L’ufficio complicazioni dello Stato

Pubblicato il 14/08/2017
ALBERTO MINGARDI
Un gigantesco ufficio complicazione affari semplici. Le storie di ordinaria burocrazia che ci racconta La Stampa a questo ci fanno pensare. La pubblica amministrazione appare come un inesausto produttore di ostacoli inutili, rende difficile ai cittadini obbedire alle leggi, fa della diffidenza verso il buon senso il suo primo comandamento.  
Nell’ultimo quarto di secolo, però, procedimenti amministrativi, riorganizzazione degli uffici pubblici, trasparenza, produttività dell’apparato funzionariale sono stati al centro di più riforme: nel 1993, nel 1997, nel 2009 e più di recente nel 2015. Sarebbe ingeneroso sostenere che la burocrazia non sia stata nemmeno scalfita da questi tentativi. E tuttavia bisogna chiedersi perché quella è, grosso modo, l’impressione dei cittadini.  
L’impressione non è nemmeno solo loro. Se prendiamo, nei Worldwide Governance Indicators della Banca Mondiale, quello relativo alla «rule of law» che cerca di misurare l’effettivo grado di indipendenza, prevedibilità, rigore della pubblica amministrazione, vediamo che l’Italia ha un punteggio (64/100) lontano da Paesi come Germania (93), Olanda (97) e Svizzera (98).


Lo stesso vale per la «government effectiveness», che comprende la qualità percepita dei servizi pubblici e la credibilità della Pa: 69/100 contro rispettivamente 94, 97 e 100. 

Dal momento che funziona per procedure e regole, la burocrazia dovrebbe limitare la discrezionalità del potere. Così si pensava cent’anni fa, quando gli Stati avevano compiti tutto sommato limitati.  

Quanto più complesso è l’ordito di norme che governa un Paese tanto maggiore è il potere arbitrario di chi deve attuare la regole o trovare, fra le sue pieghe, lo spazio per un’eccezione. In Italia le leggi vengono applicate per i nemici e interpretate per gli amici. Se ci sentiamo sudditi, è proprio perché non riusciamo a capire le norme alle quali dobbiamo sottostare e ci sembra di essere inermi innanzi a chi ce le fa rispettare. 

Perché la burocrazia non voglia auto-riformarsi, è presto detto.  

I burocrati sono esseri umani come tutti e come tutti fanno i loro interessi. Vorranno mantenere il proprio potere, quando non possono accrescerlo. Del resto, come governare un sistema così macchinoso senza ricorrere a che lo conosce meglio? Naturalmente i politici li trattano coi guanti: ne hanno bisogno. 

C’è anche una questione «culturale», che forse è ciò che davvero ci distingue dalla Svizzera o dall’Olanda. In Italia, governi e funzionari sono uniti dalla convinzione che solo norme rigide e minuziose possono rendere l’interesse privato compatibile con quello pubblico. Ma più sono e più dettagliate sono queste norme, e più diventa probabile che siano incoerenti e persino, di tanto in tanto, in conflitto le une con le altre: la mano destra non sa quel che fa la mano sinistra. 

Si stima che gli adempimenti costino alle piccole aziende il 4% del fatturato (Assolombarda). Questa cultura per cui è legittimo solo ciò che è esplicitamente autorizzato costa molto di più: le occasioni perdute. Grandi o piccole che siano: i lucernai che non sono stati fatti e le imprese che non sono state costituite. 

Le storie che ci presenta «La Stampa» sono tristemente istruttive. E’ vero tuttavia che una persona comune può trascorrere anni interi senza venire a contatto con un ufficio pubblico se non per pratiche di routine. Sono in pochi (sostanzialmente, imprenditori e professionisti) a comprendere davvero quanto è pesante il carico normativo a cui siamo sottoposti. Per questo, quando si discute della bassa crescita italiana, per i leader politici è facile puntare il dito altrove. Le iniziative abortite hanno il vantaggio di essere invisibili. 






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