L’«eterogenesi dei fini» e le molte facce del populismo, by, Bruno Soro

Bruno Soro
«In casi di crisi che obbligano la gente a scegliere tra varie linee di condotta, la maggioranza sceglierà la peggiore possibile».
Legge di Rudin, da “Le Leggi di Murphy”, Murfologia, Capitolo 1
Raramente mi è capitato di condividere, pressoché nella loro interezza, due articoli, su temi tanto diversi quanto controversi, come quello di Sergio Fabbrini [1] su “Le molte facce del populismo che vince anche se perde”, e di Franco Livorsi [2] su “Il suicidio della sinistra”. Mi limiterò pertanto ad evidenziare unicamente gli aspetti sui quali non concordo.
Dopo aver magistralmente messo in evidenza come “I movimenti o i partiti populisti continuino ad essere attori permanenti della politica europea” - sia sotto la forma di un “nazionalismo populista” (come in alcuni paesi dell’Europa dell’Est, quali la Polonia e l’Ungheria), sia sotto la forma di “populismo nazionalista” (come in alcuni paesi dell’Europa dell’Ovest, la Francia e l’Italia) -, Fabbrini riconduce le cause del fenomeno a tre ordini di fattori:
i)                   in quanto stato d’animo, il populismo “è un sentimento carsico secondo il quale il popolo è migliore (più virtuoso, più onesto, più autentico) delle sue élite”: un’idea di popolo che, fatto coincidere con una nazione, “è all’origine di tutti i mali (…) di tutti i movimenti autoritari e totalitari europei degli ultimi due secoli”; 
ii)                in “secondo luogo, e di conseguenza, il populismo è anti-pluralista”, per cui ciò che rileva “è l’unità morale del popolo”.  E questo spiegherebbe perché i “populisti sono contrari alla democrazia rappresentativa” e i loro avversari “sono nemici da disprezzare, élite corrotte e traditrici”. In quest’ottica, dunque, è compito dei populisti “portare il popolo ad esercitare direttamente il suo potere”;

iii)              il fenomeno del populismo, infine, sarebbe riconducibile “agli errori commessi dai partiti storici nella gestione delle crisi multiple che hanno attraversato l’Europa negli ultimi dieci anni”. Partiti storici che, “per via delle sfiducie reciproche e degli interessi divergenti tra i governi nazionali”, hanno dato vita “allo sviluppo di un approccio decisionale che si è affidato alle regole e non alla politica per affrontare le sfide”.
Ora, siccome qui da noi il malessere sociale conduce ad una “inaccettabile disuguaglianza sociale e ad un’ingiustificabile paralisi del progetto di integrazione”, Fabbrini giunge alla conclusione che “il populismo (andrebbe) contrastato anche sul piano culturale, in quanto rappresenta una vera e propria minaccia esistenziale per la democrazia rappresentativa”.
In che cosa dissento dall’analisi di Fabbrini? Premetto che il mio dissenso non ha nulla a che vedere con le molteplici cause del fenomeno, essendo riconducibile all’articolo di Franco Livorsi, il quale auspica che i leader dei partiti anti-populisti, “se vogliono svuotare il richiamo populista”, dovrebbero farsi carico di promuovere un cambiamento radicale in grado di “cambiare l’agenda e il linguaggio del nostro paese”. Quali leader, mi chiedo, nel panorama politico italiano, dominato a destra come a sinistra (taccio per pudore su quelli del “centro”), avrebbero l’autorevolezza per attuare tale ‘cambiamento radicale’ o, per dirla con Fabbrini, del ‘piano culturale’?
Se è vero, infatti, come scrive Livorsi, che “nel 2013 [il Partito Democratico] aveva finalmente trovato un leader giovane intelligente, determinato e dotato di incredibile energia realizzativa”, potrei sbagliarmi, ma a causa di quella serie di «conseguenze non intenzionali di azioni intenzionali», ovvero quel “campo di fenomeni i cui contorni e caratteri - come si legge su Wikipedia - trovano più chiara descrizione nell'espressione nota come «eterogenesi dei fini»”, in soli tre anni quel “giovane leader intelligente” ha compiuto il miracolo di distruggere sé stesso, il suo partito, e di portare la sinistra italiana intera - che, sia ben chiaro, ci ha messo del suo -, a quel “suicidio” politico così ben descritto da Livorsi.
Egli ritiene che “il nostro convento, direi dalla morte di Berlinguer, non aveva passato nessuno migliore di lui (si chiamasse Occhetto, D’Alema o Prodi [(?!?) punteggiatura aggiunta] o Bersani, tanto per essere chiaro)”. E no, caro Franco, al solo scopo di rinfrescare la tua memoria, già nel settembre 2013[3], scrivevo che nell’ottica del «cambiamento di stile» introdotto da Matteo Renzi, “parole come «equità» e «solidarietà», che appartengono a pieno titolo al linguaggio della sinistra, (venivano) estromesse dal suo vocabolario”. Da grande comunicatore qual è, pensavo che egli sarebbe stato certamente in grado di “colmare il deficit di empatia” della sinistra, ma mi dichiaravo già fin da allora non altrettanto sicuro “della sua capacità di saper esercitare, diversamente da quanto sta(va) dimostrando Enrico Letta, «l’etica della cura»[4], nonché l’«ampliamento delle potenzialità» (empowerment)[5]: due funzioni strettamente interconnesse che uno stato efficiente deve saper svolgere”. Ora, se il cambiamento di stile che Matteo Renzi ha introdotto nel linguaggio della politica, concludevo, “non può non essere apprezzato, da solo ciò non è sufficiente a colmare quel “deficit di fiducia” (per carenza di autorevolezza) che ha fino ad ora impedito ad alcuni suoi potenziali elettori di sostenerlo apertamente, considerandolo, a torto o a ragione, come lui stesso ebbe a scrivere di “sempre il solito bischero”. Dopo solo due mesi, in un altro mio scritto[6] manifestavo la mia “netta sensazione (…) che in questi ultimi tempi i suoi avversari politici, siano essi esterni o interni al PD, abbiano messo in atto la strategia della rana bollita contro di lui”. Sbaglierò, ma il suo ‘sogno del 41%’, ottenuto alle elezioni per il Parlamento Europeo in condizioni irripetibili, è destinato a rimanere tale.
Pertanto, pur concordando con Livorsi sul fatto che “il suicidio della Sinistra, che rattrista molto me – scrive Livorsi – come tanti altri (oltre a tutto pensando a chi vincerà)”, resto convinto fino a prova contraria che, come sosteneva Stefano Rodotà, “la differenza fra destra e sinistra esiste eccome”.[7] Sperando questa volta di sbagliarmi, penso che, analogamente a quanto sostiene Fabbrini, alle prossime elezioni “anche se perde, il populismo vincerà”. E non mi riferisco tanto al populismo del M5S, che non sta dando buona prova di sé e che, qualora al Governo, porterebbe il paese allo sfascio totale e fuori dall’Europa, quanto a quello, già abbondantemente provato ed inconcludente, del centro-destra dei vari Governi Berlusconi. Quello stesso centro-destra (più destra che centro, per intenderci) al quale gli alessandrini hanno riconsegnato nelle stesse mani di quel variegato entourage che lo aveva fatto precipitare il Comune di Alessandria nella situazione finanziaria stigmatizzata nel 2012 dalla Corte dei Conti. La storia non si ripete mai allo stesso modo, ma come vorrei sbagliarmi!
La Salle, 5 agosto 2017


[1] Professore di Scienze politiche e Relazioni internazionali della LUISS di Roma, nonché editorialista de Il Sole 24 Ore. L’editoriale citato è di domenica 16 luglio 2017.
[2] Già professore di Storia delle dottrine politiche nelle Università degli Studi di Milano e di Torino, Città Futura, giovedì 27 luglio 2017.
[3] “Cambiamento di stile”, in Città Futura, 14 settembre 2013.
[4] Intendendo con ciò quel complesso di competenze che consistono nell’esercizio della «protezione»”, ovvero la ‘sicurezza sociale’, il ‘controllo delle malattie e della sanità pubblica’, ‘alimenti sicuri’, ‘aiuti in caso di calamità’, ‘tutela del produttore e del consumatore’, ‘tutela ambientale’).
[5] Ossia “quell’insieme di infrastrutture, reali, sociali e finanziarie il cui scopo è “di massimizzare la libertà di perseguire i nostri obiettivi”.
[6] “Matteo Renzi e la strategia della «rana bollita», Città Futura, 28 novembre 2013.





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