Il doppio tris del Cinema Italiano

Nuccio Lodato  Città Futura on-line
Le intelligenti considerazioni con le quali, nei giorni scorsi, Matteo Garrone ha finalmente posto fine ai lai un po' squallidi e molto vittimistico-provinciali sul mancato riconoscimento a tutti i tre film italiani in concorso nel verdetto di Cannes, consentono di tornare a parlare liberamente dei titoli interessati, senza perdersi troppo in deviazioni tanto superflue quanto controproducenti.
Le giurie dei festival sono quello che sono: eterogenee, raccogliticce, spesso infarcite di personaggi tanto di sicuro richiamo quanto di discutibile competenza. I loro giudizi sono inevitabilmente, di volta in volta, casuali o effimeri, suggestionabili od opportunistici. In realtà il tallone d'Achille è il concetto stesso, assurdo in arte, della gara, la distinzione tra film "in concorso" o meno, anzi che semplicemente e liberamente selezionati ed
esposti. Direttori di grandi festival come l'amico Barbera a Venezia e il suo amico Frémaux a Cannes (lo conoscemmo di persona in un'indimenticabile serata dedita ai "suoi" Lumiére, celebrati quest'anno anche a Cannes, quando c'era "Ring!"...) sono troppo intelligenti, colti e smagati per non sapere benissimo per primi, in cuor loro, che concorso e giuria sono solo le due facce di una carnevalata cui si deve sottostare per avere quel... concorso mediatico, appunto, che è ormai l'unico metro con cui si misurano il richiamo e l'importanza di una manifestazione, e la sua conseguente "attrattiva" sugli sponsor pubblici e privati appellabili. (L'altra carnevalata, ancora più insopportabile, è il "red carpet" cui ormai tutti si conformano: tentò il '68, a Cannes e a Venezia, si seppellire definitivamente l'una e l'altra aberrazione, ma pochi anni dopo si tornò all'antico, e non stiamo certamente attraversando una temperie proclive al poterci credibilmente riprovare...). Eppure bisogna stare al gioco, come dimostra anche l'assurdo rituale, mesi prima, di annunciare clamorosamente il nominativo (in genere hollywoodiano) del "presidente della giuria" della successiva edizione: "notizia" della quale non frega assolutamente nulla alle persone normali di tutto il mondo.
Non è storia solo di oggi, del resto, quella dell'"ingiustizia" delle giurie. A Venezia, tanto per stare a casa nostra, Visconti fu clamorosamente discriminato proprio nei suoi anni clamorosi (con La terra trema nel '48; con Senso nel '53; volendo anche con Le notti bianche nel '57...) per ricevere un tardivo Leone solo nel '65 con Vaghe stelle dell'Orsa... Antonioni era stato riconosciuto anche lui tardi l'anno precedente, col non irresistibile Deserto Rosso. Rossellini finalmente premiato nel '59 per un film, Il generale Della Rovere, innegabilmente interessanti e stimolante, ma che volendo poteva rappresentare la maniera della sua grandezza da altri inattinta nel decennio precedente (e a Venezia c'era stato con Stromboli, col Francesco e via dicendo) . Per venire ai giorni nostri, Martone è stato clamorosamente ignorato pochi anni fa per Noi credevamo, e nell'ultima edizione col Giovane favoloso, su cui si tornerà più avanti: difficile immaginare che un cineasta possa attingere livelli superiori, e tuttavia la generosità e l'umanità del grande regista di teatro e di cinema napoletano è stata tale da indurlo, in un'edizione lagunare compresa fra le due, ad accettare con entusiamo il ruolo del giurato a sua volta... Pro bono malum: il non-Leone al suo Leopardi grida vendetta ancora oggi.
Del resto Moretti (peraltro già abbondantemente "palmato" all'epoca de La stanza del figlio...) l'aveva detto all'inizio, quando fu data notizia della straordinaria terna ammessa in concorso: "Da Cannes si accetta tutto...". E|Sorrentino è troppo disincantato e uomo di mondo per prendersela, anche se a nostro sommesso avviso, se vogliamo per un momento tornare al tormentone della giuria, è stato il più maltrattato dei tre, col suo stupendo capolavoro e l'interpretazione al di là dell'umano di Michael Caine. In fondo l'aver fatto registrare nel primo week end incassi capaci di umiliare i più roboanti blockbusters in 3D messi in campo in questo insidioso finale di stagione dalla concorrenza è una gran bella soddisfazione: come lo è il constatare che, mentre Moretti mantiene quel suo respiro "nazionale" senza il quale ci sarebbe arduo riconoscerlo, Garrone e Sorrentino, Oscar a parte, si rivelano ormai capaci di "attrarre", loro sì davvero, nuovamente e in via definitiva attenzioni e capitali per un cinema che parli al mondo, come confermano le uscite via via annunciate sia del Racconto dei racconti che di Youth nei cinque continenti, tenendo presente che già lo stesso Mia madre ha collezionato contratti di esportazione in oltre trenta paesi, e non si fermerà certo lì. Per chi conosca le difficoltà che da sempre il nostro cinema conosce -salvo eccezioni sporadiche- per affacciarsi sugli schermi della stessa Europa, a cominciare dalle nazioni confinanti, Francia in testa, tanto per non far nomi, non è davvero un risultato da poco (e dove lo mettiamo il Maraviglioso Boccaccio dei Taviani, rimasti a bocca aperta davanti alla mortificata comunicazione degli importatori... cinesi, che a testa bassa sussurravano che, essendo il loro film adatto a un circuito "di nicchia", in Cina sarebbe uscito soltanto in...tremila copie?!).
Sarebbe interessante, da questo punto di vista, domandarsi perché il pubblico nazionale abbia così vistosamente -e giustamente- saputo premiare Garrone, certo presentatosi con il fulgore della grande coproduzione internazionale fantasy, oltre che con il lustro di Cannes sapientemente sfruttato attraverso la data di uscita (in questo un po' penalizzante Moretti, già circolante da settimane, e Sorrentino stesso, costretto ad aspettarne una in più, ma sfruttante magnificamente il week end di attesa nazionale del poi deludente verdetto...) e non altrettanto i decani toscani (i Fratelli Sublimi, come li chiama con ironia maliziosa Jaen-Marie Straub...) che in fondo avevano condotto su Boccaccio, capostipite di Basile, un'operazione fortemente analoga.
Ma analizzare questa faccenda porterebbe lontani, e sfocerebbe in malinconiche considerazioni sul nostro cinema in generale che, se non fosse sostenuto e ossigenato dagli incassi superiori ad ogni immaginazione di ogni nuova uscita di Checco Zalone, nel suo complesso boccheggerebbe e sarebbe alla canna del gas ancora più di quanto già non sia (il riepilogo complessivo dello sbigliettamento nel primo trimestre dell'anno aveva fornito dati certamente non rassicuranti).
Proviamo invece per una volta, alla faccia di tutto e di tutti, ad avere la sconsideratezza irresponsabile di "pensare positivo". Dal punto di vista della qualità, che è poi ovviamente quello che ci sta a cuore (pur sapendo benissimo che senza gli Zalone oggi, gli Aldo Giovanni e Giacomo ieri, e i cinepanettoni per decenni, e Celentano prima di loro, ecc.ecc., il baraccone nel suo insieme si sarebbe già fermato) il raccolto della stagione 2014-15 è davvero stato clamoroso fino all'irrepitibilità.
Tre capolavori in apertura: Il giovane favoloso di Martone, Anime nere di Munzi e Torneranno i prati di Olmi. Tre in chiusura: i film non a caso ammessi a Cannes. Non succedeva da decenni, e bisognerebbe comunque rifarsi ai tempi d'oro -insuperati e probabilmente insuperabili...- appunto dei Rossellini e dei De Sica, dei Visconti e degli Antonioni, dei Fellini e dei Rosi, per rinvenire, e non di frequente, concomitanze simili.
Ma ancora più straordinario, per fortuna, è il successo cui praticamente tutti questi titoli sono andati e stanno andando incontro: tale addirittura da indurre per un attimo a un peraltro fuggevole e illusorio ripensamento sulle malinconiche considerazioni cui induce il comportamento generale medio dei nostri connazionali (quindi anche nostro, beninteso: a ciascuno le proprie responsabilità, non fossero altro che di mancata reazione...) a cominciare da quello di voto per finire agli stili di vita. Successo reso ancora più straordinario dalla gravitas culturale dei temi e degli autori evocati: Leopardi, Basile, Boccaccio, la 'ndrangheta, la Vita e la Morte.
Un bel gioco infantile tra amici, in questi giorni, è naturalmente quello di graduare le proprie preferenze fra Mia madre, Il racconto dei racconti e Youth – La giovinezza. Proverò appunto ludicamente a dire qui la mia, come tanti fanno anche a voce. Per me il podio, lo dichiaro subito, potrebbe essere: Sorrentino oro, Garrone argento, Moretti bronzo. Ma è un trastullo superfluo e insignificante, va da sè.
Moretti è un cineasta sui generis, indefinibile convenzionalmente e meno ancora catalogabile. Il suo cinema inconfondibile, se pure così poco "cinematografico", o lo si accetta in blocco o lascia fuori. Mia madre è a suo modo un film assolutamente perfetto, nella coerenza con cui sviluppa le proprie premesse, oggettivando esemplarmente, a livello stilistico, il lancinante sottinteso autobiografico, "deviato" con pudore e discrezione estreme sul personaggio femminile così ben sostenuto da Margherita Buy (altra illustre giubilata dalla giuria dei Coen, volendo proprio...). E' giusto che l'autore abbia voluto ambientarla nel mondo che meglio conosce, se pure forse non gli è il più congeniale: quello appunto del cinema. Resta il dubbio di quale sarebbe stato l'esito nel caso di una diversa scelta del contesto di fondo, e da un certo punto di vista La stanza del figlio aveva saputo affrontare il tema del Lutto con un mordente ancora più totale, assoluto. Ma basterebbe il ruolo inventato per la straordinaria Lazzarini (come aveva fatto qualche anno fa Emma Dante con Elena Cotta in Via Castellana Bandiera dal suo romanzos) per far gridare, ancora prima di entrare globalmente nel merito, al risultato assoluto.
Sorrentino e Garrone, dopo la straordinaria accoppiata competitiva di Il divo e Gomorra nel 2008, avevano già dimostrato ampliamente una caratura internazionale attestata rispettivamente da This Must Be the Place e da Reality, per non dire naturalmente de La grande bellezza, di cui Youth ha saputo rappresentare, in un certo senso, insieme, la prosecuzione e l'antitesi. Sorrentino è dotato di una forza di impatto visivo nelle immagini che produce più unica che rara, assolutamente nuova nel cinema italiano (superiore allo stesso Fellini, peraltro largamente debitore, nel proprio sterminato fantastica e inventare, a scenografi e costumisti di rara levatura); Garrone ha dalla sua un'originalità e un'imprevidibilità finora mai smentite da nessuno dei suoi, tutti straordinari, risultati. Ma non vanno dimenticati, si diceva all'inizio, Martone e Munzi. Con loro, e con la precedente generazione di Bellocchio ancora sul set grazie al romanzo di Gramellini, e dello stesso Bertolucci che probabilmente non ha chiuso (mentre Olmi, più volte annunciante il silenzio, dopo I prati ha l'aria di non volersi più impegnare in lungometraggi, come anche il bel corto per l'Expo conferma), il cinema italiano di qualità ha davanti a sè praterie e autostrade. Esattamente come il Fabio Aru regalatoci dal Giro con le due entusiamanti imprese di Cervinia e del Colle delle Finestre.  
A completamento di quanto detto, e in segno di riconoscenza all'amico -e compagno!-
Filippo Boatti per la sua bellissima analisi del Racconto dei racconti qui pubblicata nei giorni scorsi, mi sembra simpatico offrire qui ai lettori cui il film sia piaciuto, ma senza indurre in loro il tempo e la voglia di andarseli a cercare, i regesti del Basile in cui sono riepilogate le tre fiabe del Cunto de li cunti che Garrone ha così magnificamente intrecciate.
Colpisce a prima vista il fatto che tutt'e tre facciano riferimento esclusivamente alla prima delle cinque giornate in cui sono incorniciate le narrazioni: avendo il regista asserito con più di una dichiarazione di non escludere proseguimenti della ricchissima esperienza, la delimitazione iniziale appare di buon augurio e crea aspettativa. Non ultimo dei molti meriti di Garrone, aver fatto venire il desiderio di prendere finalmente in mano il capolavoro del Seicento napoletano, che per tutta la vita abbiamo subìto soltanto come nebuloso ricordo del manuale -neppure dell'antologia...- di storia della letteratura italiana delle superiori. Roberto Calasso e l'Adelphi avevano in verità già provveduto a rimettercelo direttamente a disposizione qualche anno fa, sia pure in edizione -al solito- non propriamente economica, come hanno fatto invece ora con una versione "mirata" direttamente al film. Ma troverete ancora più divertente andare in biblioteca, come ha fatto chi scrive, per mettere le mani sui tre volumetti (1974...) della purtroppo cessata Universale Laterza. Prefazione di Calvino (nella sua tutt'altro che secondaria veste di grande appassionato, raccoglitore ed editore delle Fiabe italiane...), saggio e "versione" di Benedetto Croce, cui si deve, notoriamente, massima parte del recupero e della fortuna del Barocco napoletano. Provare per credere: un'autentica delizia. Già nella prima giornata, ad esempio, vi viene incontro, tra uno stupore e l'altro, anche quella Gatta Cenerentola che è un autentico crocevia centrale del fabulare europeo e da cui Roberto De Simone inventò, più o meno all'epoca in cui usciva quella versione della raccolta, uno dei più bei spettacoli teatrale del Novecento italiano.
Ma ecco i tre regesti, con titoli tutti rinvianti al mondo animale, più favoloso, in sè, che fiabesco: la si è fatta un po' lunga, però anche questo è un tris...
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Giornata prima – Trattenimento quinto

LA PULCE

Un re, che ha poca testa, alleva una pulce, che si fa grande come un castrato; e, avendola poi fatta scorticare, offre la figlia a chi gli sappia dire di quale anomale sia quella pelle. Un orco la riconosce al fiuto, e si prende la principessa, che è poi liberata dai sette figli di una vecchia, con altrettante prove.

Giornata prima – Trattenimento nono

LA CERVA FATATA

Nascono per fatagione Fonzo e Canneloro; e Canneloro è oggetto di invidia da parte della regina, madre di Fonzo, la quale lo ferisce in fronte. Egli se ne parte e, diventato re, incontra un gran pericolo. Fonzo, che per virtù di una fontana e di una mortella conosce i suoi travagli, si reca a liberarlo.

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Giornata prima – Trattenimento decimo

LA CERVA SCORTICATA

Il re di Roccaforte s'invaghisce, al suono del parlare, di una vecchia non veduta, e, ingannato dalla mostra di un dito delicato, la riceva nel suo letto; ma, scoperto poi l'inganno, la fa gittare da una finestra. Restando colei sospesa a un albero, è fatata da sette fate, diventa una bellissima giovane e il re se la prende per moglie. La sorella della vecchia, invidiosa della fortuna di lei, per farsi anch'essa bella, si fa scorticare e muore.

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