L’agnolotto da guerra di Angelotu

by Piercarlo Fabbio LMCA da RADIO BBSI Alessandria: 
Da dove nascono gli agnolotti? Da un assedio nel Monferrato. Casualità o vera volontà di creare un piatto nuovo? Scopriamolo insieme attraverso una leggenda… ma forse non basta neppure questa
In questa trasmissione mi metto spesso alla ricerca di leggende nel tentativo di trovarvi ciò che vi sia di vero o di verosimile. Operazione inversa faccio per la storia, cercando di individuare cosa vi sia di falso.
Se proprio mi devo sbilanciare sapete che gioco allo scoperto: sto più dalla parte della leggenda che da quella della storia, ma alla fine mi devo convincere che, raccontando leggende, finisco per dovere studiare la storia ove queste si sarebbero svolte. Insomma, tutto si tiene assieme e anche le cose più semplici divengono vere e proprie, ghiotte notizie di cui parlarvi.
Ho infatti individuato una breve leggenda sulla nascita degli agnolotti, tipico piatto alessandrino, mutuato però da un’origine monferrina. Ve la racconto, perché cibarsi con gusto è, molte volte, il risultato di un insieme di fattori: la bontà del piatto, la sua presentazione, ma anche la storia della sua genesi. Come è nato, se casualità lo ha voluto oppure se è proprio stato studiato e pensato per essere così.
Nel caso dell’agnolotto vi dico subito che all’epoca in cui è nato, non c’era certo il tempo per progettare un nuovo piatto. Occorreva spremersi le meningi, questo sì, ma per fare di necessità virtù, un po’ come per il Pollo alla Marengo, piatto d’improvvisazione che è entrato a pieno titolo nella cucina internazionale.
Come al solito c’entra una Guerra, un conflitto, un atto bellico. In questo caso l’agnolotto celebra il giorno in cui viene tolto l’assedio ad una città del Monferrato.
La leggenda non ci dice quale città sia, ma ci comunica il nome dell’assediante, cioè Giacomo di Savoia Acaia, che a metà degli anni Trenta del 1300 aveva dichiarato guerra a Teodoro I, Marchese del Monferrato. Non un conflitto epico, visto che i due firmarono abbastanza velocemente una tregua – lascio agli storici definire se per manifesta superiorità dell’uno o dell’altro o per interessi convergenti dei belligeranti – ma è certo che l’assedio viene tolto e nella città monferrina occorre festeggiare.
L’assedio di norma porta scarsità di cibo a chi rimane preso nella morsa dell’esercito assediante, anche se è vero che se si va troppo per le lunghe, anche chi assedia spesso finisce per subire la stessa sorte. È una delle spiegazioni storiche del fatto che Federico Barbarossaeviti di continuare l’assedio di Alessandria, proprio per insufficienza di alimenti per il suo esercito e per malumori tra coloro che vivevano di saccheggi e che ingrossavano le fila degli eserciti ufficiali. Poi la leggenda ci consegnerà Gagliaudo e la sua vacca… Ma torniamo nella innominata città del Monferrato.
Come detto occorreva festeggiare lo scampato pericolo. La dispensa era ormai vuota, fatta eccezione per quattro ossa e poca carne. Nella lingua del tempo si sarebbe detto “Quatr’oss e quater bindej ad carn”. Bisognava che il cuoco riuscisse ad inventarsi qualcosa.
Ora questo antesignano di masterchef era un popolano, che l’assedio non aveva troppo ridotto nelle forme: basso e rotondetto, abituato al buon cibo anche in periodi di magra come un assedio comporta. Pochi e radi capelli ed un inseparabile copricapo di lana dalle forme inconsulte. Non gli mancava la necessaria fantasia. Sapeva riconoscere le erbe dei campi e, grazie a queste capacità, era arrivato alla corte del Marchese. Ovvio che, pure per i guai igienici del tempo, non aveva mai avvelenato nessuno e per questo, come cuoco, già era un segno di qualità. Il suo nome? Angelo, o meglio, viste le dimensioni descritte, tutti lo chiamavano con un vezzeggiativo onomatopeico: Angelotto.
Il cuoco si mise al lavoro: tritò la carne, aggiunse un poco di formaggio che era rimasto (in realtà tritò anche qualche crosta che non fa mai male e per il fatto che in cucina è come sulla tavola delle famiglie povere: “non si butta mai via niente”).
Le erbe che aveva raccolte proprio alla mattina nei campi che erano rimasti liberi dalla dipartita degli assedianti, fuori dalle mura, fecero il resto. Peraltro, Angelotto, si stupì che quei barbari là fuori avessero lasciato intatto quel ben di Dio botanico. E se ne approfittò largamente. Ritornato in cucina tritò anche le erbe e le mescolò alla massa di carne e formaggio che aveva preparato.
Come legante pensò alle uova. Le galline erano assediate due volte, perché, anche loro venivano circondate e attenzionate per non lasciare neppure per un minuto incustodita la loro produzione naturale. Quel giorno, sarà per il clima di festa, sarà perché qualcosa in più erano pure loro riuscite a mangiare, qualche uovo in più era saltato fuori.
Occorreva però tenere assieme il tutto, che poi era un primo, un secondo o chissà che altra diavoleria, visto che fino ad allora una buona zuppa di legumi e cereali minori, con aggiunta di fave e fagioli, era da considerarsi già un buon piatto unico e che lì, alla corte, aggiungere carne, frattaglie, interiora e qualche taglio di carne vera era un’aggiunta di lusso.
Poi c’erano le frittate, i subric, i bolliti, ma non sempre. Occorreva quindi aggiungere qualcosa che contenesse questo intruglio a mezzo tra carne e insalate. Angelotto pensò un poco a se stesso e con una sfoglia di pasta (un po’ di farina, qualche uovo e il sale c’erano ancora) costruì un saccottino rigonfio al centro e schiacciato ai lati, affinché non perdesse il ripieno durante la cottura. Con le ossa aveva ottenuto un brodo sostanzioso, nel quale fece bollire quelle strane creazioni.
Il piatto fu un successo e il Marchese del Monferrato elogiò pubblicamente Angelotto, la sua opera e quel piatto che gli dedicò. Era natoer piat d’Angelotu, come lo chiamavano da quelle parti. Da Angelotu ad agnolotto il passo fu dunque breve, ma la cucina piemontese aveva inventato il suo piatto nazionale.
Ora, se si vuole essere precisi ed uscire dalla leggenda, non è sbagliato richiamare altre fonti, come il Bruni, uno dei più insigni storici della cucina locale, che tende a far risalire l’arrivo degli agnolotti in Piemonte nel 1700 direttamente dall’Appennino ligure. E quest’origine, seppur più antica, è confermata da altre fonti.
Viene infatti citato l’atto notarile ligure del 1182 in cui un fittavolo agricolo di Albenga si impegnava a dare ogni anno al padrone, oltre ad altri prerogative e beni, una certa quantità di ravioli.
Molti storici della materia ritengono che questa sia stata la prima volta in cui viene ufficialmente citato il raviolo-agnolotto, ma non si escludono citazioni più antiche ancora.
Nel 1200, a breve tiro d’anni, a Gavi Ligure, la famiglia Raviolo era proprietaria di un’osteria e serviva alla gente qualcosa di molto somigliante all’agnolotto.
Infine, ma proprio per cercare di non dimenticare nessuno, si tramanda che l’etimologia di agnolotto derivi da “Anulot”, che era l’attrezzo usato in cucina per modellare la pasta che doveva contenere il ripieno, perché in origine la forma del raviolo-agnolotto era tonda, come un anello.
Se poi non vogliamo lmcadimenticare proprio nulla, potrei raccontare che dalle nostre parti esistono ben definite caratteristiche per i ravioli, che sono di magro, e per gli agnolotti, che invece Angelotu ha inventato con la poca carne che la sua dispensa da assediato poteva ancora vantare.
Piercarlo Fabbio
Dalla trasmissione di Radio BBSI: La mia cara Alessandria 203_246 BBSI 14 marzo 2017





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