Lorenza Ronzano, scrittrice: Quando scrive, sente una strana esaltazione, una specie di agonismo cattivo, strenuo, eccitante


by Pier Carlo Lava
Lorenza Ronzano nasce ad Alessandria, città in cui tuttora vive. Ha insegnato Lettere nelle scuole statali per alcuni anni, poi consegue una specializzazione in filosofia e in psicologia e da due anni svolge la sua attività di consulente filosofico presso il reparto di Psichiatria dell'ospedale civile di Alessandria e presso il suo studio privato. Nel 2013 ha esordito con il romanzo Zolfo, edizioni Pequod. Suoi estratti e recensioni compaiono su riviste online quali "Il primo amore", "La poesia e lo spirito", "Wall Street International". L’abbiamo intervistata, queste le sue risposte alle nostre domande:
Ciao Lorenza e benvenuta nel blog, ci racconti chi sei, dove vivi e che cosa fai nella vita, oltre a scrivere?
Ciao Pier Carlo, grazie per avermi invitata nel tuo blog. Sono nata in Alessandria, dove tuttora vivo con la mia famiglia. Oltre a scrivere, svolgo la mia attività di consulente filosofico presso il Day-hospital psichiatrico dell’Ospedale di Alessandria. In passato sono stata insegnante di Lettere nelle scuole medie e nei licei, ma non mi piaceva molto insegnare, così ho cambiato lavoro.
Tu sei nata ad Alessandria, ci racconti qualcosa della tua città?
Sono molto legata alla mia città, anche se credo si tratti più di un legame ideale che non di un legame effettivo: credo di essermi molto affezionata all’idea della mia città e non alla città stessa, un po’ come succede nei rapporti amorosi, quando s’idealizza l’innamorato. Alessandria si presta benissimo alle idealizzazioni perché si impone poco, è discreta, riservata, ai limiti dell’indifferenza. Alessandria poi mi piace per una questione urbanistica, architettonica: sembra fatta per stare su da sé anche vuota, anche senza esseri umani. La trovo elegante. Io mi sono
sempre immaginata piazza Genova deserta, in una notte d’inverno, addobbata dal ghiaccio e dalle luminarie attorno ai piccoli alberelli a forma di fungo. Il verde delle aiuole oscurato dal buio, le lucine dorate incandescenti, nessuna presenza umana: questo potrebbe già essere il riscatto di tutto ciò che nel frattempo di Alessandria sta degenerando. Un’immagine - ma tanto basta, a volte.
Cos’è per te una scrittrice?
Nel monastero di Assisi c’era un frate con un accento terribile che si trascinava dalla sua Calabria. I confratelli lo prendevano in giro e lui, permaloso com’era, si offese. Fatto sta che non aprì più bocca se non per comunicare un qualche guaio, una disgrazia, un fatto talmente grave da lasciar passare inosservato il suo accento. Ma, siccome gli piaceva parlare, cominciò ad annunciare catastrofi. E, dal momento che era sincero, si spinse fino a provocarle. Per me lo scrittore vero (la scrittrice vera) è come quel frate calabrese. 
Come è nata la tua passione per la scrittura e cosa provi quando scrivi?
Ho cominciato a scrivere tardi, non mi è mai piaciuto scrivere. L’ho sempre trovata un’attività faticosa, poco naturale. Da piccola, alle elementari, comporre i temi era snervante. Quando mi concentravo non mi venivano né i pensieri, né le
parole, sentivo solo il niente che era come il rumore di un pedale schiacciato a vuoto. Se il tema ce lo davano per casa, stavo tutto il giorno con le manine sulla testa. Dopo tre o quattro ore trascorse così, riuscivo a sbloccarmi soltanto per paura del giudizio della maestra. Mi preoccupavo anche del confronto con gli altri compagni, avevo voglia di eccellere, di sentirmi dire “brava”. Insomma, non erano bei sentimenti quelli che mi spingevano a scrivere: erano la paura, la vergogna, la competizione. Riuscivo a scrivere qualcosa di interessante solo per adempiere a un dovere o per stracciare gli altri. Sentimenti cattivi, insomma. A questo modo, però, prendevo sempre bei voti, i migliori di tutta la classe.
Ancora adesso, quando scrivo, sento una strana esaltazione; una specie di agonismo cattivo, strenuo, eccitante. 
Che cosa ti ha insegnato la scrittura?
La scrittura mi ha insegnato a tenere discorsi lunghissimi; scrivere un libro è prendere la parola e tenerla per duecento, trecento pagine. E’ inebriante. Anzi una cosa del genere, di questi tempi, è diventata quasi immorale: la vita di tutti i giorni, le solite occasioni e i soliti contesti non concedono quasi mai al singolo individuo così tanto spazio per sé, per dire la propria. Bisogna stare alle regole della comunicazione, mantenere un dialogo con gli altri, attenersi al buon senso - se ti azzardi a esprimere con una certa convinzione che esistono le manipolazioni climatiche, rischi di beccarti una diagnosi di disturbo delirante paranoide… Comunicazione, civiltà, diplomazia son tutti valori che servono a un dato ordine di cose, alla gestione della socialità per esempio, ma inevitabilmente limitano l’espressività dell’individuo e la portata intera di un’idea, o di un ordine d’idee molto profondo, di cui l’individuo in questione è portatore.
La scrittura mi ha insegnato ad abolire idealmente i vincoli della dialettica, dello spezzettamento dialogico, i limiti del pensiero cresciuto in condivisione. La società contemporanea ha preso il vizio di esaltare troppo certi valori, come appunto questi della condivisione continua, del continuo raffronto di idee: ovunque vai senti parlare di rispetto del pensiero diverso, del valore dell’Altro, dell’importanza del dialogo, dei vantaggi enormi dello sharing... E’ una moda. Se si sta a vedere, dietro a queste idee di per sé rispettabili, poi non si riscontra quasi mai una reale propensione a metterle in pratica: il pensiero condiviso il più delle volte non è altro che una lunga estenuante serie di “pensierini” brevissimi, che uno si trova quasi costretto a cacciar fuori per stare al passo coi tempi, per aggiornarsi, per il dovere di “partecipare”.  Se in qualche modo si viene indotti a sputar fuori la propria opinione tutti i giorni, o più volte al giorno su svariati argomenti, per forza poi non si avrà più l’energia né la spinta necessaria a maturare una visione delle cose più profonda, più acuta, più complessa! 
Bisognerebbe costringersi al silenzio, all’abolizione della parola per generare un’idea davvero diversa, per generare parole più efficaci. 
Come concili la vita di tutti i giorni con la scrittura e quanto tempo le dedichi?
Non scrivo tutti i giorni, perché la cadenza quotidiana mi diluisce troppo le idee: quando mi è capitato di farlo veniva fuori uno stile annacquato, poco incisivo, simile al parlato e alla banalità. Del resto io non sono una narratrice, sono piuttosto una che scrive per vedere se mai la vita, trascorrendo, lasci sul fondo delle pepite da rubare. Tra un narratore e me c’è questa differenza: i narratori di storie possono anche scrivere tutti i giorni – c’è sempre qualcosa da raccontare – perché sono come bagnanti che amano il fiume; io invece sono come quei cercatori d’oro: non amo il fiume, lo setaccio. 
Ci vuoi parlare di quello che hai scritto sinora?
Ho scritto due romanzi, “Zolfo” – che presenterò il 24 marzo a Milano assieme allo scrittore Antonio Moresco - e “Il buon auspicio”. Il primo, edito da Italic-Pequod pochi mesi fa, è un libro incentrato sulla superbia, sul conflitto tra l’uomo e la vita. La vita - quella che per Leopardi è la Natura - è perlopiù indifferente al destino dell’uomo, e continua a fare il suo lavoro indisturbata. L’uomo, con le sue peculiari esigenze e aspettative, presto rimane ferito dalla vita, dal male naturale. Ognuno poi, a proprio modo, cerca di opporsi a questo male: Leopardi con la magnificenza del suo lamento si impone con tutta la sua opera, e crea o meglio ammanta il creato di una seconda natura cosciente, sensibile. Giobbe invece, più razionale, chiede perché, vuol sapere, domanda, si fa le sue ragioni; allora chiama in causa Dio, gli fa addirittura un processo. 
Il mio romanzo racconta dell’ennesimo tentativo umano di risolvere questo conflitto: la protagonista di fronte al male del mondo non si lamenta, né chiede ragioni, ma sceglie di fare a gara, di fare un braccio di ferro con la vita stessa. La protagonista accetta la partita e rilancia: la vita fa male? Bene, allora lei si allena a diventare peggiore della vita, concepisce il peggio a confronto del quale il male non può che impallidire, svanire. Questo è il pensiero dominante del libro. 
“Il buon auspicio” è invece un romanzo che tratta del corpo e delle sue estensioni – gli altri corpi, la casa, la città, gli oggetti, ma anche le idee prefiguratorie che modelleranno il corpo-mondo futuro. E’ un libro che oscilla tra il senso d’onnipotenza della protagonista - che tenta di inscrivere tutto il mondo nel suo corpo, assorbendo e annullando in sé ogni differenza - e lo scacco inevitabile della follia, data l’impossibilità da parte dell’essere umano di “sopportare troppa realtà”. 
Go, go, go, said the bird: human kind
Cannot bear very much reality
diceva Eliot in “Four Quartets”.
Nella vita sei consulente filosofico presso il reparto di Psichiatria dell'ospedale civile di Alessandria e presso il tuo studio privato; un’attività interessante, ce ne vuoi parlare?
Sì, è un’attività che amo moltissimo, perché aiuta le persone a riappropriarsi dei significati della loro esistenza. Se la diagnostica psichiatrica e la farmacologia servono a catalogare un genere di disturbo in base ai suoi sintomi e a somministrare una cura, la mia attività consiste invece nello stimolare i pazienti a chiedersi come mai quel disturbo è nato, e che cosa una sofferenza sta a significare. Ippocrate ha detto: “E’ molto più importante conoscere il paziente che ha la malattia, che non la malattia che ha il paziente”. Molte persone arrivano in psichiatria perché stanno male, soffrono. Ma soffrire per qualcosa, avere un problema non sempre equivale ad avere dei disturbi mentali. Il dolore può essere indicativo anche di un cambiamento interiore, di un processo di assestamento della personalità, oppure può derivare da problemi socio-economici. E’ questo che io cerco di far capire, di far distinguere a chi arriva da me. 
Alcuni tuoi estratti e recensioni compaiono su riviste online quali "Il primo amore", "La poesia e lo spirito" e "Wall Street International", ce ne vuoi parlare?
Sì, a volte scrivo recensioni e brevi saggi critici sulla letteratura contemporanea, allora mi capita di pubblicarli on-line, perché è un canale veloce, adatto a questo genere di scritti. “Il primo amore” è una rivista letteraria che seguo da tempo. Tra i suoi fondatori c’è Antonio Moresco, uno scrittore che apprezzo moltissimo per aver ricondotto in primo piano la qualità umana e morale della scrittura, prima ancora di quella intellettuale-letteraria. WSI è una rivista americana che ospita al suo interno sezioni dedicate a varie nazionalità, tra cui appunto anche quella italiana. Dà spazio ad articoli sulla cultura, sulla letteratura, sulla musica, sulle arti, ecc. E’ interessante. 
Come vedi il presente e il futuro della cultura nel nostro paese?
Oggi in Italia purtroppo non c’è un’unica cultura forte e compatta cui affidarsi: ci sono da una parte i grandi circuiti produttori e riproduttori di cultura – le università, gli ambienti accademici, i media, il mercato artistico, la ricerca medico-scientifica – e dall’altra parte c’è la stragrande maggioranza della popolazione, che vive più che altro nel mito della cultura, nel miraggio e nel ricordo di un passato culturale glorioso ormai trascorso, esausto. La cultura, per i più, non è un modo di vivere, non si traduce in uno stile di vita, in un’etica - così come dovrebbe - è invece soltanto un “santino”, un’immaginina sacra da tenere sul petto, da tirar fuori e baciare per sentirsi sempre a casa, sempre al sicuro. Voglio dire che attualmente in Italia – ma forse non solo qui in Italia - c’è un enorme scollamento tra le élite produttrici di cultura e l’effettivo stato di evoluzione civico e culturale del nostro paese, della nostra popolazione. Ciò che distingue e indica il vero sviluppo culturale di una civiltà non è tanto il continuo perfezionamento tecnico, il continuo progresso e la continua innovazione delle varie discipline, ma il graduale processo attraverso il quale questi progressi riescono a impollinare la sensibilità collettiva. Ciò che importa non è il continuo superamento di un traguardo, ma che l’innovazione tecnica o concettuale esca dal dominio astratto in cui è nata per penetrare nelle norme societarie, andando a imprimersi in ogni singola coscienza che col tempo sia in grado di riproporre da sé, come spontaneamente. La cultura ha bisogno di diventare, poco a poco, natura, comportamento naturale. E’ inutile che le ricerche in ambito accademico continuino ad affinarsi, quando la collettività non riesce ad assorbirle. In Italia purtroppo accade sempre più spesso che le innovazioni e i progressi di una disciplina rimangano confinati in essa come trofei di caccia da mostrare al pubblico e di cui vantarsi, e così la cultura - peraltro raffinatissima - continua ad arrancare come un treno a vagoni nei suoi compartimenti stagni. Bisognerebbe fare in modo che la cultura non venga solo “prodotta” – visto che si vuol sempre parlar di mercificazione… – ma anche consumata e integrata agli organi sociali, in modo che il corpo collettivo possa trarne forza e nutrimento, non già soltanto ossequi e gravità di pensiero. 
Un esempio di questo scollamento? Negli anni ’60 del secolo scorso imperversava la cosiddetta body art, in cui i corpi venivano martoriati, esposti, avviliti, glorificati, ecc., tutto nel tentativo di profanarli e di strapparli a quei vincoli millenari che li volevano intatti, pudici, riservati alle funzioni riproduttive e lavorative – in una parola, alle funzioni economiche. Questo movimento è stato osannato, biasimato, studiato, mal tollerato, criticato, digerito, ecc., e in buona fine è entrato a far parte della cultura ufficiale e dei circuiti-bene della storia dell’arte. Insomma, ogni persona con una cultura media oggi sa di cosa si tratta. Ebbene, ma a un livello di cultura effettiva, di etica sociale, che cosa è cambiato? Che cosa ne è oggi dei nostri corpi nella vita di tutti i giorni? Non è cambiato niente. Se ci sfioriamo in un autobus affollato ci guardiamo di sbieco e ci premuriamo di scusarci a vicenda, poi di notte andiamo a puttane, ci masturbiamo, ci tradiamo.
Che cosa ne pensi della situazione di Alessandria?
Penso che Alessandria sia vecchia decrepita e che - com’è naturale che sia – stia morendo. Il futuro? Non potrà che rinascere.
Stai già scrivendo il tuo prossimo libro, ce ne puoi parlare?
Sì, sto scrivendo un romanzo che s’intitola “Tempo presente”. E’ un libro incentrato sull’ossessione per il tempo, in cui la protagonista si rifiuta di riconoscere un’unità di riferimento costante per misurare il tempo, così il filo degli eventi si sfalda, e la realtà non sta più insieme. Il passato e il futuro si allungano o si contraggono a dismisura, fondendosi, perdendo così il loro specifico ruolo, che è quello di generare conoscenze, ricordi e speranze. La protagonista allarga la portata temporale fino a un arco enorme, in cui il principio del mondo le appare come la mattinata dell’unico giorno che si sia mai svolto, e che lei stessa sta vivendo. C’è in tutto il libro un sentore apocalittico, il senso di un’unica, assoluta attesa. 
E’ un libro sull’impotenza umana, sulla frustrante condizione di sentirsi ai margini di qualcosa d’immenso; allo stesso tempo è un libro sui prodigi e sulle manie di grandezza che l’uomo arriva a escogitare per prendersi una piccola, ridicola rivincita su questa impotenza: la certezza-illusione di partecipare a questa immensità.
Programmi per il futuro e sogni nel cassetto?
Sì, ne ho - ma sono superstiziosa, non dico gatto finché non è nel sacco.

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