Uguaglianza, by, Marco Ciani

Marco Ciani
In questi giorni di ristoro dolomitico, tra un’escursione e una lettura al fresco delle montagne natie, mi è capitato di riflettere su un’idea antica quanto attualissima ma, in questo particolare frangente della storia, sostanzialmente espulsa dalle preoccupazioni dell’immaginario collettivo, prima ancora che dal dibattito politico.
Credo sia molto complicato proferire alcunché di nuovo e men che meno di originale su un tema tanto rilevante per l’umana stirpe. Se non che una serie di articoli e saggi, letti perlopiù alla rinfusa, mi ha posto quasi naturalmente degli interrogativi.
Ho pensato alla sostanziale eclissi dei partiti di sinistra, sconfitti, ridotti al minimo o almeno in parte mutati geneticamente. Soggetti che sull’uguaglianza avevano costruito, dalla rivoluzione francese in poi, la loro principale ragion d’essere.
Ho pensato alla rarefazione della democrazia in atto in alcuni paesi dell’Europa come l’Ungheria, la Polonia e, volendo, la Turchia. O del mondo. Il Venezuela, per esempio.
Ho pensato altresì alla vicenda dei migranti che bussano alle porte d’Europa, a cominciare dai paesi mediterranei e primo tra essi l’Italia, in cerca di un avvenire migliore. Alcuni, non tutti, in fuga anche da guerre sanguinose e tribali.

Ho pensato a recenti episodi a carattere omofobo accaduti nel nostro paese. E, fatto assai più grave ed importante, alla lunga lista di donne uccise o fatte oggetto di violenza da parte di mariti, compagni e fidanzati.
Ho pensato infine ai giovani del nostro paese che non lavorano, né studiano. Secondo i dati Eurostat di qualche giorno fa hanno raggiunto il 29,1%, il picco più alto su scala continentale, più alto perfino di Romania e Grecia.
Sono vicende distinte e distanti per genesi, struttura e conseguenze. E tuttavia, mi pare di poter cogliere un esile filo conduttore nel fatto che gli episodi citati, tutti gli episodi, vedono ampliarsi il differenziale tra chi gode pienamente di alcuni diritti e chi invece li vede preclusi o difficilmente praticabili.
Andiamo però con ordine.
Tradizionalmente i diritti dei cittadini sono stati suddivisi in tre categorie:
diritti civili, ovvero l’isonomia garantita costituzionalmente quale elemento fondante delle libertà individuali;
diritti politici, quindi l’accesso effettivo all’elettorato attivo e passivo;
diritti sociali, cioè istruzione, sanità, pensioni, previdenza sociale, servizi socio-assistenziali.
Quando parlo di uguaglianza mi riferisco, in questo caso, a tutti e tre i diritti.
Semplificando un po’: i primi hanno dato origine tra XVIII e XIX secolo allo stato liberale; i secondi circa un secolo più tardi, allo stato democratico; dagli ultimi, in modo evidente nella seconda metà del secolo scorso, è scaturito il welfare state. A pensarci bene, questo ha significato espandere gradualmente sia la sfera della libertà che quella dell’uguaglianza, a partire dai paesi democratici dell’Occidente.
Ora assistiamo frequentemente ad eventi che sembrano mettere in discussione conquiste raggiunte tanto faticosamente. E’ un processo contraddittorio, mi rendo conto, perché a volte si fanno dei passi avanti, malgrado tutto. Penso, ad esempio, all’Obamacare che resiste (per ora) alla furia iconoclasta di Trump e dei conservatori americani. Non è cosa di poco conto. E tuttavia il moltiplicarsi degli scricchiolii, inizia a mettere in allarme gli uditi più fini.
Soprattutto perché, elemento che mi preoccupa maggiormente, il tipo di involuzione che si staglia all’orizzonte non pare affatto turbare la massima parte della pubblica opinione, sostanzialmente distaccata rispetto alle vicende politiche o in posizione di aggressiva contestazione, la benzina principale del populismo mondiale.
La continua erosione dell’uguaglianza per la maggioranza delle persone non sembra costituire un problema. Anche chi si trova in situazione di seria difficoltà, ad esempio per motivi economici, si duole ovviamente della propria condizione ma poi non va oltre.
Forse la mia sarà un’analisi superficiale, eppure sembra che oggi la reazione tipica di chi ha dei problemi sia individuare un colpevole. Tra questi ci sono certamente i politici, le banche, l’Europa, etc. Ma da questi soggetti pochi riescono ad ottenere soddisfazione. Meglio allora ripiegare su immigrati, rom, omosessuali, donne, poveri e financo gli accattoni del parcheggio. Obiettivi deboli, più alla nostra portata.
La domanda da porsi, sempre a mio modesto giudizio, è la seguente: perché di fronte ad un malessere sociale, probabilmente riconducibile a molte e non sempre intelligibili cause, invece di tentare una risposta collettiva fondata sulla solidarietà preferiamo individuare un capro espiatorio?
Penso che a tale interrogativo bisognerebbe tentare di fornire una soluzione. Non possiamo cavarcela semplicemente colpevolizzando una fetta crescente della società solo per il fatto che, contro ogni evidenza empirica, confonde il bersaglio.
Chi nei giorni scorsi avesse visto la trasmissione Blob, in onda alle 20 su rai 3, vi avrebbe trovato numerosi spezzoni di televisione risalenti al 1977, anno cruciale e terribile. Si rivedono frammenti di iniziative collettive, dai movimenti degli studenti ai cortei del sindacato, dalle lotte femministe ai convegni spontanei sulla repressione e molto altro ancora. Per inciso, sono presenti anche numerosi riferimenti ad episodi drammatici relativi al terrorismo ed agli scontri dei dimostranti con la polizia.
Ad ogni modo si respira (chi ha vissuto quel periodo se lo ricorderà certamente) una voglia di protagonismo declinata al plurale oggi assolutamente inimmaginabile. Se non come fenomeno di nicchia o testimonianza.
Le tensioni sociali non sono sopite. Al contrario, risultano acutizzate dai postumi della crisi economica, dallo scivolamento in basso del ceto medio, dalla mancanza di prospettiva per i giovani, dagli effetti dell’innovazione tecnologica sull’occupazione, dalle pressioni che l’indebitamento degli stati produce sul welfare, dall’instabilità della politica.
Si tratta di turbamenti che non trovano sbocchi costruttivi, tali cioè da sviluppare il percorso verso l’ampliamento della sfera delle conquiste civili, politiche e sociali. E quindi tendono a tramutarsi in rabbia, in rancore facilmente analizzabile da chiunque abbia una minima dimestichezza con i social network.
Non credo sia un problema di neo/liberismo trionfante, come parte della vulgata progressista si contenta di catalogare. Se guardiamo l’esempio dei paesi scandinavi, ancora oggi i più evoluti a livello mondiale sotto molteplici aspetti, ci accorgeremo che sotto il profilo economico/sociale la loro struttura è sostanzialmente imperniata sul binomio liberismo più welfare, secondo un canone assai più ispirato all’ordo/liberalismo che al socialismo latino.
Forse sbaglio, ma credo che la quasi improvvisa e imprevista fine del comunismo, che aveva eliminato la libertà nei paesi orientali senza produrre il paradiso in terra, abbia tolto comunque un contrappeso molto importante proprio a Occidente, là dove il pericolo di rivoluzioni e derive radicali costringeva la cultura politica liberale e conservatrice a venire a patti con le istanze sociali della classe media e, in misura minore, proletaria.
Per usare un’immagine, è come se il pendolo della storia, essendosi spinto al massimo punto raggiungibile verso sinistra, avesse iniziato a recedere. La globalizzazione conseguente, favorita dallo sviluppo della tecnologia, ha complicato il quadro. Miliardi di persone sono uscite dalla povertà in Cina, in India e in altri paesi emergenti. Ma l’assenza di freni ha aumentato considerevolmente la disuguaglianza a livello mondo.
Uno studio dell’OCSE del 2011, (Divided We Stand: Why Inequality Keeps Rising, trad. Restiamo divisi: perché la disuguaglianza continua a crescere) raggiunge la conclusione perentoria che “La disuguaglianza dei redditi nei paesi dell’OCSE ha raggiunto il livello più alto dell’ultimo mezzo secolo”.
Dunque il rischio che corriamo è di vedere messe in discussione conquiste sociali, politiche ed infine civili, secondo un procedimento inverso a quello scaturito dalle due grandi rivoluzioni di fine ‘700. Non mi aspetto di vedere una traiettoria lineare, come non furono lineari le conquiste dei diritti che abbiamo esposto, ma una possibilità di involuzione si sta facendo concreta. Perché con la crisi delle dottrine che avevano generato la cultura dell’uguaglianza, si potrebbe essere dissipato l’ideale stesso.
Affermo tutto ciò, con la coscienza di chi sa bene non essere mai la storia predeterminata. Fare congetture è sempre difficile. Anche perché è possibile modificare il corso degli eventi agendo sulle cause che li determinano. Ma supponendo che l’inquadramento sia corretto, mi limito ad evidenziare un rischio tangibile, un pericolo che potrebbe concretizzarsi qualora le cose fossero lasciate semplicemente alla loro dinamica inerziale.
Lo affermo da persona che pure ritiene una certa dose di disuguaglianza utile al buon funzionamento della società, quando basata sul merito e non sul privilegio. Infatti il livellamento totale delle condizioni, al di là di essere puramente teorico, sarebbe penalizzante sia per i più dotati e intraprendenti che per i più deboli, come in parte ha dimostrato l’esperienza del socialismo reale. Cioè si tratterebbe di una perequazione verso il basso.
Il problema è come garantire le stesse opportunità di realizzazione a tutti, ponendo al contempo un limite alla polarizzazione della società, cioè all’eccessiva concentrazione della ricchezza nelle mani di pochi. Una ingiustizia che non è solo condannabile eticamente, ma soprattutto risulta disfunzionale rispetto a qualsiasi logica di crescita equilibrata e di sviluppo dei diritti complessivamente intesi delle donne e degli uomini di questo pianeta.
Per farlo servirebbe rilanciare la cultura della giustizia come conquista collettiva, di cui oggi a me pare si senta la mancanza. Perfino i partiti della sinistra tradizionale, democratica e social/democratica, avendo abdicato da tempo ad una riflessione seria su tale tema, dopo averlo per qualche anno surrogato con l’espansione dei diritti civili (matrimoni gay, eutanasia, etc.) oggi versano in una crisi senza precedenti, della quale si stenta a vedere l’approdo.
Dunque il problema non è risolto. E’ solo stato rimosso, in attesa che qualcuno venga a tirarlo fuori dal dimenticatoio.
Un quadro a mio avviso complicato. Perché quando i problemi della società non trovano adeguati sbocchi politici, prima o poi la deviazione verso suggestioni sbrigative e traumatiche diventa fisiologica. Gramsci avvertiva che «la storia insegna, ma non ha scolari». Aveva perfettamente ragione. A costo di apparire velleitari, resta alla fine che l’illusione del capro espiatorio, sacrificato il quale le cose ritornano al loro posto, non ha mai funzionato.
Bisognerà (ri)cominciare a guardare in un’altra direzione.






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