La visita di fabrizio centofanti


Se un extraterrestre approdasse sulla Terra, avrebbe molte cose da ridire. Risalterebbe subito la mancanza di cordialità, l'antagonismo, l'atteggiamento difensivo diffuso un po' dovunque. Perché tanta paura? Perché questa mancanza di condivisione? Poi noterebbe la freddezza nel compiere riti che dovrebbero invece rallegrare: le facce scure, l'aria depressa della gente chiusa nel tempio, l'indifferenza fra un tavolo e l'altro in ristoranti e trattorie, l'assenza di saluti negli auditori e negli stadi. Proverebbe a interrogare la persona che gli accadesse d'incontrare, e chiederle, che so: come stai, o cosa consideri più bello nella zona in cui risiedi? Ma la risposta sarebbe un silenzio sospettoso, un'alzata di spalle, un inarcamento rapido di sopracciglia, che direbbe assai più delle parole. L'extraterrestre, allora, proverebbe a raccontare qualcosa del suo mondo, cercherebbe di suscitare un interesse, un desiderio di contraccambiare la visita di cortesia. Parlerebbe di luoghi in cui la gente si ferma a conversare, a scambiarsi oggetti, ricordi, sensazioni. Tenterebbe di contagiare un entusiasmo, un inizio di sana emulazione, la speranza di cambiare, non tutto in una volta, ma almeno un poco al giorno.
Alla fine, gli individui, i capannelli, la folla, lo prenderebbero di peso, trascinandolo all'uscita della loro malinconica città; lo appenderebbero a un palo, come monito per qualunque extraterrestre cui saltasse in mente l'idea balzana di venire qui. Molti rimarrebbero stupiti di non vederlo più sospeso in alto, il terzo giorno; si chiederebbero perché, e quando, e in che maniera sia possibile sparire e non lasciare traccia. Poi, con un'alzata di spalle, tornerebbero a guardarsi di traverso, a ignorarsi, a farsi dispetti da nulla, ma sempre fastidiosi.

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