alcune stigmate di entrambi. Che Berlusconi, così in crisi, avrebbe potuto rinunciare “del tutto” a nominare i “suoi” candidati, “era follia pensar”. Perciò si è passati dal listone nazionale del Porcellum alla proposta del “listino da tre a sei candidati”, che è meglio, molto meglio di prima, ma risente di quel condizionamento (anche se il PD per parte sua si è impegnato a fare le primarie per scegliere i suoi candidati nei collegi). Pregevole è invece il doppio turno. Per me il punto debole è la proposta sul Senato, che però non deve restare elettivo da parte dei cittadini in alcun modo, perché altrimenti tutte le storture di oltre sessant’anni di bicameralismo macchinoso tornerebbero alla chetichella, e perché la doppia lettura delle leggi non serve (il controllo di legittimità lo esercitano già Presidente della Repubblica e Corte Costituzionale). Ma un Senato in pratica quasi solo consultivo serve ancora? Se lo mantengono, debbono farne - ma con i poteri effettivi, e non consultivi, corrispondenti - il corrispettivo della Camera dei rappresentanti delle Regioni o Länder della Germania, che sono delegati (ma con poteri deliberativi “veri”, ad esempio rispetto alle singole Regioni); se il Senato restasse in gran parte consultivo, come nella proposta attuale, sarebbe meglio abolirlo. Ma la trattativa è in corso. Siamo vigili e speriamo in bene.
IV) Comunque io ho molta fiducia in questo premier, Matteo Renzi, e non lo ritengo affatto un novello Berlusconi. E’ vero che il PD di Renzi assomiglia molto al New Labour di Tony Blair, in pratica alla socialdemocrazia più riformista d’Europa e quindi che è più democratico che socialista (alla Obama). Ma intanto la carta della socialdemocrazia di sinistra (da Mitterrand a Jospin) è stata bruciata dai comunisti e post-comunisti, che né alla crisi del compromesso storico (1979) né al crollo del muro di Berlino (1989) e neppure alla fondazione del PD (2006), hanno voluto essere socialisti europei e basta. Pur di fare un’altra cosa hanno persino fuso ex comunisti ed ex democristiani di sinistra. Se ora arriva un emulo di Blair e del New Party comincia almeno a vincere la destra socialista europea. E’ persino un progresso politico. Inoltre, ora come ora, piaccia o non piaccia, l’alternativa è tra il populismo democratico riformista (o socialdemocratico riformista) di Renzi e quello da “descamisados” forse peronisti, comunque confuso e ambivalente, di Grillo.
   La riforma caldeggiata da Renzi porterà i tre partiti a misurarsi lasciando in lotta al secondo turno (se nessuno abbia il 37% al primo) i due maggiori. Al secondo turno o quelli del Movimento 5 Stelle o  di Forza Italia e “consorti”, avendo come contraltare il PD di Renzi, dovranno scegliere se far vincere Renzi o Grillo o Berlusconi (o chi per lui). A me la cosa piace. Spero che si realizzerà. Non credo affatto che doppio turno o Senato non elettivo fossero proposte del Berlusconi del 2005 battute dal referendum nel 2006; per tacere del loro manifesto presidenzialismo, che qui per ora non c’é. Ma anche se in parte si potesse dire che è latente, altro è una personalizzazione della politica democratica che venga da una destra egemone oppure dal centrosinistra. Sono del tutto diversi. 
   Bondi o altri può ben credere che Renzi sia l’erede di Berlusconi come Blair della Tatcher. Ma a parte il fatto che il vedere Blair come erede della Tatcher non è tanto vero, si tace su differenze abissali tra Berlusconi e Renzi. Si cade sempre nell’antica obiezione toscana: “Se la mi’nonna avesse avuto le rote, sarebbe stata un tramvai”. Se il principale organizzatore del partito di Renzi fosse uno come lo fu Dell’Utri con Forza Italia nel ’94; se Renzi avesse un colossale conflitto d’interessi; se si alleasse con i neofascisti per conquistare Roma; se fosse alleato con forze come quelle ex fasciste o leghiste; se avesse le innumerabili pendenze giudiziarie di quello; se amasse lui pure i festini, eccetera eccetera, sarebbe un novello Berlusconi. Si potrebbe ripetere la filastrocca ricordando le differenze abissali anche verso altri, compresi Mussolini o Craxi.
   Inoltre sinora tutte le cose fondamentali fatte da Renzi sono state di sinistra. Ha subito fatto aderire il PD al Partito Socialista Europeo. Ha fatto un governo paritario tra uomini e donne. Ha dato 80 euro in più al mese a dieci milioni di lavoratori disagiati, impegnandosi a farlo per sempre. Ha persino tassato ben bene le banche per poterlo fare. Fa le Direzioni di Partito “in diretta televisiva”, e ben più spesso di tutti i predecessori. Non deplora neanche quelli che invece di fare gli arbitri, essendo oltre a tutto del PD, come il Presidente del Senato, entrano pesantemente in partita sulla faccenda del Senato, benché l’impostazione contestata sia stata votata da due milioni di “democratici” alle primarie, da svariate Direzioni di partito e dalle riunioni dei gruppi parlamentari. Sinora non sanziona neanche con parole forti senatori che come Chitti, dopo tutti i pronunciamenti di partito e gruppi parlamentari del PD, presentano leggi in senso contrario sul Senato. Dov’è il “duce”, il padrone del partito,  il Berlusconi giovane? – Sogno o son desto? 

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