Letta, un coraggio al di sotto del 3%


Alessandria: Mauro Fornaro, Città Futura
Il coraggio è il giusto mezzo tra viltà e temerarietà: così la definizione dell’immortale Aristotele. Ma quando il coraggio sconfini nella temerarietà non è dato sapere a priori, bensì solo a fronte di concrete circostanze: laddove queste sono all’insegna di particolari criticità, ciò che in altro momento è immotivato azzardo, in quelle circostanze diventa il necessario coraggio dell’osare. E dato che nelle circostanze concrete non sempre è evidente il giusto mezzo, ancora Aristotele insegna che occorre la saggezza per discernerlo.
Ora il nostro Presidente della Repubblica, cui pur non si può misconoscere una dose di saggezza, nell’intervista concessa al direttore del “Sole 24 Ore” il 18 ottobre u.s. afferma di temere che il coraggio, invocato da molti come necessario per far fronte all’attuale situazione economico-sociale – e rinfacciato al governo Letta come mancante nella recente legge di stabilità finanziaria – non sia che una richiesta «retorica». Infatti il coraggio troppo facile, prosegue Napolitano, diventa «coraggio poco responsabile» se non tiene conto di «vincoli e condizionamenti oggettivi che non si possono aggirare». Sullo stesso tono di acritico sostegno alla “saggezza” del Presidente, che in verità manca di fare i necessari distinguo, spiace trovare anche Eugenio Scalfari nel successivo editoriale di “Repubblica” di domenica 20 ottobre. I condizionamenti inaggirabili cui entrambi alludono sono evidentemente i vincoli di bilancio fissati dall’impegno, già sottoscritto dal governo Berlusconi dopo i severi richiami delle autorità europee a fine 2011, di non superare il tetto del 3% del rapporto deficit/PIL. Ma dove sta la
saggezza e dunque il vero coraggio nell’attuale contingenza?
Non è inutile ricordare una volta di più che quel tetto, divenuto da noi un paravento per bloccare tante misure necessarie alla crescita economica e all’incremento dell’occupazione, è un numero arbitrario dal punto di vista economico: non ha valore, se non come convenzionale termine di riferimento suggerito dai trattati di Maastricht; anzi è controproducente insistervi, a parità di altre condizioni, nei periodi di grave recessione. Di più, detto tetto, assieme all’altro del 60% del rapporto debito pubblico/PIL, sconta il fatto di essere stato posto come prioritario rispetto ad altri parametri a seguito della preoccupazione monetaristica di preservare la forza dell’euro e di contenerne al massimo l’inflazione – è il noto incubo nella psicologia collettiva di popolo e governo tedeschi.  Un tale vincolo – anche se è sbagliato privilegiare l’Europa della moneta a scapito dell’Europa dello sviluppo e dell’occupazione – poteva essere cosa comprensibile in quegli anni Novanta, nei quali non era in primo piano la questione della crescita e dell’occupazione, ma da allora la situazione in Europa è profondamente cambiata. Da ultimo va ricordato che il vincolo è stato violato dagli stessi maggiori Stati contraenti, Francia e Germania, attorno al 2004/05 in circostanze di particolari difficoltà manifestatesi al loro interno. Non ha dunque senso economico, ma neppure finanziario alla fin fine, fare del tetto del 3% una sorta di linea del Piave, superata la quale ci sarebbe il disastro – se non appunto le procedure di infrazione stabilite sempre dalle mere convenzioni pattuite in sede europea.
Ora non v’è dubbio che l’indicazione di quel limite alla spesa pubblica abbia il risvolto positivo di obbligare a limitare sprechi e corruzioni in enti e istituzioni pubbliche, di incentivare l’efficienza, il ricupero dell’evasione fiscale, ecc.; ma è anche vero che queste misure per essere efficaci e dare risultati quantitativamente significativi richiedono tempi lunghi, tempi che non sono concessi dalla gravità della nostra attuale situazione occupazionale ed economica. Al contrario, le misure shock di cui avrebbe ora bisogno l’economia nazionale per riprendersi dalla recessione (un assai consistente taglio del cuneo fiscale, una forte detassazione sulle imprese produttive in modo da rendere il regime fiscale competitivo con quello praticato da altri Stati, ecc., una rapida restituzione dei crediti vantati dalle imprese verso la P.A, incentivazioni e investimenti pubblici alla micro e alla macroeconomia, ecc.) richiedono nell’immediato un impegno finanziario ben più consistente di quanto possa essere consentito nel breve dalla spending review, e poi da limature nei bilanci di ministeri, sanità, Regioni ed Enti locali, o dal ritocco in aumento di imposte ed accise. L’impegno del governo Letta va certo, con la suddetta legge di stabilità, nella direzione di un contenimento della spesa e di un certo rilancio dell’economia, ma in misura troppo timida: è significativo che al coro di quanti da tempo avanzano il medesimo tipo di critiche al governo (sindacati, industriali, parte della destra e della sinistra) si sia unito niente meno che Mario Monti , l’interprete a suo tempo di un duro rigore (… ogni stagione ha i suoi momenti). Ma, ed ecco il punto chiave del mio argomentare, non c’è da farsi illusioni: se si vogliono davvero misure forti, tali da permettere una svolta economica e occupazionale (e alla lunga un miglioramento della stessa finanza pubblica), è impossibile avere ad un tempo, pur con tutte le alchimie adottabili,  la botte piena del rispetto del tetto del 3% e la moglie ubriaca della crescita e dell’occupazione.
E dunque difficile comprendere l’ossessione di stare entro un tetto che appare nella situazione di recessione del nostro Paese un vincolo altresì controproducente, come meglio potrebbe illustrare su questo giornale chi più di me sa di economia. Non si tratta certo di chiedere la secca e mera violazione dei patti coi partner europei – per giunta a un Letta che caratterialmente non pare un cuor di leone dell’azzardo, piuttosto un mite uomo di mediazione, tanto sicuro di sé che… a ogni temporale deve cercare riparo in chi l’ha chiamato al ruolo. Piuttosto occorre un leader e dietro di lui un governo che nelle sedi europee sappia caparbiamente levare la voce al fine di aprire una stagione di costante e duro confronto per ricontrattare quei vincoli, o almeno per sospenderli. Certo, prospettando ai partner europei – anzi iniziando a mettere in atto – una inevitabile forzatura del tetto suddetto onde render possibile un’effettiva svolta di politica economica, non possono non essere loro offerte chiare contropartite, in un’ottica altresì di successivo rientro nel tetto. Alludo all’avvio di quelle riforme strutturali (a partire dallo snellimento della giustizia civile su cause di lavoro e di contratti, per arrivare alla riduzione degli oneri burocratici per fare impresa, alla semplificazione del mercato del lavoro, ecc.) atte a favorire gli investimenti, la ripresa economica e dunque la crescita nel nostro Paese – così da consentire in un secondo tempo un rientro nei limiti del deficit che però non “ammazzi il malato”.
Che mettere in discussioni  trattati e patti non sia per nulla un tabù – ed ecco la notizia tutta fresca – è vistosamente attestato dal fatto che la Merkel sarebbe intenzionata a proporre ai partner europei… un irrigidimento delle misure atte a contenere i deficit dei Paesi meridionali spendaccioni. Ora non è il caso qui di entrare nelle alchimie della politica interna tedesca e dei giochi di posizioni nel difficile negoziato della CDU con l’SPD per rieditare la grosse Koalition. Resta il fatto che la richiesta di modifiche degli accordi è suscettibile di esser posta all’ordine del giorno nelle competenti sedi europee: se gli eventi si svilupperanno davvero in questo senso, è prevedibile vi si apriranno duri bracci di ferro, date le reazioni allarmate che la ventilata proposta Merkel sta suscitando nei partner europei. In quelle sedi e nei relativi consessi è certo utopistico e comunque velleitario che un Letta, semmai diventasse “cuor di leone”, possa da solo battere i pugni sul tavolo. Ecco allora che entra in gioco, assieme all’abilità politica, il coraggio di porsi alla testa di iniziative volte a proporre opportune revisioni degli accordi, nonché la tenacia di tessere alleanze fruttuose coi Paesi afflitti da analoghi problemi di decrescita e di deficit –  ben inteso senza complessi da secondi della classe o ancor meno, a fronte della virtuosa Germania, per altro avvantaggiatasi non poco dai guai altrui. Qui un ruolo decisivo potrebbe e dovrebbe svolgere la Francia, facendosi interprete di una politica davvero mirante a crescita e occupazione, se non fosse purtroppo per le ambiguità del presidente Hollande (che ricordavo in un intervento su queste pagine, l’8 luglio u.s.). Doppio coraggio dunque, caro Letta, tanto più che se prendessi in Europa posizioni forti come quelle qui auspicate, i più ti seguirebbero, da sinistra come da destra.
  


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