“Ermeneutica del non senso” – saggio breve di Curzi James
“Ermeneutica del non senso” – saggio breve di Curzi James
Asseriva Günther Anders che la ricerca del “senso” della vita non può essere effettuata tramite un semplice atto di volontà, e aveva ragione.
Per dare senso alla propria esistenza non è sufficiente la cupidità di voler fare “qualcosa” o di voler essere “qualcosa”. La sensazione di mancanza di senso delle nostre vite, spesso perfettamente conformate al sistema, sistema edificato sul “non senso” – se per senso si intende qualcosa di positivo per l’uomo – è un sintomo di sanità mentale e non di disturbo. Ossia, secondo Anders, rappresenta il sintomo della propria capacità di “verità”, ovvero, della facoltà di percepire la verità su noi stessi e sul mondo che ci circonda. E questa verità “ci suggerisce” che la nostra vita, orientata in senso capitalistico e progressista, non ha un “senso”, se non quello di continuare a produrre, accumulare ricchezze (ormai “beneficio” di pochi) e mandare avanti un’idea di progresso fondata sulla tecnica fine a se stessa, la quale prende il sopravvento sul suo stesso artefice: “l’uomo”.
Possiamo asserire, senza timor di smentita, che il concetto moderno di tecnica sia totalmente svincolato dai campi semantici della filosofia antica; mi riferisco qui alla nozione greca di τέχνη (technē), intesa come l’arte di “saper fare”, e alla sua stretta connessione e dipendenza dal concetto chiave di “epimèleia heautoù”, traducibile come “cura di sè”, che nel pensiero socratico era identificabile anche come “cura dell’anima”, o “cura del soggetto” capace di azioni [1].
Dato che un tale orientamento è totalmente inutile, se non nocivo – non mi dilungherò in questa sede nell’analisi dettagliata delle motivazioni[2] –, la sensazione di mancanza di senso della nostra vita spesso è più che giustificata. Si pensi, per esempio, al fatto che molti lavori sono ormai rinchiusi nella gabbia dell’ iperspecializzazione – la quale rende anche i mestieri e le libere professioni sempre più avulsi/e dagli scopi reali, similmente ai lavori di fabbrica – e ci impediscono oggettivamente di dare un senso a ciò che stiamo facendo. Ce lo impediscono poiché le mansioni svolte sono talmente “segmentate” che non riusciamo a collocarle all’interno del loro contesto di insieme, e dunque, divengono per noi insensate. A sua volta, ciò che contribuiamo a produrre con il nostro lavoro, che ci appare privo di significato, è spesso (non sempre ovviamente) qualcosa che produce un prodotto che di per sè, non fosse per l’utilità sociale che gli viene attribuita, risulterebbe dannoso. Basti dare uno sguardo a quanti lavori sono rivolti alla produzione e all’operatività in settori indispensabili al funzionamento della nostra società, e al tempo stesso inquinanti o fiorieri di stili di vita nocivi alla salute umana, sia essa psichica o fisica, al punto – sempre che ci si soffermi a ponderare simili questioni – da non essere più sicuri se siano realmente “vantaggiose” tali tipologie di attività.
Fattore, la nocività, che alimenta la sensazione di perdita di senso, trascendendo la dimensione della “mera percezione” “ed elevandosi” a una mancanza di senso reale.
Qual è il senso di un lavoro nocivo?
Nessuno, ammesso che non si ritenga che lo scopo della vita umana sia quello di autoinfliggersi danni.
Così come è insensata la concezione di un “progresso” che richieda altrettanto “progresso” per lenire i molteplici mali da esso causati. In pariticolar modo l’accelerazione dei modi, tempi di lavoro e di produzione, che, conseguentemente, causano un’accelerazione dei ritmi sociali e delle vite dei singoli individui; sino ad arrivare alla cancellazione della struttura tridimensionale del tempo, a favore di una linearizzazione di tali strutture e di una ipostatizzazione del processo storico (richiamandosi alla terminologia di Koselleck), [2] avviatasi a seguito della rivoluzione industriale inglese, sul piano strettamente economico ‐ produttivo, e della rivoluzione francese del 1789 – erede dell’illuminismo – per quel che concerne gli aspetti ideologici. Accelerazione che mutando nelle sue forme espressive, a seguito delle ulteriori due rivoluzioni industriali – la seconda con l’avvento dell’elettricità, e la terza con quello dell’informatica e della digitalizzazione – ha proseguito ininterrottamente fino ad oggi. E in merito a questo, proprio di questi tempi, stiamo assistendo, e assisteremo, al culmine di quella che alcuni filosofi chiamavano e chiamano quarta rivoluzione industriale. Ovvero il “transumanesimo”, la fusione dell’uomo con la macchina e la sua sostituzione in molte mansioni (vedi l’intelligenza artificiale).
Non viene risparmiato neanche il tempo libero, il quale frequentemente sprofonda nella mancanza di senso, poiché irretito nelle maglie di piaceri passivanti sapientemente dosati e stimolati dai produttori, a loro volta sostenuti dagli Stati.
È sempre più raro trovare “soggetti” operosi, capaci di compiere “azioni” chiaramente e distintamente attribuibili a sè stessi, persino nei loro hobby. Al contrario, è sempre più comune incontrare “individui” passivi, privi di coscienza di sè, dei propri desideri e delle proprie azioni.
Il senso dell’esistenza di tali individui è di sfuggire all’insensatezza della vita quotidiana rifugiandosi nei piaceri sostitutivi, quali rappresentano le varie piattaforme digitali, televisione, serie TV, ecc.ecc. o qualunque forma di passatempo di basso rango. Ovvero, fuggono dalla mancanza di senso quotidiana, lavorativa e non, rifugiandosi in piaceri prevalentemente di origine orale che non fanno altro che incrementare la sensazione di vuoto che si autoalimenta con il loro stesso appagamento. Vuoto, poiché l’unico scopo che viene appagato è quello della dipendenza orale, che analogamente a un infante nei confronti del latte materno, risulta insaziabile, e quindi lo “scopo” non viene mai conseguito con il “mezzo” utilizzato.[3]
Per contro, invece, il mezzo utilizzato per appagare il piacere passivante, viene accuratamente stimolato dall’establishment (un misto tra élite finanziaria apolide e “Stati”) e reso indispensabile, al fine, non solo del mero accumulo di denaro, ma del potere sulla vita dei singoli; e ancora più importante, della garanzia della totale e passiva rassegnazione del proprio “suddito”, in quanto regredito al rango di infante desideroso di “latte”. Quindi il mezzo per appagare il bisogno di godimento nel tempo libero, che a sua volta è mezzo per compensare la mancanza di significato della vita lavorativa quotidiana, diviene il fine di coloro che si occupano di rifornire gli strumenti per appagare tali desideri. Dunque, stando così le cose, possiamo affermare che l’unico scopo che si adempie nell’abbandonarsi a tale godimento sia quello di renderci schiavi del produttore, epilogo del quale non siamo consapevoli. Quindi in realtà il mezzo che utilizziamo è già il “fine”, ovvero la nostra totale passivizzazione. Per cui agiamo in preda a “mezzi” che sono già “fini ultimi” in quanto mezzi, ovvero, lo scopo del mezzo è la stessa pratica di vita che il mezzo impone al suo utilizzatore. Quindi in realtà agiamo senza scopo posseduti dal mezzo. E, forzando volutamente un po i concetti, possiamo confermare la tesi che anche il nostro tempo libero sia senza senso, poiché senza scopo e rifornito solo di mezzi. D’altronde cos’è un mezzo senza scopo? Senza “fine”, di cosa potremmo dire che un oggetto è “mezzo”?
Quindi adesso, preso atto che la verità – salvo casi patologici la cui eziologia risieda nella storia individuale, solo marginalmente legata alla società – disvela che il nostro sentimento di mancanza di senso è pienamente giustificato, e che non è possibile imprimerne uno ad un qualsiasi stile di vita che risulti per sua natura insensato,
per proseguire nella nostra traccia ermeneutica del senso dell’esistenza dobbiamo chiederci se esista un senso reale di essa, e se sì, quale esso sia e come poterlo scoprire; dato che abbiamo asserito che non basta un semplice atto di volontà per dare senso alla propria vita.
Innanzitutto, si deve distinguere il senso individuale che ogni uomo conferisce alla propria esistenza, da quello che è il senso dell’essente nella sua interezza, ammesso e non concesso che quest’ultimo abbia di per sé un senso.
Partiamo subito dal secondo punto, poiché per ricavare il senso dell’esistenza dell’uomo (nella sua dimensione ontologica) è necessario capire se sia possibile dedurlo, e se sì come, da un significato dell’esistenza della natura, di Dio o dell’universo che dir si voglia. Purtroppo, per esigenze di spazio, e per non rendere la nostra trattazione invasa da sterili trascrizioni di teorie già ampiamente elaborate e rielaborate nel corso di tutta la storia del pensiero filosofico, dovremo principiare da alcuni punti perspicui, dati già per assodati (a fine articolo provvederò a fornire i testi per chi fosse sprovvisto di tali nozioni).
Se intendiamo la natura secondo la nozione spinoziana del “‘deus sive natura”, la quale nasce come degna evoluzione della concezione panteistica di filosofi come Eraclito, di quella pluralista di Democrito e delle concezioni ontologiche avviate con Parmenide, possiamo concepire la natura, l’universo, e in sintesi tutto ciò che esiste, come un’unica “sostanza”, causa di Sè, di tutto ciò che “è” e che “sarà”(“Natura naturante”), costituita da infiniti attribuiti che si modificano a sua volta in infiniti modi (“Natura naturata”).
Sostanza infinita ed eterna, indivisibile e indistruttibile. In tal caso ogni cosa che “è” avviene perché immanente alla sostanza stessa, secondo il principio filosofico della necessità della sua stessa esistenza. Questo significa che qualunque cosa esistente, presente, passata o futura, materiale o semplicemente immaginata, è un’espressione della sostanza stessa. La natura non si manifesta quindi secondo i parametri che regolano l’esistenza umana, ma è la natura umana ad essere compresa e dipendente dalla natura nella sua totalità, in quanto rappresentante di una minima parte di essa. Quindi all’interno di una siffatta concezione, che a me pare essere la più realistica, anche quello che noi definiamo “non senso” rappresenta un “senso”, in quanto di fatto è parte necessaria dell’esistenza di Dio.
Dunque, dalla ricerca del senso generico dell’esistenza, in senso lato, non riusciremo a pervenire direttamente ad una qualche concezione del vero senso della nostra vita.
La concezione che abbiamo appena espresso ci porta di fronte a un “trivio” di soluzioni delle quali solo una può essere utile al nostro scopo. Innanzitutto scartiamo i due sentieri fallaci e pericolosi. Dalle premesse esplicitate a riguardo della “sostanza” rischiamo di trovarci di fronte al pericolo di imboccare la via del “non senso”, dell’esistenza che giustifica la rinuncia totale ad una vita imperniata su dei valori edificatesi sopra la nozione di verità; consegnando così l’uomo ad una concezione totalmente nichilistica della vita[5].
La seconda via è quella della soluzione dalla quale avevamo iniziato a muovere le mosse all’inizio della nostra trattazione, ovvero, la soluzione della “volontà”, inserita in un contesto di estremo relativismo, la quale si potrebbe ipoteticamente esplicitare così: <<dato che l’esistenza di per sé non ha un senso dobbiamo darlo noi il senso, e tale senso possiamo trovarlo in qualunque cosa, purché si abbia la volontà di trovarlo>>. Come abbiamo affermato precedentemente però, anche questa soluzione è fallace, poiché non vi è possibilità di “dare senso” a un insieme di pratiche di vita che di per sé ne sono sprovviste, se per senso, appunto, intendiamo qualcosa di positivo che ci aiuti a vivere al meglio delle nostre possibilità. Per cui, affermando questo, abbiamo già implicitamente affermato che vi è un senso possibile della vita umana. Ma allora questa affermazione si pone in opposizione alla definizione dell’esistenza che abbiamo appena dato, ricalcando le orme spinoziane, le quali abbiamo a sua volta asserito che ci parevavano le più veritiere. Come risolvere quindi questa apparente antinomia? (Ovvero l’assenza delle categorie di “senso” e di “non senso” nell’ordine naturale, e il possibile senso da dare alla vita umana).
Semplice, restringendo il campo al relativismo che si trova all’interno della filosofia della “volontà”, di chi ritiene che sia sufficiente la volontà a dare senso all’esistenza.
Sicuramente l’esistenza può assumere un senso solo se noi conferiamo un significato a ciò che facciamo. Ma questo significato non può essere arbitrariamente esteso a qualunque “oggetto”. Per trovare un “senso” all’esistenza dobbiamo inserire la nozione di “volontà” all’interno di un relativismo umano – in chiave ontologica – fondato su una scala di valori oggettivi.
Cercando di esplicitare meglio tale nozione, potremmo affermare che il senso della vita umana debba essere ricercato all’interno di un “mondo”, inteso – seguendo le orme di Heidegger – come proiezione della totalità di opportunità, di possibilità, che l’uomo trova tramite l’esame circospettivo di ciò che lo circonda. E all’interno di questo “mondo”, che è parte dell’uomo stesso e di cui l’uomo è a sua volta parte costitutiva, attribuire una scala di valori oggettivamente “utili” (secondo il principio spinoziano) al conseguimento del fine di una vita beata.
Note:
[1] L’uso che faccio in questa sede dei termini “soggetto” e “individuo” non è casuale, ma da intendersi nella sua tipica distinzione filosofica.
[2] Per questo punto rimando a vari miei articoli precedenti, tra cui “Nichilismo, illusione, disperazione e progresso” uscito per “Oceanonews”.
[3] Il solito tipo di ragionamento, con i dovuti accorgimenti, possiamo estenderlo a ogni tipologia di piacere che stimoli la passività e la dipendenza, non solo per quanto riguarda la passività di origine orale.
[4] Su questo tema rimando all’ultimo mio saggio breve uscito su Alessandria.today: “Cultura temporalità e progresso”.
[5] Rimando il lettore al mio saggio breve “Nichilismo e panteismo spinoziano a confronto; e rapporto del nichilismo con il capitalismo neoliberista” uscito per la rivista “Insight”.
Bibliografia di riferimento:
– “L’uomo è antiquato” vol.1 e 2 di Günther Anders
– “Etica” di B.Spinoza
– “Essere e tempo” di Martin Heidegger
-“Essere senza tempo” di Diego Fusaro
– “L’ermeneutica del soggetto – corso al collège de France (1981/82′)” di Michel Foucault
– “Anatomia della distruttività umana” di Erich Fromm
▪︎ Curzi James
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