GLI ABBRACCI MANCATI, vittoriano borrelli
Sono cresciuto sotto il tuo sguardo vigile e severo che mi ha incupito anche quando fuori c’era una bella giornata di sole. Mi sono portato dietro questo sguardo negli anni a seguire ed è stato come rivedermi tutte le volte allo specchio senza avere la voglia di sorridere, di lasciarmi andare nella spensieratezza della mia gioventù o nella serenità, composta ed essenziale, della mia età più matura.
Cammino per strada con le mani nascoste nel mio fedele cappotto grigio e mi sembra di essere una figura in bianco e nero rispetto a quelle colorate e variegate che mi girano intorno e che fanno da contrasto al paesaggio asettico e malinconico di questo inizio autunno.
Dove sto andando? Per fortuna c’è Diomira che me lo ricorda con un sms squillante come le campane di una chiesa: “ Sei andato dalla fioraia? Ricordati di prendere i gladioli bianchi che tanto piacevano alla mia povera mamma.” Rispondo con un ok e mi reco da donna Luisa che anche quest’anno ha addobbato la bancarella con tanti fiori sparsi che quasi faccio fatica a vederla mentre se ne sta rannicchiata, piccola e minuta, sul suo sgabello.
“Buon giorno Giovanni. E la signora Diomira? Non è con lei?”
“Ha la febbre, ma niente di preoccupante. Quest’anno farò il giro da solo.”
“Poveretta! Anch'io sto poco bene, ma cosa vuole? In questi giorni c’è tanto da fare che non potevo certo mancare.”
Mi racconta dei suoi acciacchi, del suo sentirsi ormai prossima a passare a miglior vita ma è un ritornello che ho già sentito tante volte che non ci faccio più caso.
Prendo il mazzo di gladioli e varco l’ingresso del viale alberato che mi conduce dopo pochi passi da mia suocera. La foto è un po’ sbiadita ma l’immagine che ne è raffigurata è bella come mia moglie, così somigliante a lei che a volte penso che non ci abbia mai lasciati, che sia sempre presente nei gesti, nelle parole, nelle espressioni austere e filiali di Diomira quando mi raccomanda, ad esempio, di non fare tardi al lavoro, di portare il cane fuori o di usare le pattine per non sporcare la casa.
C’è un legame indissolubile con chi non è più tra noi, nel bene e nel male. E il sorriso di mia suocera sembra confermarlo con quegli occhi sornioni e beffardi come a voler dire di essere ancora presente nella nostra vita.
Giungo a te che te ne stai sotto una lapide fredda e spoglia senza nemmeno un fiore o un lumino acceso. Ti hanno lasciato solo, anche quelli che nella tua disgraziata vita ti giravano intorno per interessi personali o per tornaconto. Per loro quel legame indissolubile si è interrotto non appena hai emesso l’ultimo respiro, ma per me non è stato così.
Ho ereditato il tuo sguardo al punto da sentirmelo dentro come l’occhio di una telecamera nascosta che ha registrato ogni cosa di me, ogni respiro, ogni ansia, ogni incertezza e preoccupazione facendomi precipitare nel baratro delle occasioni perdute, delle parole non dette, dei passi incompiuti e delle strade mai percorse.
Dovrei odiarti e ti ho odiato molto, lasciarti di nuovo solo come hanno fatto gli altri con te, ma c’è qualcosa che mi trattiene ed è un maledetto indugio. Tiro dalla tasca il cero che ho acquistato da Luisa, lo accendo e lo appoggio vicino alla tua fotografia.
Il tuo sguardo si fa luminoso, intenso e splendente che sembra sorridermi per la prima volta.
E per la prima volta mi lascio andare in un pianto liberatorio senza riserve che mi fa dimenticare per un momento, eterno od effimero, di tutti i tuoi abbracci mancati.
GLI ABBRACCI MANCATI
Racconto breve
di
Vittoriano Borrelli
(Ogni riferimento a fatti o a persone reali è puramente casuale)
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