La direttrice generale (racconto breve di fantasia di Davide Morelli)



Si mise a sedere nella poltrona direzionale. Tirò un sospiro di sollievo. Anche quella giornata lavorativa era finita. Non le restava che salire in macchina e l'autista l'avrebbe portata a casa dove l'aspettavano suo marito con i suoi tre figli. Aveva da sistemare una piccola faccenda in sospeso. Una roba da niente! Era stata tre ore in consiglio di amministrazione. Non ne poteva più di analisi di bilancio, consuntivi, budget, transazioni, azionisti, dividendi, start-up, business plan, utili, dividendi, premi, licenziamenti, margine di contribuzione, perdite, ricavi, fondi pensione, interessi, redditività, paradisi fiscali. Fino ad allora aveva sbagliato ben poco. È vero che nessuno era infallibile, ma lei rasentava la perfezione. Lei riusciva a ridurre il margine di errore anche quando il margine di rischio era molto alto. Poi si avvaleva di professionisti molto validi che si era saputa scegliere con cura e capacità. Lei si accorgeva subito se uno era valido o meno. Aveva più intuito di molti cacciatori di teste! Insomma sapeva lavorare, sapeva fare l'imprenditrice come suo padre del resto. Per un attimo pensò a quella piccola faccenda in sospeso, a quel personaggio di così infimo livello. L'avrebbe sistemato lei. Avrebbe reso pan per focaccia. E dire che pochi credevano in lei all'inizio. Il maschilismo era così diffuso in ogni ambito lavorativo. Non si era mai stupita di quella diffidenza che la circondava. Aveva fatto cambiare idea a molte persone. Aveva tagliato rami secchi dell'azienda. L'aveva resa più produttiva. Nonostante i mille impegni era riuscita a essere sempre presente come madre e a fare felice suo marito. Restava un nodo al pettine: quella rivalità, quell'antagonismo con suo fratello! Chi era il più efficiente? Chi era il migliore tra i due? Era difficile stabilirlo. La questione era aperta. Dipendeva dai punti di vista. Poi avevano entrambi ottimi risultati e si occupavano di aspetti così diversi della società. Era difficile paragonare e valutare. Tutto ciò comunque era tollerabile. Non era un elemento così drammatico o problematico della realtà che non la facesse dormire. Ma c'era un'ombra leggera che si stagliava sul cuore. Quello sfigato ogni tanto ritornava nella sua mente e lei non sapeva come scacciarlo. Era quell'uomo che agitava le sue notti, interrompeva bruscamente i suoi sonni. Eppure non si ricordava quasi come era fatto. Era una figura indistinta del passato. Erano passati trenta anni dal loro incontro. Ma poi non era neanche una storia d'amore. Era una non storia. Non si trattava neanche di un rifiuto perché quell'esserucolo non aveva neanche avuto il coraggio di rifiutarla. Si erano conosciuti in una discoteca di Rimini. Lei era venuta con la Ferrari. Lui era in vacanza per qualche giorno lì. Lei di solito non amava mischiarsi con il popolo. Quella sera invece voleva qualcosa di diverso. Voleva divertirsi e quel ragazzo poteva essere un buon diversivo. Così rozzo e provinciale, così volgare e per niente bello era tuttavia così originale! E poi le piaceva la sua intraprendenza. L'aveva invitata a ballare. Si era dimostrato sicuro e allo stesso tempo impertinente. Lei le aveva detto di chi era figlia. Lui aveva iniziato a ridere e poi nell'orecchio le aveva risposto che lui era il figlio illegittimo del Papa. Forse non le aveva creduto. Quella sera entrambi avevano bevuto dei drink superalcolici. Erano entrambi su di giri. Poi lei le aveva chiesto se i soldi erano importanti per lui. E lui le aveva risposto che non voleva i soldi di suo padre ma che i soldi gli sarebbe piaciuto guadagnarsi da sé. Solo che non era assolutamente facile guadagnarsi i soldi e lui nel proseguo della sua vita non c'era assolutamente riuscito. Ma poi chi sapeva come erano andate le cose? Chissà cosa aveva desiderato e cosa aveva voluto veramente? Non era riuscito a fare soldi o non era mai stata una ragione della sua vita quella?  Ma perché ripensare a dettagli così irrilevanti, a questioni così inessenziali? Ormai era diventato un uomo attempato, trasandato, aveva perso ogni attrattiva. Era un uomo solo, un fallito, un perdente. Perché rovinarlo? Perché fargliela pagare? Avevano ballato avvinghiati tutta la sera. Lei gli aveva lasciato il suo numero di telefono, ma lui non l'aveva più chiamata. Sul subito aveva pensato che fosse successo qualcosa di grave, che fosse morto, in coma, all'ospedale o comunque fosse impossibilitato dal chiamarla. Poi se ne era fatta una ragione ed era passata oltre. Si era fidanzata e si era sposata. Aveva fatto figli e rimosso dalla mente quell'esserucolo. Ma all'improvviso un giorno l'aveva riconosciuto. L'aveva seguito. Aveva visto che abitava in uno dei palazzi di sua proprietà. La vendetta è un piatto che si gusta freddo. Così aveva pensato. Ma c'era una parte di lei che diceva di lasciar correre, di lasciar stare. Si era informata. Era un lavoratore precario che a stento riusciva a pagarle l'affitto. Aveva parlato con chi le teneva l'amministrazione. Lei doveva occuparsi della corporation di famiglia. Non si occupava certo delle beghe di condominio. Però quella volta pensò che le avrebbe aumentato l'affitto in modo da sfrattarlo il prima possibile. Non aveva neanche avuto il coraggio di dirle di no o di dirle "non mi piaci". Questa sua mancanza di determinazione l'avrebbe pagata. Oramai aveva preso quella decisione, avrebbe fatto in modo di sfrattarlo e ci sarebbe riuscita, ma qualcosa la tormentava sempre più, il senso di colpa per tutto ciò aumentava ad ogni ora. Si sarebbe tolta un peso dalla coscienza andandosi a confessare e devolvendo una bella cifra in beneficenza ad una organizzazione che si curava dei poveri del mondo. Avrebbe compensato così quella ingiustizia compiuta. In fondo qualsiasi essere umano con le sue stesse responsabilità e il suo stesso potere decisionale avrebbe compiuto qualche ingiustizia. Da che mondo è mondo esistevano simpatie, antipatie, colpe e meriti. Quell'omuncolo non si meritava niente. Doveva pagarla. Lui non avrebbe mai saputo niente. Sarebbe sempre stato ignaro di tutto ciò. Forse sarebbe stato meglio se ne fosse stato consapevole. Ma forse era meglio se avesse creduto in un potere terrificante e senza volto. 

Il lavoratore precario, noncurante di tutto, mancato fidanzato per sua scelta della grande direttrice generale, di ritorno dal lavoro entrò in casa si levò gli abiti, si tolse le scarpe, si mise in pigiama e si mise a leggere dei versi di Kavafis:

"A certi uomini arriva un giorno

in cui devono dire il grande Si

o il grande No. Si riconosce subito colui

che in cuor suo ha pronto il Si, e pronunciandolo

fa un passo in là nella sua stima e nella convinzione.


Ma chi ha fatto il rifiuto non si pente. Se tornassero a chiederglielo

No direbbe ancora. Eppure ne viene stremato

da quel No - così giusto - per tutta la sua vita."


 

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