Persona, Marco Ciani

by, Marco Ciani
Traggo spunto da un dialogo di qualche giorno fa con un amico. Stavamo discutendo della crescente ondata di razzismo che investe l’Italia, e non solo, a fronte dei noti problemi legati agli sbarchi e all’immigrazione, compresa quella legale.
In particolare commentavamo il triste episodio di violenza avvenuto sulla spiaggia di Rimini. Un delitto gravissimo, per il quale c’è solo da augurarsi che i responsabili vengano consegnati alla giustizia e severamente puniti. Indipendentemente da ogni altra considerazione.
La cosa alquanto stupefacente è che i commenti di gran parte dell’opinione pubblica non parevano tanto interessati al crimine in sé e alle sue vittime, quanto al fatto che i suoi autori siano stati individuati come originari del Nord Africa. Mi sembra abbastanza evidente che lo stesso tipo di reazione non si manifesta quando a commettere brutalità sono i nostri connazionali.
Ciò che è accaduto ha spalancato le porte ad una canea di commenti xenofobi. Semplifico: siamo invasi da africani di etnia araba e religione musulmana, tutti invariabilmente palestrati e delinquenti, nonché mantenuti a spese dello Stato, compreso il cellulare di ultima generazione.

Con questa immagine basata sui luoghi comuni più triti, veniamo costantemente martellati da programmi televisivi e servizi giornalistici, sostenuti nella battaglia da legioni di fiancheggiatori via social network. Qui, in mezzo a persone oneste, troviamo anche dei veri e propri banditi, di norma legati alla galassia neo/fascista, che costruiscono e diffondono in rete bufale informatiche, perché il loro fine giustifica i mezzi.
Non mi soffermo sul relativo corollario di offese alla Presidente della Camera (ormai responsabile secondo il neo/squadrismo montante di qualunque atto compiuto dagli stranieri sul suolo nazionale e dunque meritevole dei più efferati epiteti, quasi sempre a sfondo sessuale), al governo e al Vaticano, in primis Papa Francesco, rei di incoraggiare l’immigrazione per specularci sopra.
Se volessimo stare sul merito, in realtà gli episodi di violenza nei confronti delle donne – non di rado mortali dato l’alto numero di femminicidi nel nostro Paese – sono perpetrati in gran parte da italiani, spesso con legami parentali o simili con le sfortunate vittime e all’interno delle mura domestiche. Ma, come dicevo poc’anzi, dovremmo piantarla di utilizzare queste distinzioni. La persona per bene è tale indipendentemente da ogni altra considerazione. Altrettanto il criminale.
Ciò, sia chiaro, non vuol dire giustificare niente e nessuno, o sottovalutare i problemi, spesso gravi, di sicurezza che affliggono le nostre città. E nemmeno significa negare le difficoltà connesse alla gestione dei flussi di stranieri che arrivano nel nostro Paese. Ma non si può fare di ogni erba un fascio secondo le convenienze più settarie.
Ad ogni modo, tornando alla chiacchierata col mio amico, io argomentavo (come uso fare di consueto) ricorrendo a dati e statistiche. Il mio conoscente, assai più perspicacemente, mi interrompeva per due volte ricordando: “il problema è che non pensano che sono persone”. Al secondo tentativo ho capito perfino io (sono un po’ duro ma alla fine ci arrivo).
Aveva ragione. E’ perfettamente inutile provare a convincere sulla base delle cifre e dei calcoli, secondo una contabilità ragionieristica, che non può persuadere nessuno. E forse è perfino fuori luogo parlare di «risorse», come hanno fatto in buona fede ma suscitando veementi reazioni sia Laura Boldrini, che il presidente dell’Inps Tito Boeri. Non perché non sia giusto conoscere i fatti, avendo ben chiaro che una cosa sono gli elementi oggettivi e un’altra le opinioni. Al contrario, tale distinzione rimane fondamentale in una nazione come la nostra fondata sul “si dice”. Se però manca la condivisione di una base valoriale, di un sostrato etico, è inutile discutere di numeri.
E allora cerco di riprendere il filo partendo da questo nuovo presupposto: se pensassimo agli altri, in questo caso agli immigrati (ma potremmo dire alle donne, ai poveri, agli anziani, ai malati, insomma a tutti i soggetti potenziali vittime di discriminazione o di violenza) come persone – se ci immaginassimo al loro posto – forse avremmo un approccio diverso. Più umano e ragionevole al contempo.
Ma cosa intendiamo dire quando parliamo di persone?
Credo che dovremmo partire dal significato di questa parola, dal suo etimo. «Persona» ha diverse declinazioni collegate tra loro (greca, etrusca, latina) ma in tutti e tre i casi indica il volto dell’individuo e/o la maschera indossata dall’attore, il personaggio che egli interpretava; una maschera di legno che, nei teatri antichi dove l’acustica poteva essere carente, oltre a coprire fungeva anche da amplificatore della voce (in latino per-sonàr, risuonare attraverso).
La cosa interessante di questa definizione è che pare indicarci una chiave interpretativa: non è possibile distinguere l’essere umano dalle sue condizioni concrete, per come ci appaiono. Detta in un modo ancor più terra terra: noi conosciamo le persone attraverso i loro «panni», le loro sembianze. Non è una percezione im-mediata. Al contrario. Anche l’espressione popolare ce lo suggerisce: «mettiti nei miei panni», o come dicono gli inglesi «cammina nelle mie scarpe». Insomma…«prova a indossare la mia maschera».
Una maschera può suscitare simpatia, paura, derisione, disprezzo, a seconda delle sue fattezze. Ma anche a seconda di come la vede lo spettatore. Questo vale anche per la persona. Se ci pensiamo, capita anche a noi. A qualcuno siamo simpatici, ad altri no. Probabilmente ci sarà chi ci trova amabili, intelligenti, generosi e magari chi pensa l’opposto. Eppure siamo sempre noi.
Cosa significa tutto ciò? Significa che il rapporto tra persone è sempre un rapporto dialogico. Come io vedo un altro essere umano dipende dall’altro, ma dipende anche da me. Dagli occhi con cui guardo. Dalle idee che mi sono fatto. Dai miei pregiudizi. Dai miei valori. Dall’educazione che ho ricevuto. Dai sentimenti che suscita dentro di me. Non esiste un modo unico di considerare il prossimo, ci sono al contrario maniere diverse di percepirlo.
Taluni confondono i termini “individuo” e “persona”. Li considerano sinonimi. Ma non è così. Il filosofo tedesco di origine ebraica Martin Buber parlava di coppia Io-Tu. E sosteneva che quando si pronuncia il Tu, si pronuncia anche l’Io della coppia Io-Tu. Ma aggiungeva un’altra cosa. Esiste anche la coppia Io-Esso. Che è diversa. Pure quando si pronuncia l’Esso, si pronuncia anche l’Io, ma in questo caso di un’altra coppia, la coppia Io-Esso.
Tu ed Esso, nella concezione buberiana, sono sempre accompagnati dall’Io, ma è l’Io a scegliere con quale dei due termini unirsi. L’io della coppia Io-Esso sta alla base dell’individuo. Mentre l’Io della coppia Io-Tu sta alla base della persona. L’individuo appare in quanto si distingue da altre individualità. La persona appare in quanto entra in relazione con altre persone.
Oggi siamo portati dalla società, dalla crisi delle grandi narrazioni improntate alla solidarietà, sia di origine religiosa che laica, a forme esasperate di individualismo. Che a volte assume anche i connotati di un egoismo di gruppo, in una riedizione della hobbesiana lotta tra branchi di lupi. L’insistenza che la società pone sul singolo, soprattutto per scopi di natura commerciale, lo richiede. Ma questo è un veicolo sicuro per cadere preda delle paure. Credo sia difficile raggiungere una qualche forma di serenità nell’isolamento.
Al contrario, abbiamo un termine particolare per identificare il ponte tra me e l’altro da me. Si chiama empatia. L’enciclopedia Treccani la definisce «Capacità di porsi nella situazione di un’altra persona o, più esattamente, di comprendere immediatamente i processi psichici dell’altro». Ecco, io credo che la società attuale difetti di empatia.
Siamo tutti troppo concentrati su noi stessi. Senza considerare che esistono «gli altri», e che noi stessi siamo altri per gli altri. Questa fragilità dei rapporti, a mio modo di vedere, produce almeno tre effetti. Il primo è che siamo spesso più soli e infelici. Il secondo che aumenta il nostro livello di insicurezza, esistenziale ancor prima che reale. Il terzo che per tentare di placare l’ansia dobbiamo individuare dei capri espiatori sui quali scaricare le nostre frustrazioni. Intenet e i social si prestano ad amplificare tutto ciò.
E dunque, una via di uscita ragionevole finalizzata a ridurre l’ingiustificata aggressività che sprigiona dall’ansia sociale sta nel produrre esempi positivi e comunicarli. Esempi che diffondano per l’appunto empatia, senso di appartenenza al genere umano e che mostrino la scarsa fondatezza di molti timori. Anche se questi sono spesso alimentati a dismisura. In taluni casi da eventi dolorosi ad alto impatto televisivo, come gli attentati terroristici. In altri, da politici senza scrupoli, per fini elettorali. Purtroppo, per ora, in entrambi i casi, con un certo successo.
I riferimenti costruttivi invece esistono ma non fanno rumore. Penso ad alcune iniziative sindacali a cui mi è capitato di prender parte o comunque di seguire; penso all’opera meritoria di assistenza che istituzioni religiose e civili svolgono spesso nel silenzio dei media; penso anche ai progetti di svariate associazioni sempre poco note ma ugualmente preziose. Bisognerebbe farle conoscere di più, per invertire il mainstream della paura.
Non ricordo invece analoghe azione da parte di coloro che abitualmente seminano odio.
E’ quindi naturale che spesso chi svolge attività utili all’integrazione, pur esercitando tale compito per coerenza con le proprie convinzioni e traendone comunque una soddisfazione personale, abbia la sensazione di essere poco apprezzato o valorizzato. Non è così. Non dovrebbe esserlo. Io continuo a credere nella possibilità delle persone di riconoscere che gli aspetti che uniscono sono decisamente maggiori dei fattori di divisione, malgrado i problemi, spesso gravi, che affliggono le nostre società. E che nessuno nega.
Non penso del resto ci siano molte alternative. Anche se nella grande osteria globale che contraddistingue il nostro tempo, dove chi urla più forte o agisce con aggressività sembra avere più voce in capitolo, io ritengo che un paziente lavoro di tessitura possa dare i suoi frutti. In modo forse discreto ma efficace.
Non si tratta di «buonismo», un’accusa infondata che parte dal presupposto che chi ragiona in questi termini sia o in malafede, o ingenuo. E’ ingenuo semmai pensare di risolvere i problemi con le invettive o invocando muri, fili spinati e società di polizia, senza capire che i problemi complessi non si risolvono con soluzioni banali. La sicurezza fisica è certamente un aspetto importante e anzi necessario. Ma irriducibile al solo uso della forza.
Non credo desiderabile un conflitto permanente fondato sul terrore del prossimo. Non immagino sia una prospettiva che si può accettare. Ecco perché riprendere in mano la questione dalla persona, dalla sua dignità, dall’essere umano in relazione con altri esseri umani. Al di là delle differenze di razza, di etnia, di religione, di classe sociale, di genere, di età, di condizione. Distinzioni che esistono certamente e non vanno né abolite, né considerate indifferenti. L’incontro è tale perché è un riconoscersi tra diversi, ma diversi che condividono la stessa natura. Completandosi.
Dovremo reimparare a dialogare. Essere persone significa, in fin dei conti, agire gli uni verso gli altri in spirito di fratellanza.




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