10 anni di Appunti Alessandrini

Dialogo ● con Agostino Pietrasanta (a cura di Marco Ciani)
(Nel decimo anniversario della prima uscita, allora in forma di newsletter di Ap, proponiamo ai lettori un dialogo con il nostro Coordinatore, Agostino Pietrasanta, per un bilancio ed una prospettiva futura. Con l’occasione ringraziamo tutti coloro che con attenzione ed affetto ci hanno seguito in questi anni. La vostra presenza e le vostre osservazioni sono molto utili per provare a migliorare la pubblicazione. Ringraziamo anche tutti i collaboratori, fissi o saltuari, che hanno contribuito ad arricchire il nostro lavoro con le loro proposte. Nella speranza di restare assieme ancora per molto tempo, vi auguriamo buona lettura. La redazione di Ap).
Sono passati 10 anni dal primo numero di Appunti Alessandrini. Direi un tempo sufficiente per trarre un bilancio. Partirei perciò da quella che fu, almeno a mio parere, la principale fonte di ispirazione; un concetto che ti avevo sentito richiamare in più di un’occasione: quello di “afasia”. Lo abbiamo messo anche nella nostra presentazione.
Afasia, ovvero mancanza di parola, cioè mancanza di discussione, di dialogo, di confronto tra partiti o visioni diverse dello stare assieme (infatti e non a caso, intorno al logo di Ap, abbiamo apposto la dicitura “per un dibattito politico”).
La nostra piccola pubblicazione si poneva come obiettivo quello di provare a rompere il silenzio, un silenzio a volte chiassoso, verboso, ma sostanzialmente privo di contenuti intorno alle cose della politica, sia quelle locali che nazionali, o in taluni casi, persino extra/nazionali.
E allora la prima domanda non può che essere questa: ritieni che siamo riusciti a conseguire lo scopo che ci eravamo prefissi? Ti ritieni soddisfatto, sotto questo profilo, o pensi al contrario che abbiamo mancato, magari anche solo parzialmente, il bersaglio? O che magari avremmo potuto fare qualcosa di diverso?
Serve precisare. Siamo partiti tenendo conto del riferimento di fondo che tu hai richiamato: sopperire ad una difficoltà di dialogo in campo politico, in genere. Tuttavia tra coloro che si sono impegnati c’erano alcune firme del giornale diocesano che temevano di coinvolgere la Chiesa Istituzione nella parte politica di riferimento, il centro/sinistra. Per questo era necessario uno strumento libero: certo di ispirazione cristiana, ma aperto ai contributi compatibili e confrontabile con una linea ideale definita.
C’era anche l’esigenza di dibattere, al di fuori della rissa che già dieci anni fa costituiva un registro devastante del confronto politico; si pensava che la banalizzazione delle questioni oscurasse la sostanza dei problemi sul tappeto. Nel contempo c’era l’esigenza di dialogare con culture politiche diverse dal cattolicesimo democratico cui facevamo riferimento editoriale: culture cospicue ed esigenti che sembravano non accorgersi del contributo offerto dal Movimento Cattolico Italiano e dalle sue possibilità ed intenzione di un libero confronto.

Mi chiedi se ci siamo riusciti. Rispondo senza raggiri. L’obiettivo di superare la rissa politica o almeno di offrire contributo per il conseguente superamento è completamente mancato; la strada del confronto con diverse culture politiche, in loco rappresentate da personaggi di grande respiro culturale, ha portato risultati concreti. Nel contempo ci siamo trovati ad interpretare un confronto con le tesi laiche, a mio avviso, non prima sperimentato; contestualmente abbiamo sofferto una diffusa, anche se non massiccia, sordità (afasia?) delle componenti sedicenti cattoliche, secondo identità predefinite, più che motivate dalla ricerca. Oggi, purtroppo, il nome di cattolico, nella Chiesa locale, non significa prevalentemente Comunità, ma movimentismo identitario ed esclusivo.
Certo si può sempre fare qualcosa di più e di meglio; nella sostanza però abbiamo seguito l’itinerario ed abbiamo risposto alla ispirazione che ci ha fatto intraprendere una piccola, ma convinta azione di impegno.
Bene. Appunti Alessandrini però non è un blog generico. Nel senso che il nostro orientamento è sempre stato chiaro (e dai riscontri esterni, anche riconoscibile) fin dall’inizio: noi ci ispiriamo al cattolicesimo democratico. Anche se dopo il rinnovamento di una parte dello Staff, abbiamo aperto le porte ad altre culture, purché compatibili con la visione principale.
Del resto, nel corso degli anni, Ap ha ospitato anche molti interventi di persone che provenivano da altre esperienze, in alcuni casi anche con impostazioni contrapposte, ma disponibili al confronto. E del resto, la dialettica la si fa con chi non la pensa esattamente come te, altrimenti si ridurrebbe a un monologo.
Detto ciò e tornando al cattolicesimo democratico, questa idea di politica radicata nella dottrina sociale della Chiesa, eppure rigorosamente laica, pare ormai estinta o ridotta al lumicino. Anche, banalmente, perché per esserci il cattolicesimo democratico dovrebbero prima esserci i cattolici.
Vorrei chiederti come la vedi su questo punto, se siamo ormai all’Amarcord o se invece rimane ancora una possibilità di futuro e come, con quali strumenti, quali modalità, quali punti di riferimento.
Sembra che la linea editoriale e l’orientamento di Ap venga riconosciuto dai nostri lettori, ma soprattutto dagli amici di altre pubblicazioni on-line presenti sul territorio nonché dai “porta/voce” editati talora anche di livello nazionale che si richiamano al cristianesimo sociale ed al cattolicesimo democratico.
In uno dei miei ultimi “domenicali” (le note settimanali pubblicate il sabato pomeriggio) o editoriali ho tentato di far sintesi delle tradizioni di cultura politica che dovrebbero dar senso alla linea di Ap: il cattolicesimo liberale, il popolarismo sturziano ed il cristianesimo sociale/solidaristico. Se ci addentriamo nel merito, in queste tradizioni possiamo trovare sia prospettive identitarie, sia possibilità dialettica e confronto con culture e tradizioni “altre” essenziali della “politica alta” della nazione. Intanto il solidarismo e l’attenzione ai più deboli, poi la necessità di promuovere le risorse umane o se vogliamo i meriti individuali per la crescita a servizio del cittadino; a proseguire, la possibilità data a tutti e ciascuno di concorrere alla determinazione delle scelte politiche, la perfetta laicità (preferirei chiamarla, seguendo Luigi Sturzo, aconfessionalità) infine la disponibilità alla dialettica.
Se consideraimo con la dovuta attenzione ci sono, in queste ragioni fondative, le possibilità di dialogare sia con la sinistra aperta al riformismo, sia col liberalismo democratico; siamo convinti che senza dialogo fecondo tra queste culture di tradizione secolare, non si esce dal marasma che ci condiziona. C’è però qualcosa di più decisivo. Bisognerebbe tentare, prima ai livelli di coinvolgimento e formazione popolare e finalmente nella pratica istituzionale (la priorità logica non significa priorità cronologica), un recupero degli incontri che queste tradizioni hanno posto in essere in Costituente. Non si tratta di cristallizarsi alla lettera della Costituzione, ma di salvarne lo spirito identitario e cioè una democrazia progressiva che renda efficaci e concretizzate le affermazioni di principio. In fondo la vera crisi della Carta (si tratta di crisi che ritengo reale) non sta nella inadeguatezza ampiamente riconosciuta dell’ordinamento istituzionale, ma nel fatto che il solidarismo reale (o sostanziale) non ha mai avuto effetti significativi. La decantata uguaglianza non c’è e non per eccesso di meritocarzia ma per cristallizzazioni burocratiche fondate sul privilegio. Continuiamo ad insistere: promozione del merito a servizio della crescita di tutti e caiscuno! Utopia? Forse, ma noi non possiamo che proporla e ragionarne con le diverse anche se un po’ elitarie risorse disponibili.
Su queste premesse abbiamo il dovere di sperare nel futuro; certo le varie aggregazioni politiche dei cattolici hanno fatto il loro tempo, non solo nel nostro Paese. Forse è venuto il momento per i Cristiani di costituire il lievito indicato dall’Evangelo.
Strettamente collegato al tema del cattolicesimo democratico e del suo destino, è il Partito Democratico che è quasi coetaneo di Appunti Alessandrini. Premetto. Il PD è stato per un certo tempo e per una parte consistente della popolazione italiana, quella di sinistra, un sogno che pareva finalmente realizzarsi. Poi, una volta nato il partito, come quasi tutti i sogni che sembrano farsi concreti, finiscono per deludere le aspettative.
In effetti, come la si pensi, il Partito Democratico non ha mai goduto di buona salute. Nei fatti non ha ottenuto i risultati che si prefiggeva, né sotto il profilo interno, soprattutto in termini culturali, di realizzazione di una sintesi tra le diverse ispirazioni dalle quali scaturiva; né sul piano esterno in fatto di risultati tangibili sul fronte di un ammodernamento dello stato e della politica, che sviluppasse quell’alleanza tra il bisogno ed il merito, richiamata spesso da te nei Domenicali.
Mi chiedo allora, molto banalmente, cosa è andato storto? Poteva esserci un epilogo diverso? Quali prospettive si parano d’innanzi, dopo l’ultima stagione che probabilmente si concluderà in primavera con le prossime elezioni politiche?
Purtroppo il Partito Democratico non solo non ha mai goduto “buona salute”, ma nelle prospettive che alcuni di noi avrebbero intravisto o sperato non è mai decollato. La realizzazione di una sintesi tra culture e tradizioni politiche diverse non ha avuto alcun respiro, c’è stato un ripiegamento dovuto almeno a tre fattori. Intanto la base del solidarismo si è sgretolata, sostituita da un volontarismo fatto di concessioni che qualcuno ha definito mance occasionali. L’ossatura avrebbe dovuto richiamare le tradizioni della democrazia progressiva, rappresentata dal cristianesimo sociale e dalla sinistra riformista che in Italia ha sempre avuto vita difficile perché condizionata dall’ideologia; una democrazia progressiva in equilibrio con un liberismo economico fondato sulle prospettivo di un merito che al servizio della crescita riuscisse ad ovviare alle dinamiche burocratiche del privilegio. Questo avrebbe richiesto una classe dirigente di grande respiro anche culturale e, su questo versante si è prodotto il più straordinario fallimento. In secondo luogo i vertici ecclesiastici hanno rozzamente invaso il campo della politica, sostituendosi surrettiziamente alla inevitabile e feconda dialettica di un confronto in ordine alla realizzazione dei principi cosiddetti non negoziabili: la conseguenza si è definita nel blocco dell’intervento dei cattolici democratici, sia perchè hanno obbedito senza mediazione culturale o perchè si sono defilati restando residuali rispetto ai compagni di viaggio della sinistra. Infine perché nella sinistra la tentazione dell’egemonia ha stroncato sul nascere una collaborazione alla pari ed alla fine una insanabile spaccatura di prevalente carattere ideologico.
Difficile dire cosa succederà, ma dopo le elezioni della prossima primavera, la probabile ingovernabilità renderà impossibile la sopravvivenza di una parte che costiuisce un polo fra tre incomunicabili forze (!?) politiche. Inutile aggiungere che l’unica realtà che ancora vuol presentarsi come partito e nel quale l’elettorato o il cittadino individuano l’aspetto più deleterio di una politica screditata, subirà un ulteriore contraccolpo, soprattutto da una deriva populista, di cui bisognerebbe fare un cenno specifico e a parte.
Un’altra questione importante riguarda la Chiesa. Sono cambiate molte cose rispetto a 10 anni fa. A livello locale, all’epoca della nostra nascita, Mons. Charrier (sul quale ritorneremo tra poco) aveva lasciato da pochi mesi la guida della Diocesi a Mons. Versaldi, che ora è a Roma.
A livello generale, abbiamo avuto il passaggio storico di un pontificato tra un papa in vita ed un altro pontefice. Credo che saranno entrambi ricordati, Benedetto XVI e Francesco, per motivi diversi, come due rivoluzionari. Nel contempo, sono scomparse figure di estremo rilievo come quella del Cardinal Martini, e, seppure con caratteristiche diverse, del suo successore Tettamanzi.
Ma venendo al dunque, come valuti la traiettoria della Chiesa di questi anni e in prospettiva, cosa pensi delle sue difficoltà, sia in ambito generale che con riferimento alle vicende di casa nostra? Cosa dobbiamo aspettarci?
Sarebbe opportuna una ripresa degli eventi e delle dinamiche che soprattutto nella Chiesa italiana si sono dipanati dalla morte di Paolo VI in poi. Ovviamente per cenni, ma anche limitatamente agli impatti che ne sono derivati alla situazione dell’Italia. In via complementare, ma conseguente, alla condizione della Chiesa locale.
Il pontificato Woitila si è caratterizzato per un impegno di presenza nella prospettiva di una “nuova evangelizzazione” del tessuto sociale scristianizzato soprattutto in Europa. La sua visione era proiettata verso tutto il mondo, ma nel vecchio continente produsse un impatto particolare e talora contradditorio. Sembra di poter dire che la sua figura assolutamente carismatica e la sua statura morale di leader straordinario realizzarono una immagine invasiva, ma non conseguirono il progetto organico che si era proposto. La scristianizzazione accelerò il suo corso e soprattutto le indicazioni o gli insegnamenti morali della Chiesa rimasero prevalentemente irrilevanti. L’impressione di una ricaduta più ambigua che ambivalente sulle Chiese locali italiane andrebbe valutata con particolare attenzione. Nel primo decennio del pontificato la CEI (Conferenza Episcopale Italiana) costituita da vescovi eletti nel epriodo montiniano rinnovarono un impegno di discernimento ed accompagnarono le premesse di “scelta religiosa” dell’Associazionismo cattolico; una “scelta religiosa” che significava leggera o prudente presenza nelle questioni della politica di parte e pastorale di avvicinamento alle difficoltà proprie del campo etico e religioso: senza pretesa alcuna di un’impossibile o improbabile conquista. La posizione della CEI di Poma, ma soprattutto di Ballestrero e Poletti nei confronti di eventi traumatici (Referendum sul divorzio al tramonto di Montini e sull’aborto con Giovanni Paolo II regnante) ne costituisce l’esempio probante: nessuna rivalsa, intensificazione dei processi formativi e pastorali.
Con l’esaurimento dell’episcopato montiniano i vescovi italiani guardarono con senso di inevitabile subalternità alla figura dominante di Woitila e agirono di conseguenza (le eccezioni non cambiano il quadro coplessivo); inoltre, e per aggiunta, indirizzati dalla CEI ruiniana (Camillo Ruini), ripresero un cammino, a mio sommesso parere del tutto maldestro, di influire sulle istituzioni statuali per imporre, ope legis, alcuni insegnamenti considerati “non negoziabili” indipendentemente da ogni mediazione culturale e politica. E lo fecero sempre in difesa, senza il progetto organico che, ad un livello ben diverso (anche se politicamente discutibile) proponeva il papa anche in riferimento alla situazione europea. A mia valutazione l’effetto fu devastante perché i processi di scristianizzazione proseguirono nonostante il prestigio innegabile del pontificato, anche in concomitanza con i ben noti scandali della curia e non solo. E fu devastente anche per il motivo che richiamavo al punto precedente e cioè il colpo di grazia inferto anche da diversi vertici ecclesiastici alla genesi del riformismo democratico in Italia.
Sulla Chiesa locale dirò che dopo le dimissioni di Charrier il cui episcopato, almeno per un decennio riuscì ad evitare le derive di cui si faceva cenno per la generalità delle Chiese d’Italia, l’impatto fu quello generale. Per condizioni personali e scelte prudenziali non andrei oltre; rimando il lettore a ciò che ho motivato al punto primo delle mie risposte.
Una discontinuità rispetto a quando siamo nati si riscontra, a mio avviso nell’enorme e per certi versi inatteso rafforzamento del populismo che ha rimescolato le carte della politica sia in Italia che all’estero, spesso rompendo o ristrutturando fortemente i tradizionali assetti bipolari. Possiamo anche citare i soliti esempi: Grillo, Salvini, Trump, Le Pen, ma anche Syriza e Podemos, la Brexit. E in parte, lo stesso Renzi.
Va detto, per completezza, che questo avviene dopo una crisi economica tra le più dure, se non la peggiore, degli ultimi secoli. Una situazione successiva, anche se non di molto, all’inizio della nostra avventura.
Che sta succedendo? Dove stiamo andando?
Indubbio il rafforzamento del populismo che ha marcato le vicende internazionali degli ultimi dieci anni; e sicuramente ha posto in crisi le logiche del confronto dialettico e democratico. Il punto però sta nei moventi che hanno determinato una situazione veramente caotica. Provo ad elencare i caratteri della rottura democratica. Il populismo non conosce dialettica, travolge nella confusione ogni legittimazione delle parti, nega le ragioni dell’avversario, senza alcuna riserva di dubbio, rifiuta il confronto con le minoraze e coi loro diritti. Inoltre, ad attenta valutazione non riconosce il metodo di una politica capace di contenere le passioni, di organizzare razionalmente la domanda popolare e banalizza la intermediazione della rappresentanza istituzionale; ci sarebbe da temere un’impropria interpretazione della volontare popolare “legibus soluta”, senza regole e senza legge o almeno al di sopra della legge. L’enfatizzazione del Referendum, nei vertici del populismo, non è che il sintomo di una precisa sottocultura che vorrebbe ridurre la presenza popolare solo con l’assenso o il dissenso alle decisioni del capo. Espressione di un antieuropeismo convinto esalta a parole le libertà civili, ma invoca muri contro gli uomini e blocchi contro i commerci. La personalizzazione sostitutiva del confronto dialettico tra le parti rende possibile percorsi diffusi di personaggi che tu citi; in parte anche Renzi, senza arrivare ai limiti cui faccio cenno, sta soffrendo di una personalizzazione che potrebbe rischiare l’inizio della deriva democratica.
Altro tema sul quale molto abbiamo dibattuto è l’Europa, con le sue difficoltà (evidenti) e le sue ambizioni (sopite). Che idea ti sei fatto di quel che sta accadendo? Credi ancora sia possibile realizzare una unificazione politica, e se sì, a partire da quali presupposti ideali e/o istituzionali?
Spero di sbagliarmi, ma le prospettive di un’idea d’Europa fondata sulla base della razionalità nei rapporti sociali, su organiche soluzioni istituzionali frutto di una politica virtuosa e partecipata attraverso le intermediazione della rappresentanza popolare, sulla presenza di un cittadino libero dalle degenerazioni istintuali e formato alla scelta delle classi dirigenti; queste prospettive mi paiono del tutto compromesse dal populismo di cui parlavamo, favorito anche da una crisi economica epocale. Se la crisi sembra superata (speriamo non sia un passaggio illusorio) non mi sembrano superate le devastazioni sociali e politiche che ha prodotto.
Non sto qui a richiamare le grandi idee che avrebbero dovuto sostenere la “cultura d’Europa” anche in una tradizione popolare; è stato fatto in più sedi e c’è stato qualche tentativo anche da parte nostra. Potrei addirittura ripetere che non si fa l’Europa al di fuori della federazione: non ci sono Istituzioni unitarie senza una politica estera comune, senza una politica economica del tutto convergente, senza una difesa altrettanto comune. Sono cose dette e ripetute da varie responsabilità quasi sempre inascoltate. Non mi attardo neanche a sottolineare la risibile idiozia che vorrebbe ritornare alle monete nazionali; risibile sì, ma pericolosissima perché propagandata con le più speciose motivazioni sui vari social, senza alcun confronto tra posizioni dialetticamente motivate.
Non mi dilungo su questi aspetti. C’è però una ragione del fallimento che mi pare attualissima ancorché non esclusiva e che affianca l’incapacità degli Stati più evoluti a superare le istituzioni della nazione; solo la paura di un’altra carneficina come quella della seconda guerra mondiale, aveva indotto una classe politica illuminata (De Gasperi, Adenauer, Shumann, Gruber…) ed una cospicua presenza di culture europeiste (non ricorro ad alcune citazioni per non dimenticarne alcuna) ad un impegno caduto assieme alla tranquillità di parecchi decenni di pace che il continente non aveva sperimentato in tutto il corso del primo Novecento, solo quel timore aveva acceso in parallelo ed in controtendenza una speranza. E la ragione potrebbe permettere il richiamo alle indicazioni di Giovanni Paolo II quando richiamava gli apporti indispensabili dei due polmoni dell”Europa, l’Occidente e l’Oriente. Si sono accumulate le varie nazionalità e non si sono sviluppate le risorse dei due polmoni. Non ci sono realtà statuali dominanti ed altre subalterne in una costruzione federale, altrimenti i “forti” umiliani i deboli con le conseguenze di separatezza e riprese conflittuali di tutti contro tutti. Le grandi idee iniziali i grandi progetti del seondo dopo/guerra sono naufragati perché mentre si esauriva una stagione straordinariamente felice di dirigenza politica, mentre venivano meno i timori di una guerra nucleare, si afflosciava anche la indispensabile spinta ideale dell’idea d’Europa. Ora la strada è in salita o (quod Deus avertat) in fase di declino, senza possibilità di recupero.
Abbiamo parlato molto di temi globali. Ora forse è tempo di dedicarci alla nostra Alessandria. Oltretutto è nuovamente cambiata l’amministrazione (un po’ come quando nasceva Ap).
Tu hai avuto molti ruoli importanti in questa città, a livello professionale, ecclesiale, politico. Puoi essere considerato a buon titolo un osservatore privilegiato. Che rapporto hai oggi con la città? C’è qualcosa del passato di questo capoluogo che, al netto della comprensibile nostalgia per il tempo che passa, ti manca e che ritieni una perdita sociale oltre che personale? Come valuti i cambiamenti di questi dieci anni e cosa ti aspetti?
Non sta a me giudicare le mie presenze nella città; posso dire in ogni caso che guardo al declino del territorio con molta preoccupazione. Con Alessandria ho un rapporto di rassegnazione, con qualche raro sprazzo di speranza. Non penso però che la situazione di degrado trovi la sua genesi in questi dieci ultimi anni. A forza di ripetere che bisogna essere realisti, che resta inutile mirare in alto, che necessita la verifica sul concreto, che non si crede se non ai mattoni posti in essere senza puntare ad improbabili utopie (mi perdoni chi coglie nell’ultima espressione specie di madestro ossimoro); a forza di critcare i ricercatori dei massimi sistemi, di rifiutare gli ideali della politica (qui ci sarebbe solidarietà nazionale) ed affermare che basta una buona amministrazione dell’esistente (lo giurava Gugliemo Giannini il leader fondatore dell’”Uomo Qualunque” ed ispiratore del qualunquismo) a forza di indifferenza sui progetti abbiamo perso la stazione ferroviaria, un Istituto bancario prestigioso, delle caserme essenziali alla vivacità economica della città e stiamo arrancando per ricostruire un teatro che era costato anche la vicenda di un grande protagonismo intellettuale. C’è un’Università e nessuno ne prende atto, ci sono istituzioni di riconosciuto prestigio culturale: “Cultura e Sviluppo” di cui si accorgono solo alcuni componenti delle elite (si fa per dire) cittadine, l’Università delle “tre età” che ci si ostina a ritenere un utile passatempo, un istituto per la storia della Resistenza e della società contemporanea che ignora gli altri protagonisti e, a sua volta viene ignorato. Potrei continuare, ma mi sembra inutile infierire con l’elencazione; ciò che conta però e che fa tristezza è da una parte l’indifferenza diffusa a tutto ciò che non significa riscontro immediato ed interessato, dall’altra la separatezza tra le varie iniziative. Un’iniziativa è della Diocesi? si presentano quasi eslusivamente i buoni cattolici; un’altra è di istituzioni laiche, i buoni cattolici disertano e non si confondono con coloro che non ritengono di vivere una vita della stessa fede. In questo siamo evangelici: “non sappia la mano destra, ciò che fa la mano sinistra”. Nostalgia mi chiedi? Un po’, ma soprattutto, scoramento e delusione.
In conclusione vorrei proporti di dedicare un pensiero a tre figure che sono state fondamentali per Ap, oltre che a livello personale: Martini, Charrier, Fiocchi.
Introdurrei con una citazione. Don Damiano Modena, segretario di Carlo Maria Martini, negli ultimi anni di vita del cardinale, nel libro in cui riporta essenziali e commoventi episodi della sua esperienza, ad un certo punto riporta una lunga riflessione tratta da Teilhard de Chardin. Martini la medita ripetutamente come sintesi della propria sensibilità pastorale. “fin quando noi sembreremo voler imporre ai moderni una Divinità precostituita…predicheremmo irrimediabilmente nel deserto. C’è solo un mezzo per far regnare Dio sugli uomini del nostro tempo: è quello di passare attraverso il loro ideale…” La pastorale, affermava don Mazzolari, non può poretendere di imporre, ma si radica nella storia degli uomini dando senso di apertura alla trascendenza alle loro natutali predisposizioni anche sentimentali; consiste nel “far passare qualcosa di eterno” nella loro sensibilità umana. Sta qui il senso vero della “scelta religiosa” tanto contestata dai movimenti e tanto proposta dall’associazionismo ecclesiale sullo scorcio del secolo scorso. Tale opzione ha avuto dei Maestri che hanno precisato che “scelta religiosa” non significa fuga nella devozione, ma precisamente il contrario: significa trovare nelle orme di bene della Storia la possibilità di un confronto con la Parola di Dio per svilupparle in promozione e mai imposizione. La Pastorale di conquista è fallimentare… ”predicheremmo nel deserto”.
Bene, la cifra che accumuna Martini, Charrier e Walter è proprio questa, ovviamente a livelli diversi. Carlo Maria Martini ha fatto della proposta radicale dell’Evangelo la sua missione di ricerca, ma soprattutto ha capito e dichiarato che anche nel non credente ci sono le possibilità di un messaggio di salvezza: “La cattedra dei non credenti” ne è stata la manfestazione più audace. Non è salito in cattedra per convertire, ma ha fatto salire in cattedra gli altri per una conversione comune su basi lucidamente individuate, le basi di una razionalità condivisa aperta al dono gratuito della fede. Il punto del discrimine è la comune umanità del pensare fondato sul dubbio indispensabile alla ricerca: non un dubbio corrosivo, ma costruttivo. L’umanità è fatto positivo al punto da far dire al cardinale morente che anche se non esistesse un’eternità Lui si sentiva soddisfatto e contento di aver condiviso una comune umanità. Ogni altra considerazione sul personaggio che ha girato le cattedre del mondo, che ha pubblicato novecento titoli circa, che ha amato una Chiesa nel mondo e non fuori o sopra le vicende della Storia, mi porterebbe a scrivere troppe pagine.
Charrier è il vescovo che è venuto a camminare con un popolo che sembrava stanco, sfiduciato, indifferente alla Chiesa ed agli ideali religiosi. Lui ha preso su di sé e sulle espressioni di un carattere apparentemente appartato, le motivazioni e le conseguenze della realtà cittadina: ha evitato il facile ripiegamento sui gruppi devoti ed è andato veramente alle periferie della sua Chiesa mettendola in stato di Sinodo. Lo ha fatto per sentire tutti con il registro della libertà; per Lui accanto ai Cristiani che condividevano la sua fede, c’erano quelli che non ritenevano di doverla condividere con una scelta rispettabile e ammirevole purché sincera. Niente steccati, niente separatezze, niente tentativi di andare a piantare i suoi alberi a casa altrui. L’alternativa del reciproco rispetto costituiva il presupposto di un cammino comune verso le strade della ricerca: era la fede a sostenerlo in un cammino di radicale fiducia nell’uomo; un uomo che inevitabilmente procede verso i traguardi che solo il mistero della grazia può aprire alla trascendenza. Ai lavori del Sinodo furono coinvolte persone dichiaratamente non credenti. Non aggiungo su sue specifiche attività sia diocesane, sia ai livelli nazionali di cui ho parlato in molte occasioni anche su Ap.
Don Walter segretario di Charrier, parroco impegnato, uomo sensibile ai drammi più diversi di casa sua e soprattutto del popolo palestines,e ha marcato gli stessi passi dei due grandi vescovi. Radicale nella fedeltà al Vangelo e libero nel giudizio sui suoi compagni di viaggio, dichiarava di essere “di parte”, dalla parte della Parola di Dio. Non ne ammetteva accomodamenti, non accettava le incrostazioni di una devozione pastorale che aggiustava l’Evangelo, al punto di risultare persino indigesto ai buoni cattolici. Non amava le forme che per una distorsione pastorale abbellivano troppo la storia della salvezza, ne denunciava le inevitabili difficoltà di un radicamento nella storia fino ad affermare la rozza crudezza della vita dei pastori giunti per primi ad adorare Gesù a Betlemme. Ciò che appare edulcorato, accomodato, abbellito potrebbe essere falso e non proponibile pastoralmente. Uomo della libertà, ma anche della determinazione radicale sulle idee che dichiarava, ma mai imponeva; poteva polemizzare fino alla rottura sulle idee, ma mai alla frattura dell’amicizia e del comune cammino in nome dell’umanità condivisa.

Spero, con non poca nostalgia, di incontrare ancora di questi pastori, ma non nego che, pur non mancando di pochi amici preti, incontro non irrilevanti difficoltà.

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