Gli animali che siamo quando parliamo, di Paola Re

Gli animali secondo gli uomini: di scena specismo, sessismo, razzismo che ci distinguono
«Il fascismo privilegiava i somari in divisa. La democrazia privilegia quelli in tuta. In Italia, i regimi politici passano. I somari restano. Trionfanti», così scriveva Indro Montanellinel 1987 in ‘Controcorrente, 1974–1986‘. Anche lui non ha resistito al presunto fascino di citare gli animali come esempio di vizi e virtù umane.

I somari, loro malgrado, portano un pesante fardello sulle spalle: li abbiamo sentiti nominare tra i banchi della scuola elementare e le loro orecchie riprodotte in cartone hanno fatto il giro di parecchie teste di alunni e alunne negligenti, associando la figura del somaro alla negligenza, non si sa bene su quale fondamento. Oggi non si segue più questa ignobile pratica, non tanto per rispetto della dignità del somaro, ma perché si pensa di offendere bambini e bambine, come se il paragone con il somaro fosse un’offesa. In politica, dove non si ha a che fare con i minori, la metafora del somaro è apprezzata e, in quel caso, sono i somari ad avere ragione di offendersi, viste le performances di certi personaggi seduti nei palazzi del potere.
Parecchi modi di dire legati ai comportamenti e alle caratteristiche degli animali nascono soltanto dall’ignoranza: chi ignora le caratteristiche di una specie, si lascia trascinare dai luoghi comuni.
Usando un’altra metafora animale inopportuna si direbbe che ‘segue il gregge’, ignorando anche in questo caso che le pecore stanno nel gregge perché sono intelligenti. «Nell’organizzazione di un gregge di pecore c’è ben più di quanto l’occhio umano possa comprendere o intuire con un rapido sguardo. Tutti gli ovini sono infatti intenti ad alternare delle fasi lente di dispersione del gruppo ad altre in cui si riuniscono il più rapidamente possibile, imitando il comportamento delle vicine. È così che ottimizzano l’area che riusciranno a brucare, assicurandosi allo stesso tempo di tornare in gruppo al più presto nel caso un predatore dovesse fare la sua comparsa. Si tratta di un’organizzazione che porta con sé molti benefici, aumentando le possibilità di proteggersi dai predatori, a partire dal fatto che li si avvista prima, e facilitando il compito di foraggiamento del cibo. Il collante di quest’efficacia, spesso, è proprio la capacità di imitarsi gli uni con gli altri coordinando così gli sforzi». L’intelligenza collettiva è una strategia di cooperazione che permette di collaborare unendo competenze e abilità singole: impariamo a farne uso osservando un gregge, anziché denigrarlo.

Sono innumerevoli gli esempi che si possono fare prendendo come termine di paragone gli animali. Dal sopra citato asino: essere ignorante come un asino, avere orecchie da asino, essere un somaro; al vituperato maiale: essere sporco e grasso come un maiale, mangiare e puzzare come un maiale.

Il maiale in politica occupa un posto di riguardo, al punto da essersi guadagnato anche il nome di una legge: il ‘Porcellum‘, e non mancano le esternazioni di politici nel definire porcate o porcherie le imprese degli avversari.
Quanto a odore e intelligenza, anche la capra è una vittima illustre del puzzare come una capra, essere ignorante come una capra, se non che pure lei ha avuto la sua redenzione attraverso un recente studio della Queen Mary University of London. «I nostri risultati sfidano l’equivoco comune che le capre non sono animali intelligenti: esse hanno la capacità di apprendere compiti complessi e li ricorderanno per molto tempo».
Poi c’è il popolo bue, quello che non ragiona, ma va avanti a suon di bastonate con paraocchi e giogo che, guarda caso, gli sono appioppati dall’essere umano, tant’è che quei pochi buoi con la fortuna di vivere liberi si comportano in modo diverso rispetto a quando sono schiavizzati.
Nella cattiva sorte c’è l’uccellaccio del malaugurio, i gufi che col loro gufare mandano in rovina l’Italia, secondo il pensiero del nostro Presidente del Consiglio, il pesce che puzza dalla testa, il tagliare la testa del serpente o, ancora più diffuso, quella del toro che all’occasione va preso per le corna, lo strisciare come un verme magari un lurido verme… che rende meglio l’idea. Anche il migliore amico dell’uomo non se la passa tanto bene:fare una vita da cane, morire come un cane, essere un cane bastonato sono trattamenti non propriamente principeschi.
Se vogliamo rifarci pensiamo che si può essere fedele come un cane, avere le gambe da cerbiatta, l’eleganza di un gatto, la vista di un falco, essere agile come una gazzella, furbo come una volpe, tenero e dolce come un cucciolo.

Nell’uso del linguaggio nasce buona parte della discriminazione razzista, sessista especista, quest’ultima meno sentita ma molto più presente nella vita quotidiana. Lo specismo, termine, coniato nel 1970 dallo psicologo britannico Richard Ryder, in analogia al razzismo e al sessismo, indica la discriminazione di individui non umani. Lo specismo si manifesta ovunque: nel cibo, nell’abbigliamento, nella ricerca scientifica, negli sport caccia e pesca, negli spettacoli in cui si esibiscono gli animali.

Dal linguaggio specista a quello razzista il passo è breve: i neri paragonati a gorilla, oranghi, mangiatori di banane sono all’ordine del giorno, anzi, all’ordine domenicale, visto che il luogo in cui queste sortite hanno più successo è il campo da calcio.
Il sessismo chiama in causa gli animali per dare la migliore prova di sé; l’uso di termini quali oca, gallina, cagna, vacca, troia, porca, gatta morta sono doppiamente gravi poiché ledono la dignità della femmina umana e non umana. In questo caso dovrebbero essere le donne a comportarsi in modo tale da fare la differenza. Chi si sente rivolgere l’epiteto di oca, oca starnazzante, oca giuliva, dovrebbe rispondere serenamente, citando la grande intelligenza delle oche, testimoniata da innumerevoli studi etologici. E senza scomodare studi scientifici, basta leggere un testo alla portata di tutti, ‘L’anello di Re Salomone‘, scritto dal padre dell’etologia Konrad Lorenz, in cui le vicende dell’ochetta Martina riescono a stupire chiunque.

Poi c’è il proverbiale cervello da gallina, mai passato di moda, ma recentemente smentito da uno studio della Vanderbilt University secondo il quale il cervello degli uccelli, pur se piccolo, contiene un numero di neuroni superiore a quello dei mammiferi.

Chi definisce una donna ‘vacca’ forse non ha mai visto come si comporta una vacca a cui è sottratto il vitello appena nato perché, come ‘vacca da latte’, non le è concesso allattare e dare il sostentamento materiale e psicologico al cucciolo separato crudelmente da lei: i muggiti con cui lo chiama invano sono un segnale dello strazio che prova e ci fanno capire che ‘vacca’ non è affatto un’offesa.
Si definisce ‘maiala’ una donna, pensando di offenderla nei suoi comportamenti sessuali, senza sapere che la scrofa, femmina del maiale, è una madre amorevole e premurosa. In natura, prima di partorire, cerca foglie o rami per costruire un nido sicuro per i suoi piccoli e, dopo avere partorito, è molto attenta a non schiacciarli, consapevole della sua mole. Purtroppo gli esseri umani imprigionano le scrofe negli allevamenti intensivi tra il fango e gli escrementi, immobilizzate nelle agghiaccianti gabbie di gestazione, impossibilitate a interagire con i cuccioli.
Il Vocabolario della lingua italiana Treccani, alla voce ‘tròia’ indica la femmina del maialecon riferimento a quella destinata alla riproduzione ed elenca come sinonimi: bagascia, baiadera, baldracca, battona, bella di notte, buona donna, cagna, cocotte, cortigiana, donnaccia, donna da marciapiede o di malaffare o di strada o di vita o di facili costumi, donnina allegra, etera, falena, gigolette, lucciola, lupa, malafemmina, marchettara, mercenaria, meretrice, mignotta, mondana, passeggiatrice, peripatetica, prostituta, putta, puttana, squillo, sgualdrina, taccheggiatrice, vacca, zoccola, e per finire anche il prestito dalla lingua inglese ‘call girl’. In questa degradante galleria linguistica, che cosa c’entrano le femmine animali?
Spesso i mass media prendono a paragone gli animali soprattutto nel presentare persone in stato di disagio: morti come topi, stivati come carne da macello, trattati come bestie sono espressioni facenti parte del lessico giornalistico. I delinquenti, gli stupratori, i pedofili, i killer seriali sono talvolta definiti animali, bestie, belve ma bisogna ricordare che questi protagonisti della cronaca nera appartengono alla squisita specie umana.

Ogni volta che accadono calamità naturali, come il recente terremoto, sono chiamati in causa gli sciacalli per indicare le persone che entrano nelle case momentaneamente abbandonate per rubare. In realtà questo è un comportamento non ascrivibile agli sciacalli veri, che non fanno nulla di ciò: simili a lupi di piccola-media taglia e a volpi, mangiano un po’ di tutto, compresi i cadaveri di animali già morti o uccisi da altri, facendo ciò che fa la maggior parte degli esseri umani non definiti i tale modo.

In questi giorni sono tornati alla ribalta anche i topi per la vicenda dei frontalieri italiani che lavorano in Svizzera dopo che gli elettori del Cantone svizzero hanno approvato l’iniziativa popolare ‘Prima i nostri’ per frenare il flusso degli oltre 60.000 frontalieri italiani che ogni giorno attraversano il confine per recarsi a lavorare in Ticino. Già nel 2010 una campagna denominata ‘Balairatt’ prese di mira gli allora 45.000 frontalieri, cioè i ‘ratt’, che invadevano il Ticino per rosicchiare il formaggio indigeno, simbolo dell’opulenza svizzera. Il Governo cantonale ticinese condannò la campagna, considerandola offensiva nei confronti dei frontalieri. Dopo la campagna ‘Balairatt’, arrivò quella ‘Ronfaigatt': un partito politico del Ticino stampò i manifesti della nuova offensiva antistraniera con i maggiori partiti del Cantone travestiti da gatti che dormivano pigramente mentre i ratti rubavano il formaggio. L’obiettivo, lo stile e i concetti delle due campagne erano gli stessi: cambiavano solo gli animali, mantenendo come sempre il ruolo di vittime.

Quando ci si lamenta del fatto che certi esseri umani siano trattati come animali, si aziona il meccanismo della gerarchia delle oppressioni, per cui una crudeltà risulta più o meno accettabile di altre: costruire questa gerarchia crea le condizioni affinché ogni oppressione sia possibile. Usare l’oppressione esercitata sugli animali come termine di paragone per denunciare il trattamento degli esseri umani, equivale a legittimare questa oppressione: è come dire che non è permesso trattare gli esseri umani in un certo modo ma gli animali sì.

Certe offese pronunziate nei confronti degli animali dovrebbero essere oggetto di denuncia, come lo sono quelle razziste e sessiste, se esistesse un’autorità di garanzia per i diritti degli animali a livello nazionale, così come esiste in certe realtà locali: forse sarebbe un passo avanti saggio, ma non risolutivo della questione, soprattutto perchéquesta battaglia non si vince a suon di prescrizioni, ma con un percorso di crescita culturale che dovrebbe iniziare dall’infanzia, insegnando che agli animali è dovuto il rispetto anche quando si parla di loro in una lingua che loro non riescono a comprendere.
Si dice che chi parla male pensa male. Forse chi parla male pensa peggio, perché spesso il linguaggio esprime solo una parte di ciò che si prova intimamente: vale anche nel caso di sentimenti positivi per i quali si dice spesso che ‘non si possono esprimere a parole': in quel caso, chi parla bene, pensa meglio.
Il cambiamento della società passa anche attraverso il linguaggio che influenza il pensiero, come il pensiero influenza il linguaggio. Un linguaggio migliore è segno di una migliore visione della vita.


Commenti

Post più popolari