Londra, la città aperta ferita dal terrorismo ora ha paura del diverso

A Liverpool Street vicino alla moschea di Brick Lane aumenta la diffidenza verso musulmani e stranieri
Quella di Brick Lane è una delle principali moschee di Londra. È frequentata da almeno 3000 fedeli
Pubblicato il 15/08/2017
FRANCESCO GUERRERA
Londra sta cambiando rapidamente. Dopo anni al centro dell’economia, della cultura e della società europea, la capitale del Regno Unito è sotto attacco. Non solo del terrorismo islamico, ma anche della Brexit - che potrebbe lacerare il tessuto multiculturale della città - e dell’instabilità politica senza precedenti. Con una serie di tre articoli che raccontano altrettanti luoghi di Londra , «La Stampa» analizza i cambiamenti in corso di una delle città più decisive al mondo. Oggi si parla di Liverpool Street e quindi di multiculturalismo  
Per osservare le radici multiculturali di Londra, bisogna scendere alla stazione di Liverpool Street e dirigersi a Est, fino a un palazzo in mattoni marroni. La moschea di Brick Lane è a pochi passi, ma molto distante, dalla City di Londra. Dieci minuti a piedi dai signori del denaro con il gessato e le signore con i tacchi a spillo, l’edificio è anonimo, quasi non si volesse fare notare.


Invece degli sgargianti minareti e cupole proprie delle moschee mediorientali, la facciata è sobria, sormontata da una meridiana stile antico-romano, che allude a un passato turbolento. Oggi, la moschea è il luogo di culto per circa 3000 fedeli, parte dell’enorme comunità musulmana di Londra. Ma non è sempre stato così. Il palazzo nacque, nel 1743, come chiesa protestante per gli ugonotti francesi – rifugiati politici e religiosi.  

Un secolo e mezzo dopo, divenne una sinagoga al servizio della comunità ebraica che stava arrivando nell’Est di Londra. E fu solo 40 anni fa che immigranti musulmani provenienti dal Bangladesh lo trasformarono in una moschea. È una staffetta culturale che si ripete un po’ dovunque a Londra. Basta fare un po’ di archeologia urbana e ogni pezzo della città ha una storia variegata, complessa e quasi mai semplice. Etnie, nazionalità, culture si incontrano e si confrontano in un panorama cittadino in moto perpetuo.  

Il risultato, anch’esso quasi mai indolore, è una delle città più multiculurali del mondo. Chi li ha contati dice che i «londinesi» provengono da 270 paesi diversi e parlano 300 lingue. La catena di caffè Pret A Manger, una delle storie di successo del business britannico degli ultimi anni, ha impiegati con 105 passaporti. Sulla metropolitana, al pub e persino nella City, è praticamente impossibile non imbattersi in uno «straniero». 

È facile pensare alla Torre di Babele, ma l’analogia è superficiale. Fino a poco fa, Londra non era un caos di lingue e nazionalità ma il «melting pot» tanto amato dagli americani, il crogiolo che fonde culture diverse senza cancellare le differenze storico-sociali. La stragrande maggioranza dei tre milioni di stranieri che vivono nella capitale contribuisce alla diversità culturale, ma ne gode anche i suoi frutti, dai fantastici ristoranti vietnamiti a Shoreditch al Carnervale caraibico di Notting Hill. 

Per chi, come me, ha studiato e lavorato a Londra per poi ritornarci dopo un decennio passato altrove, la capitale britannica non è mai stata una semplice dimora ma la prova tangibile di come gente di estrazione completamente diversa potesse vivere in relativa armonia, senza cedere troppo spesso alla tentazione di attaccare l’«altro». È sempre un piacere camminare per Hackney, un quartiere dell’Est di Londra, sapendo che è qui che hanno vissuto sia lo scrittore americano Edgar Allan Poe nel 19° secolo, sia Alan Sugar, magnate di origine ebraica che fondò la società di computer Amstrad negli Anni 70 e poi si comprò il Tottenham Hotspur, sia Idris Elba, uno degli attori più gettonati del momento.  

L’inno più commovente a questa multiculturalità è stato scritto da Benjamin Zephaniah, poeta urbano famoso a Londra. Nella sua composizione: «The British», i britannici, Zephaniah descrive la «ricetta» che ha fatto grande la Gran Bretagna. Inizia con i celti, gli anglo-sassoni e i romani ma poi dice: «aggiungete i cileni calienti, i giamaicani rilassatissimi e i dominicani», e mescolateli con «i somali, i cingalesi, i nigeriani e i pachistani», e così via. «Gli ingredienti», dice il poeta, «sono tutti ugualmente importanti. Utilizzarne uno più degli altri porterà a un pasto indigesto».  

Ma molto è cambiato negli ultimi mesi. A partire da Brexit. Chi ha votato per uscire dall’Europa dell’anno scorso ha avuto tanti motivi ma il rifiuto dell’essenza muticulturale di Londra o, peggio ancora, il razzismo, erano tra quelli. Basta ascoltare, il leader del Uk Independence Party Nigel Farage, la star della campagna-Brexit. «Il multiculturalismo è fallito in Gran Bretagna. Ed è fallito anche in Francia. È fallito in ogni Paese in cui è stato messo in pratica», ha detto Farage. Una parte della popolazione britannica è, purtroppo, d’accordo. 

L’idea è semplice e semplicistica: gli immigranti rubano lavoro agli «indigeni», abusano dei servizi pubblici, diluiscono l’identità culturale del Paese. È lo stesso messaggio che ha permesso a Donald Trump di installarsi alla Casa Bianca. Che ha causato gli atti beceri di Charlottsville al weekend. E che ha fatto sì che partiti estremisti facciano la voce grossa in mezza Europa. 

Peccato che i fatti non concordino con la retorica. Che i contributi economici degli immigranti siano fondamentali al benessere della Gran Bretagna (chiedete a Pret a Manger, ma anche al servizio sanitario britannico con infermieri e dottori di mezzo mondo, o alle banche d’affari). Ma c’è di peggio. Gli attacchi terroristici di London Bridge e, prima ancora, a Westminster, hanno messo i riflettori sulla comunità musulmana, creando un clima di ostilità e sospetto che non si respirava da anni.  

Anche nei circoli «illuminati» e benpensanti dei media e del commercio si incominciano a sentire discorsi strani. «La “loro” Londra non è la “mia” Londra», mi ha detto un capo della finanza di recente, una distinzione che sa di discriminazione. Londra non è mai stata un’isola completamente felice. Il razzismo e la violenza contro gli immigranti non sono un fenomeno nuovo e la sperequazione sociale ed economica è una costante della società britannica. 

Ma gli eventi degli ultimi mesi hanno incrinato una delle pietre angolari del crogiolo: il principio che Londra non guarda a passaporti o conti in banca. Che Londra accetta chi viene e non chiede da dove provengano o in cosa credano. Che Londra è più bella e solida se è fatta di esperienze diverse. Come quei mattoni secolari di Brick Lane.  



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