Difficoltà di una memoria critica, di Agostino Pietrasanta

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Difficoltà di una memoria critica, di Agostino Pietrasanta
Alessandria: Sono passati esattamente 75 anni; in quel 27 gennaio, l’armata rossa entrava a Auschwitz e oggi, da vent’anni grazie a una legge dello Stato ci proponiamo di fare memoria. Aggiungerei però un attributo: una difficile memoria. Cosa trovarono a Auschwitz i liberatori? Gli ottomila rimasti, abbandonati dalle SS in fuga, perché impossibilitati a camminare, ridotti a scheletri viventi mischiati a cumuli di cadaveri insepolti, in una devastante e raccapricciante condizione di degrado fisico e morale. Uno scenario, a detta dei testimoni, incredibile e non immaginabile a mente umana. Non solo; lo scenario ancor più inquietante perché i sopravvissuti terrorizzati dalla loro esperienza non si lasciavano curare. Fuggivano dalle docce nel ricordo delle camere a gas; fuggivano dagli aghi delle flebo perché evocavano le iniezioni mortali di fenolo; rifiutavano i trasporti sui treni per riflessi condizionati dai trasporti mortali verso i campi di sterminio. E la stessa situazione, le stesse reazioni in tutti i campi liberati sia a oriente (armata rossa) sia a occidente (armate anglo/americane). E gli altri? Quelli che ancora in grado di camminare e magari di essere ancora sottoposti a lavoro coatto? Furono trascinati nelle marce della morte, ma ben pochi resistettero più di qualche settimana: appena accennavano a difficoltà di cammino venivano soppressi con un colpo di pistola e i testimoni non appena hanno parlato (diversi decenni dopo) hanno ricordato tappeti di cadaveri lungo i percorsi e gli spari continui nell’oscurità delle notti delle pianure dell’Europa centrale, continente diventato selvaggio dopo essere stato protagonista di civiltà. E ancora; la popolazione residente nei luoghi attraversati da queste marce, se qualche volta offriva aiuto, più spesso si chiudeva nell’indifferenza o addirittura nella reazione violenta soprattutto contro i deportati Ebrei, dal momento che la tradizione di una ideologia antisemita non era stata per nulla risolta dalla Shoah e dalla sua devastazione.
Di tutto questo che si verificò in troppe zone dell’Europa  soprattutto centro orientale, si tacque a lungo. Si tacque perché le vittime sopravvissute non parlavano per pudore nei riguardi della loro umanità offesa, perché ritenevano di non poter essere credute, perché sentivano quasi come colpa la loro sopravvivenza, a fronte di un contesto che sembrava chieder conto di tale sopravvivenza. Si tacque perché ragioni di politica internazionale imponevano il silenzia dei liberatori che da alleati divisi ormai dalla politica dei blocchi, avevano ragioni diverse per ragionare e spiegare gli avvenimenti. Si tacque perché le connivenze si sarebbero rivelate intollerabili per il quieto vivere del secondo dopo guerra; in Italia (e faccio solo un richiamo) c’era chi per 5.000 lire aveva denunciato gli Ebrei e i vari oppositori del totalitarismo che finirono nella spirale dello sterminio; c’era chi aveva consegnato gli elenchi degli Ebrei, predisposti durante le leggi razziali del 1938, ai tedeschi favorendo le deportazioni, ma c’era soprattutto un risultato di continuità negli apparati dello Stato. Nonostante la formazione di una classe politica di avvertita sensibilità democratica le burocrazie resistettero al punto che (caso limite, ma veramente in fonte del ragionamento) un presidente del tribunale della razza fu prima ministro nei governi Badoglio e poi dal 1957 al 1961, presidente della Corte costituzionale.
Quando poi il processo Eichmann (1961/62)  mise sotto gli occhi del mondo la banale indifferenza di un colpevole che appariva del tutto inadeguato a un  progetto di sterminio di dimensioni inimmaginabili, solo alcuni intellettuali e alcuni politici e altre rare sensibilità provarono a fare memoria. Dovettero passare altri decenni, ma finalmente da almeno una trentina d’anni si parla e si parla da un periodo in cui molti protagonisti, molti testimoni erano ancora vivi.
E da quel momento si sono imposte attraverso nutrite minoranze le reazioni e le contestazioni: lascio stare il negazionismo che avrebbe bisogno di ben lunga trattazione, ma basterebbe richiamare alcuni stereotipi a cominciare da quello che parla degli Ebrei come conquistatori egemoni del mondo, riproponendo, sia pure con toni più contenuti, ma allo stesso tempo più ambigui, le tesi di un complotto che richiamano i famigerati “protocolli dei savi di Sion”, un grossolano falso dei primi del novecento, ma sfruttato dalle varie propagande del fascismo.
E allora? Una memoria difficile e contestata anche da troppi avvenimenti di oggi. L’altra sera a “Cultura e Sviluppo” uno studente che aveva seguito il progetto nelle scuole ha ricordato le marce della morte, ma subito dopo, si è chiesto se oggi non si dovrebbe parlare di “viaggi della morte”. Ciò che una fin troppo prudente saggezza senile, aveva impedito a me di precisare lo ha fatto lui e lo ringrazio, aggiungendo però, “viaggi della morte” non solo attraverso il Mediterraneo.
In ogni caso, se dei giovani dimostrano la sensibilità non solo dell’ascolto, ma anche del giudizio critico ci sono delle speranze concrete che si basano sulla formazione perché la legge per quanto opportuna e encomiabile non basta se non si coglie l’opportunità della conoscenza e della responsabilità critica: la memoria si manterrebbe difficile e di corto respiro. Per tentare di evitare tutto questo l’impegno e il progetto nelle scuole. Forse con qualche obiettivo anche più ambizioso; me lo faccio suggerire da una citazione (e concludo) di Etty Hillesum, morta a Auschwitz nel 1943, “La pace e la memoria saranno veramente possibili se ogni uomo liberato dall’odio contro l’altro di qualunque razza o popolo saprà trasformarlo in qualcosa di diverso, forse, alla lunga, in amore”  forse, più laicamente si potrebbe dire con una solidarietà che sconfigga l’indifferenza.

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