Se n’è andata la più grande. Jeanne Moreau scomparsa a 89 anni nella sua Parigi, by, Nuccio Lodato

Nuccio Lodato
«La faccia meravigliosa della Moreau, che come la Garbo esprime talmente tanto di per sé, per il solo fatto d’esser lì, da dare involontariamente corpo e peso alle situazioni più vuote»
Alberto Arbasino, Ritratti italiani
Nella sua sterminata filmografia, però, intendiamoci bene, non abbondano certo le “situazioni più vuote” cui si riferisce lo scrittore vogherese, alludendo esplicitamente alla Notte di Antonioni, film poco amato anche dalla sua protagonista femminile (ci si tornerà).
Pur se figlia del fondatore-proprietario del celebre ristorante “La Cloche d’Or” di Pigalle, a pochi passi dal Moulin Rouge e non distante dall’Opera (tra i frequentatori di allora Kessel, Cocteau, la Piaf con Cerdan), sceglie un’altra strada: recitare. Una prima raffica di piccole parti in titoli di seconda serie, in genere tratteggiando altrettanto piccole poco di buono che i lineamenti insieme duri e sensuali già le facilitavano anche troppo (ma era stata anche l’aiutante di devota abnegazione del celebre medico-filantropo in È mezzanotte, dotto Schweitzer di Haguet, 1952…). Già in teatro gli esordi erano stati in parti da giovane prostituta, nei Sotterranei del Vaticano e in un Otello: il padre la caccia di casa dopo aver visto su di un giornale, ignaro di tutto, la sua foto in scena nell’esordio col pur irreprensibile Un mese in campagna da Turgenev, ma in compenso nello Shakespeare la vede recitare Welles, che un decennio dopo se ne ricorderà eccome! Si trova però poi ad esplodere, tralasciata la scena per eccesso di domanda dai sets, con la grandezza dell’opera («uno dei migliori film francesi mai realizzati» in cui «è una donna fatale stilizzata ma efficace» [Mereghetti]) grazie a Grisbi di Becker. Appena dopo, senza perdere colpi «fa la cattiva» [id.] ancora a fianco di Gabin ne I giganti di Grangier, ripetendosi contemporaneamente nella prima Regina Margot, quella di Dréville (verrà oscurata qui, una volta tanto, quarant’anni dopo dalla seconda, la Adjani diretta da Chéreau: nuda l’una, nuda l’altra, sequenza quasi istantanea nel ’54 e prolungata assai nel ’94).

Appena dopo -siamo tra il ’57 e il ’58- l’affermazione completa e definitiva, che le conferisce a trent’anni un’allure e una percezione di grandezza destinate a farsi irreversibili. La determinano nel giro di pochi mesi le mogli adultere cucitele addosso, l’una via l’altra, dal suo autentico pigmalione/innamorato originario, il grande e troppo misconosciuto Louis Malle, allora esordiente, nel formidabile uno-due di Ascensore per il patibolo e di Les amants. Il disperato vagare notturno per Parigi accompagnato dalla tromba di Miles Davis nel primo resterà scolpito e irripetibilmente ripetuto infinite volte ormai anche in rete (perfino la Rai se n’è accorta, non sbagliando una volta tanto la scelta della sequenza mortuaria per i tg!). La sua personale carica erotica nel pur rigorosissimo, quasi algido secondo («la prima notte d’amore al cinema», ne scriverà, ormai sul punto di abbandonare le vesti di critico per la regìa, Truffaut) darà luogo a infinite polemiche e levate di scudi censorie, come allora usava, soprattutto con la presentazione a Venezia e il relativo Leone d’Argento (il Patriarca marciano è ancora Angelo Giuseppe Roncalli, che diverrà Giovanni XXIII sette settimane dopo: nel frattempo è entrata in vigore la legge Merlin, e poco più avanti la danzatrice turca Nanà improvviserà quello spogliarello al Rugantino di cui resterà eco ne La dolce vita…).
Le maglie di un’attività intensissima, anche se sempre qualitativamente sorvegliata -quattro, cinque film l’anno in media nei Sessanta- rendono difficile il seguirla passo passo. È capace di incarnare, a pochi mesi di distanza l’una dall’altra, con Ritt la partigiana ex-collaborazionista di Jovanka e le altre (con amicizia per la Mangano e i bambini De Laurentiis, per i quali resterà sempre “la zia Gianna”) e la terribile Merteuil delle dimenticabili Relazioni pericolose di Vadim; la decisa suor Maria dell’Incarnazione dei misconosciuti Dialoghi delle Carmelitane di Agostini col padre Bruckberger e l’ennesima moglie ricca problematizzata nel Moderato cantabile del poi grande Peter Brook (qui però è importante soprattutto il rapporto con il romanzo della Duras: tra le due nascerà una monumentale amicizia).
Ma sarà proprio Truffaut a darle la collocazione definitiva. Se in pochi ricordano la breve apparizione ne I quattrocento colpi, nel ’63 il capofila della nouvelle vague costruirà, su di lei e sul personaggio affidatole di Kate, uno dei film insieme più perfetti ed eversivi dell’intera storia del cinema: Jules e Jim (i due si ritroveranno un’unica volta, dopo la rinuncia truffautiana a dirigerla, a vantaggio del suo primo effimero marito Jean-Louis Richard, nel delizioso Mata Hari del ’64, nell’altrettanto perfetto ma volutamente in “minore” La sposa in nero, ’68). Sono gli anni del suo tuffo generoso ma non proprio a capofitto, considerato che l’amatissimo Malle sempre se ne stette -o fu tenuto?- un po’ a distanza, nella nuova ondata transalpina: con Godard, Demy e Ophuls figlio (il cui dimenticato Buccia di banana anticipa per certi versi proprio il crudele quanto beffardo Truffaut da Cornwell-Irish de La sposa). Ma anche quelli del contatto col grande cinema dei maestri apolidi esiliati tra America ed Europa: Welles (Il processo, ’62; la Doll di Falstaff, ’66; soprattutto la protagonista di Storia immortale, ’68); Losey (Eva, ’62; Mr Klein, ’76; La Truite, ’82); Buňuel col formidabile Diario di una cameriera, ’64. Poi la love story, tra le tante che adesso i quotidiani non hanno trascurato di rammentare con pignoleria, col …non violentemente etero Tony Richardson, che per lei pianta in asso Vanessa Redgrave (!!) e le loro due figlie, ma non le porta cinematograficamente fortuna (… e il diavolo ha riso, ’66 con Il marinaio del “Gibilterra”, ’67 non finiranno tra i suoi passaggi migliori). E’ ormai abbastanza arrivata da non negarsi a qualche megaproduzione internazionale non ancora designata come blockbuster: ma si era divertita clamorosamente con la Bardot,  dietro la mdp tornato per lei un’ultima volta Malle dopo il Fuoco fatuo del ’63, in Viva Maria!. Incontrerà ancora, tutti sul finire di carriera, Renoir (Il piccolo teatro, ’69), Kazan (Gli ultimi fuochi, ’76), Anghelopulos (Il passo sospeso della cicogna, ’91: ma nel 2007, nel suo spezzone celebrativo di Chacun son cinéma per i sessant’anni di Cannes, il maestro greco inserirà un suo brano da La notte…) e l’assai più giovane Roberto Andò (la consorte pscicanalista di Lampedusa nel Manoscritto del Principe, 2000). Antonioni, col quale si era incontrata infelicemente da protagonista della milanese Notte nel ’61, lo risfiora solo di striscio trentaquattro anni dopo dando vita alla cornice di Al di là delle nuvole, dove però a filmarla in dialogo con Malkovich e Mastroianni sarà direttamente Wim Wenders. Intervenendo in anni più recenti, cercherà di stemperare il giudizio negativo sul maestro ferrarese maturato in quell’occasione, in realtà di fatto confermandolo (merita di essere ascoltata la registrazione che di quell’uscita, 2007, realizzò all’epoca Mario Serenellini: https://www.youtube.com/watch?v=PLLsIWhxnPs. «Nella stanza le donne vanno e vengono / parlando di Michelangelo» citava maliziosamente Visconti al tempo de Il lavoro, rifacendosi al Love Song di T.S. Eliot…).
Ci sarà ancora spazio per… una sessantina di film dopo, a diverso e spesso laterale livello di coinvolgimento: anche con Wenders, il non riuscito Fino alla fine del mondo, 1991; con Ozon, per lo scabro e scabroso Le temps qui reste, 2005; con Oliveira, il per entrambi conclusivo Gebo e l’ombra, 2012. Lasciano nell’insieme il tempo che trovano, prove terminali di un’immensa stagione alle spalle, come per quasi tutti i grandi artisti. Né vanno francamente oltre neppure le sue due regìe, Scene di un”amicizia tra donne (1976, in cui si dirige anche) e L’adolescente (1979, dove ai suoi ordini è un altro monumento al tramonto, Simone Signoret: così come il terzo addirittura Lillian Gish, che intervisterà nell’83!).  Però il suo autentico, irraggiunto e irraggiungibile zenit espressivo, attoriale e canoro -canto del cigno integrale: artistico, estetico, umano, emotivo, sensuale e chi più vuole più aggiunga- lo aveva già raggiunto l’anno prima con la Lysiane di Querelle de Brest da Gênet, che Fassbinder aveva appena fatto in tempo a concludere prima di morire trentasettenne per overdose, con clamorosa e contrastata presentazione postuma a Venezia.
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Ormai da più di un decenio rassegnatamente assuefatto a tenere la contabilità dei via via deceduti nel panorama internazionale per Le Lune del cinema di «Cineforum» (anch’esse lasciatemi in eredità da un altro grande scomparso, Lorenzo Pellizzari), tenderei a rifuggire dal necrologio, genere emotivamente impegnativo: tranne che nei -rari- casi in cui mi renda immediatamente conto dell’impossibilità di non farlo. L’odierno non è uno di questi casi: è, in assoluto, il Caso.
La vita non mi è stata avara di doni, tutt’altro. Certamente uno dei più significativi (i privati li tengo per me, e sono i maggiori) è stato l’aver avuto il privilegio, non comune per chi non bazzichi abitualmente la Francia (ma in fondo anche per chi l’abbia fatto: poco teatro, e saltuario per lei, dopo gli esordi assoluti che però erano già Comédie Française e TNP con Vilar!) di aver veduto recitare dal vivo “la Moreau”. Ne Le recit de la servante Zerline per la regìa di Klaus Michael Grüber, un altro che ha salutato troppo presto. All’ora da poco inaugurato Piccolo Teatro Studio, non ancora “Melato”, di Milano: un indimenticabile attacco d’estate di trent’anni fa giusti, la domenica 21 giugno 1987.
Lo spettacolo, che aveva già un anno di vita e avrebbe resistito ancora per un altro, con duplici lunghe tournées germaniche e francesi, altro non era che il racconto “impossibile”, in forma non di lettura ma di messinscena vera e propria, che costituisce il quinto degli undici concorrenti a formare il romanzo di Hermann Broch Gli incolpevoli (Adelphi l’ha giustamente riproposto in un volumetto autonomo lo scorso anno: il libro, dopo la prima traduzione Einaudi del ’63 e la ristampa dell’81, è oggi incredibilmente fuori mercato in Italia!)
Un monologo di camerierina intenta stira, col ferro impugnato, in piedi all’apposito tavolo, grembiule nero e crestina candida non dissimili da quelli del Diario di una cameriera, ma somministrante un testo, memore di Mozart-Da Ponte e della tradizione mitica di don Giovanni e donna Elvira, ma in realtà riflettente sulla mostruosità del secolo scorso, di rilevanza fondamentale e fondante. (E poi ritrovarsela col fiato sospeso a cena nel tavolo accanto di un ristorante del dopo teatro, tutta in bianco con decolté valorizzante l’abbronzatura, e il cameriere che incredibilmente ne raccoglieva le ordinazioni chiamandola “signora Moreau”…). Non sono feticista né passatista: ma il giorno lontano in cui inavvertitamente una signora delle pulizie ha distrutto il biglietto di quel pomeriggio, debitamente incorniciato insieme a quello del concerto -primo in teatro nella sua carriera- di de Andrè ad Alessandria 1992, ho scoperto per un fugace attimo come persino nella mia remissiva indole potesse albergare al fondo qualcosa di fuggevolmente violento.
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In definitiva, insomma, fino a che qualcuno non dimostrerà in maniera credibile il contrario, Jeanne Moreau è stata la più grande e significativa attrice di cinema nella seconda metà del secolo ormai scorso. Nel nostro continente, senza un attimo di esitazione ad affermarlo. Se non ci mancasse la conoscenza diretta di una buona metà abbondante della produzione del globo, si sarebbe tentati di aggiungere: nel mondo. Sarà sempre vero che il cinema sia “la morte al lavoro”, come sosteneva inattaccabilmente Cocteau: ma nel frattempo darà un determinante contributo, almeno finché i supporti riproduttivi via via più durevoli resisteranno (la celluloide, il vhs, la digitalizzazione, il dvd, il blu-ray…) a rendere, se non eterna come meriterebbe, almeno a sua volta resiliente al Tempo nella Memoria anche l’immensa Jeanne. Riportando pure l’ipnosi della sua voce esile ma intonata, tenera ma graffiante, nelle rare ma a loro volta non dimenticabili canzoni interpretate, a cominciare naturalmente da Le tourbillon che Kate intona in Jules e Jim.

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