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PSICOSTORIE | Le memorie del manicomio

PSICOSTORIE | Le memorie del manicomio

Non dimenticare.

Per scrivere alla Dott.ssa Bianchi Mian: dott.ssavaleriabianchimian@gmail.com 

Riceverete una risposta in privato, potrete comunicare con la Dottoressa, e uno dei temi indicati dai lettori sarà successivamente trattato in un articolo.

In questi giorni, complice forse il rientro dalle vacanze, mi capita di sfogliare (non senza un pizzico di nostalgia) i vecchi album delle fotografie di famiglia. Per noi psico-cose, la memoria delle storie trans-generazionali è un intreccio vitale, è il reticolo delle vene e delle arterie nelle quali scorre il sangue della nostra ricca Psiche. Tra i volti noti e meno conosciuti oggi ritrovo i tratti del viso di Giovanni, un defunto zio di mio marito che di mestiere faceva l’infermiere nell’ospedale psichiatrico di una grande città del Nord Italia.

“Andavamo a cercarli al bar. Li portavamo a casa perché ci dispiaceva”.

Siamo io e Giovanni sul Lungo Po. Lo zio ha novant’anni di storie da raccontare, memorie di opere archiviate con la stessa costanza che ha  dimostrato nel tirar su le piante nel suo orto. Quarant’anni son passati da quando Franco Basaglia ha lasciato questo mondo, dopo aver dato il La alla sinfonia del cambiamento, trasformando il sistema dei servizi di salute mentale in Italia. Un sistema che è passato dal concetto di istituzione chiusaa una legislazione che punta (che dovrebbe puntare, diciamo) al rispetto della libertà individuale, alla cura della persona.

Giovanni ama passeggiare nei boschi, soprattutto di mattina presto, e lo fa anche in autunno e in inverno.

“Andavamo a prenderli sotto la neve. Mi ricordo di Lucia, che era mezza svestita e gridava. Le ho dato la mia giacca e l’ho accompagnata da sua madre.”

China il capo brizzolato, sospira. Potrebbe, dice, raccontarmi molte storie ma il passato sembra sempre migliore di quel che è stato e la memoria fa brutti scherzi, perché a volte duole.

Negli anni in cui ho lavorato nel servizio di prevenzione delle demenze occupandomi dei caregiver di pazienti con Alzheimer a Collegno, transitavo volentieri per il Parco della Certosa nel recarmi a Villa Rosa e poi negli uffici dell’ASL, negli studi medici che hanno preso possesso dei locali nell’ex ospedale psichiatrico.

Attraverso i cortili, camminando lungo i corridoi, ascoltavo i miei stessi passi rimbombare sulle piastrelle antiche. Eccomi lì, ferma in una fotografia insieme a una collega. Una sosta nel verde, sedute sopra un muretto: lascio che l’immaginazione si attivi. Mi pare quasi di sentirle ancora, le voci della sofferenza rinchiusa in una stanza perché non urlasse al mondo la propria esistenza scomposta. Un colombo si alza in volo, ignaro del cambiamento che ha coinvolto nel tempo questo luogo dell’anima.

Quando i ricordi vanno perduti, la nostra identità vacilla, non sappiamo più chi siamo e che cosa rappresentano per noi il mondo che ci circonda e, sopratutto, gli altri. Mantenere viva la rimembranza è un esercizio cognitivo – e affettivo – individuale e anche collettivo. Da un territorio non si cancella la storia degli abitanti: piuttosto, una città (e la sua provincia) è impegnata in un’opera di continua trasformazione.

La Lavanderia a Vapore, per esempio: uno dei padiglioni di quel che è stato il vecchio manicomio, oggi ospita danzatori e spettacoli internazionali. E ancora: l’Università di Scienze della Formazione qualche anno fa ha avviato le proprie attività accogliendo migliaia di studenti in quello che è stato il padiglione numero 4. La cultura della cura non è definita ma è piuttosto un’evoluzione fatta di piccole e grandi crisi e di altrettante possibilità di rivoluzione per migliorare il modo in cui offriamo alle persone un nuovo status.

De-istituzionalizzare i pazienti è un percorso ancora in fieri: lo sanno bene coloro che operano negli ospedali e negli SPDC o nelle cliniche.

La sindrome della porta girevole (revolving door syndrome), “e cioè il continuo ricorso al ricovero, alternato a tentativi falliti di ritorno in famiglia” è sempre in agguato a mostrare la danza tra autonomia e dipendenza, tra successi terapeutici e irriducibilità della malattia.

Quaranta e più anni fuori dal cancello ma le memorie riattivano la Storia -dalla quale, si dice, bisognerebbe sempre imparare. L’infermiere Giovanni e la paziente Lucia vagabonda, i medici, gli psichiatri, gli psicoterapeuti si incontrano ed entrano in relazione. Le persone vengono accolte, compiono percorsi, vanno e ritornano. Vivono l’anima del territorio che abbraccia e trasforma ogni giorno lo spirito di tutti i luoghi, una memoria che è sia individuale che collettiva.

E voi? Avete una storia di famiglia, un ricordo importante al quale dare una luce di coscienza? Scrivetemi.

Dottoressa Valeria Bianchi Mian1efb14ac890890bed609e2189b9606c8

(Castelfranchi C., Henry P., Pirella A. – che sono stati miei Professori – in un testo che ho amato molto e che cito nonostante possa dirsi assai datato: L’invenzione collettiva, per una psicologia della riabilitazione nella crisi della psichiatria istituzionale, Ed. Gruppo Abele, ‘95)


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