"La vecchietta" - di Simone Sciamè

 

Buona lettura,

L’autore,

Simone Sciamè

Quando mia zia è via per lavoro e non posso utilizzare la sua Panda, l’unica soluzione che mi rimane per muovermi in autonomia è prendere la bicicletta. È una bicicletta agile e snella, modello Fausto Coppi con tanto di scritta sul telaio, e le sono affezionato.

A Selinunte, se mi serve qualche cosa, per fortuna non mi tocca pedalare a lungo, ma essendo un paesino di mare, ed essendo costituito di salite e discese, pedalare non è solo una questione di resistenza, ma anche di forza di volontà e prestanza fisica.
Succede che quando mi rendo conto di essere sprovvisto di filtri o cartine o tabacco, me ne accorgo quando è troppo tardi e ormai i negozi sono chiusi oppure quando il sole è alto. Così mi armo di pazienza, prendo la bici e comincio a pedalare verso il Bar Amigos, il bar-tabacchi più vicino. È situato tra il campo da calcetto gratuito e l’ex stazione. In linea d’aria, di fronte a Nino Panino. All’andata pedalo poco perché la strada è in discesa e ne approfitto per godere dell’aria fresca che mi aiuta a sopportare il sole delle undici. Taglio per il parcheggio che il giovedì sera ospita il mercatino e ridiscendo verso il Bar Amigos. Il proprietario è puntualmente lontano dal bancone, all’esterno, impegnato a parlare con amici e conoscenti. Parcheggio la bici, entro e domando: filtri ne avete?, e c’è sempre la figlia o la moglie che sembrano entrare al bar per la prima volta e urlano: filtri ne abbiamo? E da fuori il proprietario risponde: venerdì! E la figlia o la moglie ripetono: venerdì, come se io non avessi sentito. Chiedo dunque se posso comprare cartine e tabacco. Di nuovo urlano: cartine e tabacco ne abbiamo?, e ancora la voce del proprietario: venerdì. Comincio a domandarmi come sia possibile che loro non sappiano cosa hanno in esposizione e cosa in magazzino. Poi mi domando se sia altrettanto possibile che a loro non venga in mente di voltarsi o piegarsi per cercare anche un singolo prodotto richiesto, come se moglie e figlia non fossero altro che appendici del proprietario, senza un cervello, senza occhi né colonna vertebrale autonomi.
Quando il padre/marito risponde “venerdì”, si diventa pian piano coscienti del fatto che questo venerdì, inteso come giorno della consegna della merce, non esiste. E se esiste, è un’illusione partorita appositamente per prenderti per il culo. Venerdì non è mai realmente venerdì, nemmeno il giorno successivo a giovedì e precedente a sabato. Venerdì, per il tabaccaio, è un giorno x di una settimana y, di un mese n di un anno z, perché piuttosto che dire la verità e cioè che quest’anno non gli hanno concesso la licenza di vendita per quei prodotti, preferisce mentire. Mente nella speranza che il cliente torni e, già che c’è, si prenda un caffè o qualcosa di fresco. Ma se si fermasse ad origliare cosa i clienti pensano davvero di lui e del suo modo di lavorare, si renderebbe conto del fatto che gode di una pessima reputazione, perché spesso sbrigativo, imbronciato e pigro.

Così noi fumatori siamo costretti a rifornirci da Matteucci.

Per arrivarci, la strada, specie da percorrere in bicicletta, è piuttosto divertente. Si supera il fruttivendolo e si imbocca la discesa della farmacia, così chiamata perché nessuno conosce il nome della via. La discesa è ripida, per questo è divertente. Quando la si percorre è come tornare bambini. Hai la tentazione di farla senza mani, senza il freno tirato, quasi come per sfidare la fisica, sperando che, se non vi sono auto a ostacolare la corsa, ad un certo punto la bicicletta possa diventare una piuma, le ruote si stacchino dal cemento, che l’aria ti faccia levitare e ti faccia sentire leggero come non è successo mai. Quando poi superi la farmacia e curvi verso sinistra, il mare dall’alto appare come un mantello che brilla e che si appoggia su una terra sommersa, prima azzurra, ora corallo, prima blu, ora smeraldo.

Costeggio il negozio di souvenir e articoli da spiaggia, poi la statua di Padre Pio sulla destra, la gelateria sulla sinistra, ed eccomi al tabacchi. Parcheggio, indosso la mascherina. Quando entro, l’orologio segna le 11.17 e la calura fa sudare persino le lucertole. Ad attendere i clienti, seduta su una sedia degli anni ’50, davanti al bancone, la proprietaria: una vecchietta che potrebbe avere novant’anni che proprio non ne vuole sapere di godersi la pensione e che passa il tempo vendendo sigarette.

Ora: il tempo che intercorre fra il mio ingresso al tabacchi e il momento in cui la signora si alza per servirmi, per lei, può essere di due, tre, massimo quattro secondi. Per me è leggermente più lungo. Diciamo che la mia percezione del tempo è così lontana da quella di questa anziana donna che i secondi non sono più numeri, ma simboli indecifrabili. Fra il mio “buongiorno” e il suo scatto repentino in piedi possono essere passati, per me, cinque o sei ere geologiche. Dietro di me, il bambino ora si sistema la dentiera, i boccioli sono diventati fiori e sono appassiti, le macchine a gasolio si sono estinte e sostituite da auto volanti. In questo frangente il mio unico desiderio è quello di congedarmi, dissetarmi, tuffarmi nell’acqua fresca della pineta e asciugarmi con il vento profumato che soffia sotto i pini. La signora Giovanna, questo è il nome della vecchietta, si muove a rallenti. Ogni movimento è concepito per essere lento, accorto e inesorabile. Rimango con il portafogli nella mano destra, cinque euro nella sinistra, e osservo la signora che prima si volta di qua, poi di là, dietro il bancone. Poi mi domanda, con lo sguardo: che vuoi? Dico filtri, cartine naturali e tabacco C. senza additivi. La signora mi serve con i suoi tempi. Prende prima le cartine naturali, poi il tabacco, e quando sta per appoggiare i filtri sul bancone dice: abbiamo solo questi. Li prendo, pago tutto, esco.

Fuori, poco più avanti, il porto. Quattro uomini con la pelle scura e raggrinzita dai raggi si sostengono sui gomiti e orientano il loro sguardo verso il basso, sotto un gazebo sulla spiaggia, dove si tiene il mercato del pesce. Un bambino si bagna i piedi sotto una fontanella per pulirsi dalla sabbia bagnata, mentre si sorregge alla madre. Una cameriera porta col palmo destro un vassoio con caffè e cremino a un tavolo di turisti. Due cani randagi si riposano sotto la pedana di legno. Un gabbiano sorvola il molo. Il calore amplifica il puzzo delle alghe ammassate al porto. Con questa visione, risalgo in sella. Mi faccio forza e pedalo, perché so che ora mi tocca affrontare la salita. Supero un africano con maglietta e pantaloni lunghi neri, sorrido a una bambina che si bagna i piedini nell’acqua che la nonna ha usato per rinfrescare il pavimento della veranda. Lei che batte i piedini a terra, la nonna che con il tubo sospeso a mezz’aria, l’acqua che sgorga, le piastrelle incandescenti che fumano.

Faccio forza con i quadricipiti e piego la bici a sinistra. Questa è la salita più ripida dello Scaro. È quasi mezzogiorno e il sole sembra voler farmelo sapere. Due goccioline di sudore mi scivolano dalla fronte, la maglietta che si appiccica alla schiena. Penso: non guardare la cima, concentrati sulla strada, sui pedali, sulle tue gambe. La strada è sgombra, a parte un ape-car che sgasa per affrontare il tratto più ripido. Sulla sinistra, finalmente, intravedo una piazzola di sosta non asfaltata. I turisti e i paesani vi si fermano per fare fotografie. Ho il fiatone, mi fermo. Mi asciugo il sudore con l’avambraccio. Questa piazzola affaccia sul porto, sul molo, su una buona parte del mare. Sulla destra, hotel in cantiere mai conclusi, case disabitate, porte e persiane colorate sì, ma dimenticate.

Selinunte è così: una bellezza dimenticata.

Provo ad accorciare la distanza fra me e la linea dell’orizzonte. Più ci provo, più l’occhio confonde le acque col cielo terso. È uno spettacolo che ammiro ormai da anni e ogni volta mi meraviglia come se fosse la prima. I raggi del sole brillano sullo specchio dell’acqua. Immagino gocce fresche sulla pelle, il sale che indurisce come una scorza di polvere di platino. Il ritmo del paese, le urla sommesse in lontananza, i braccioli dei bambini che si sgonfiano lentamente, l’odore del pesce fresco pescato nelle notti calme, gli sbadigli dei pensionati nelle verande.

Ora, in cima a questa piazzola che si affaccia come una finestra di terra canuta, penso che se il Bar Amigos avesse avuto i filtri, io non sarei mai andato da Matteucci, e quindi non avrei mai assistito a tutto questo. Si ama Selinunte come si ama una persona, con i suoi difetti e le sue brutture. Questo amore che ti fa arrabbiare un po’, ma che alla fine ti fa sentire fortunato. Ho capito, ancora, che la bellezza appaga di più quando si soffre un po’.

E questo paese è così bello che mi viene quasi voglia di soffrire.

 

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