Il dominio della pancia, Riccardo Lera
by, Riccardo Lera
Il dominio della pancia.
Racconto.
Basket a parte, esperienza che non tutti i miei coetanei condivisero, l'unico divertimento disponibile a Serravalle era la "vasca". Questa misurava non più di duecento metri e si allungava rettilinea sui rossi marciapiedi del paese, da Piazza delle Aie fino al Bar Lux, tranne rari sconfinamenti.
Eravamo tutti in jeans scampanati a zampa d'elefante, camicie dai larghi colletti, Saxon o Converse All Star ai piedi, basette lunghe ed aria eternamente svaccata.
Durante il lento passeggio lungo la vasca, gli argomenti di dialogo non erano propriamente quelli della scuola filosofica peripatetica. Lo Stiv e il Botta si dichiaravano appartenenti di diritto alla nobiltà: il primo si autoproclamava Conte Michel Vaillant, il secondo Antonio Di Gennaro, Principe di Castellammare di Stabia, Nobil Homo.
I due, veri e autentici rompiballe, si erano fabbricati rudimentali biglietti da visita e dispensavano a tutti gli altri la loro dispotico-illuminata "protezione". Gianneschi, ad esempio, era stato assunto come giardiniere di non so più di quale dei due, ed anche il resto della truppa ricopriva ruoli minori da quarto stato, più o meno accettati.
Altro capitolo di discussione rimaneva, per altro ancora per pochi anni, il calcio e in questo campo la vittima sacrificale non poteva che essere lo juventinissimo Ciuci. Durante una vasca domenicale, con le voci gracchianti dei vari Ameri e Ciotti, stavamo ascoltando tutto il calcio minuto per minuto. L’incontro di cartello e dunque campo principale era la partita Napoli - Juventus.
Botta fu colto da uno dei suoi lampi di genio ed ordinò al sottoscritto di recarmi presso la cabina telefonica dei giardini pubblici, affinché, in qualità di segretario particolare del Principe di Castellammare di Stabia, facessi pressione sull'arbitro al fine di assegnare immediatamente un rigore contro la Juventus.
Sogghignando stetti al gioco, mentre il Ciuci già stringeva i denti. Tirai su la cornetta, feci finta di avere un serrato dialogo telefonico ma, come riposi la cornetta del telefono, nelle orecchie del malcapitato esplose la voce di Enrico Ameri:
"Scusa Ciotti, scusa Ciotti, qui è il San Paolo, rigore in favore del Napoli". Luciano Camera, Ciuci per tutti, impallidì e si accasciò rantolante su di una panchina, mentre l'Enrico nazionale proseguiva la radiocronaca con parole che, per gli sciacalli di turno, rappresentavano una melodia celestiale.
"Ecco Juliano deporre la sfera sul dischetto; parte la rincorsa, tiro...rete. Napoli 1, Juventus 0 al 40° del secondo tempo".
E sulle ali delle nostre grida di giubilo, Luciano, paonazzo in volto, si alzò di scatto dalla panchina, come se volesse entrare direttamente in campo a Piedigrotta. Ci guardò con odio feroce e lanciò il suo anatema:
"Siete tutti delle beline!" e, girate le spalle al gruppo, se ne andò a casa disperato e piangente.
Su questo terreno io difficilmente potevo essere preso di mira. Con formale atto di abiura mi allontanai dall'amata Inter e divenni tifoso accanito di tutto ciò che sportivamente aveva a che fare col Veneto, Belluno in testa.
Tale cittadina militava "gloriosamente" in serie C e a nessuno, tranne al Botta, che in questa passione mi accompagnò, poteva fregare qualcosa di quella squadra. Ma io come posso non ricordare quella straordinaria formazione: Bubacco, Cecco, Grion; Kuk, Del Piccolo, Stella; Dalla Bella, Cipelli, Inferrera, Tormen, Ballarin. Anno del Signore 1971.
Sempre il quel periodo il ciclista più amato fu Lino Farisato, gregarione stile "Ciao mama" che, discreto in salita, veniva sempre trombato sul traguardo delle tappe di montagna dagli scalatori spagnoli, per i quali, a fine corsa, manifestava ad Adriano De Zan tutto il proprio risentimento. Protestammo vivamente scrivendo a Tuttosport, per la sua esclusione dal Mondiale di Barcellona, facendo sottoscrivere la nostra missiva ad una sessantina di persone. Lascio perdere la risposta del quotidiano sportivo torinese. Non comprendendo la goliardata ed abboccando, seriosamente difese le scelte federali e la vittoria di Gimondi su Eddy Merckx. Completai l'opera scrivendo con infantile ed incerta grafia, alla rubrica sportiva di Topolino, gestita dal mitico Nicolò Carosio, qualificandomi come un bambino di otto anni desideroso di ottenere notizie sul ciclista veneto. Un mese più tardi mi giunse la risposta:
"Lino Farisato è un corridore valoroso. Potrai avere sue notizie scrivendo alla Scic, firmato Nicolò Carosio".
Ma qualcosa di molto più importante nel frattempo era accaduto. Nel nostro gruppo avevano miracolosamente fatto la loro comparsa i primi elementi del gentil sesso. Erano costoro, generalmente, rispetto a noi maschi, più giovani di qualche anno d'età, ed alcune di esse erano veramente delle gran belle ragazze. Ma, salvo eventi eccezionali, per molto tempo, vuoi perché imbranati, o più semplicemente perché idioti, a queste non riuscimmo a regalare alcun'altra emozione se non delle gran "vasche".
Io, purtroppo, mi ero innamorato. Senza alcuna speranza, ma mi ero innamorato. Sembravo la reincarnazione vivente del dolce stil nuovo. Scrivevo poesie, decantavo le qualità dell'amata agli amici più cari, in realtà delle vere carogne che non persero mai un'occasione per prendermi per i fondelli, e respingevo con determinazione ogni altrui azione osasse minimamente oscurare le di Lei sublimi qualità. Ero veramente rimbecillito.
Purtroppo nonostante questa purissima passione, coltivata con amore, incorsi in uno sfortunato incidente di percorso assai poco romantico. Erano quelli i tempi in cui ci affacciavamo timidamente fuori dal paese. Frequentavamo le superiori a Novi o ad Alessandria ed anche nella sperduta provincia spirava forte il vento della contestazione. In ogni classe non era poi così difficile scovare un capobranco politico intento a spiegarti la vita in modo differente da come ci era stata raccontata a casa dai nostri vecchi. Il mio leader fu Stefano Rosso, oggi professore di Storia Americana presso l'Università di Bergamo. Costui, in una visione estremamente pauperistica, volle dimostrare a me e ai suoi discepoli come fosse possibile trascorrere una settimana di vacanza, spendendo non più di cinquecento lire, l'equivalente monetario degli attuali cinque euro. Lo seguimmo in quattro: io, Claudio Balostro, Arrigo Francesconi e Riccardo Bisio. A completare il gruppo si aggregò il solito Botta ed un amico rugbista di Arrigo, Mauro Cafferata da Recco. Con alcune biciclette e due motorini riuscimmo a piazzare una tenda canadese a Santa Maria del Porto, pochi chilometri sopra Torriglia, in uno spiazzo in mezzo al bosco, sotto un traliccio dell'alta tensione. Sistemati pertanto alla meno peggio, verso sera ci si recò per la spesa, presso l'unico negozio presente in quella sperduta frazione. Fu un dramma. Un cartello affisso sulla porta dello spaccio non dava scampo: chiuso per turno. Quindicenni e affamati come lupi, riuscimmo a trovare in una cascina due litri di latte e mezza dozzina di uova. Le uova ben presto si trasformarono in una bucolica frittata perché il Bisio, nell'attraversare il bosco, improvvisamente lacerò l'aria con un urlo straziante: "La viperaaa!" Tutti accorsi in suo aiuto, lo trovammo intento a smazzuolare, a suon di bastonate, un povero orbettino ormai ridotto a quadrangolo convesso. Delle sei uova, per cinque di loro non fu più rintracciabile alcun elemento commestibile. Solo un uovo si era salvato, piazzandosi sopra un forchino di un albero. Contestualmente il Cafferata riuscì nell'impresa di fracassare in un solo colpo le due bottiglie del latte. La mesta cena consistette pertanto in dieci litri di brodo, partorito da un unico dado, in cui nuotavano circa mezz’etto di stelline. Ed effettivamente ogni dieci cucchiaiate di brodaglia una stellina riuscivi anche a scovarla. L’unico uovo venne strapazzato in un pezzetto di gorgonzola di proprietà del Bisio e rigorosamente diviso in sette minuscoli bocconi uguali.
Sempre più bisognosi di cibo, il giorno successivo l'assalto della truppa allo spaccio cittadino s'infranse contro un altro tragico biglietto: chiuso per lutto.
Qualcuno iniziava a piangere ma, nei i giorni successivi lo Stefano, convinto assertore del suo programma politico-nutrizionale, insensibile ai lamenti di tutto il gruppo, ci guidò attraverso analoghi e sfortunati percorsi esperienziali. Io avevo una fame terribile, ero dimagrito di molti chili ed il mio stomaco urlava tutto il suo dolore ai quattro venti. L'ultimo giorno, poiché si era rimasti abbondantemente nel pieno rispetto economico di quel patto di stabilità, il buon Botta si offrì di cucinare una gigantesca polenta al sugo con salsiccia. Ero felice ma, mentre la pietanza sobbolliva nella sua pignatta, spandendo nell'aria un profumo celestiale, i miei compagni di avventura malignamente iniziarono a discutere sulla mia amata. E, orrore, solo per il sottile gusto di farmi incazzare come una pantera, iniziarono a infangarne l'onore sostenendo che quella era una ragazza dai facili costumi, libertina e qualsiasi altra nefandezza potesse anche solo minimamente offendere le mie orecchie. Adirato alla massima potenza, novello Orlando Furioso, mi richiusi sdegnato nella tenda.
E mentre io fremevo dalla rabbia, gli altri iniziarono a gozzovigliare magnificando il sapore della pietanza.
“Vieni Lera, sapessi quanto è buona!”
“Non mangio!” gridavo da dentro la tenda.
“Dai Lera!”
“No!”
Un anima pia riempì una ciotola di polenta e salsiccia e sbattendosene del mio rifiuto, aprì la zip della tenda, cacciò dentro la polenta e richiuse.
Non passarono che pochi secondi.
La zip si riaprì e dalla fessura aperta spuntò la mia mano con la ciotola vuota e perfettamente pulita.
“Ce n’è ancora un po’?” chiesi io da dentro.
Ah, l'amore che crolla sotto i morsi della fame! Debbo dire che non se allora avevo il cuore infranto o meno, ma sicuramente la pancia stava molto meglio.
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