VIPSANIA SOL MINORE di rebeccastories
Cosa mi hai fatto? Che mi levigo e son viscosa, mi sciolgo e mi raggrumo, sulla battigia, fra la schiuma della meraviglia e la saliva di qualche rantolo sconosciuto – intrappolato, forse, nelle pieghe delle onde – m’intingo ancora un po’ nel verdeacqua per attenuare i sensi e provare a svenire. Cosa mi hai fatto mare? Stormi neri di parole si mordono l’un l’altro lungo tutte le mie braccia, si accoppiano fra la pelle delle cosce, gonfiano i miei zigomi per i sospiri furiosi e le spalle, quanto prudono le mie spalle secche, la testa ne è sorretta male. Strofino un po’ il petto sul fondale per liberare le bolle vitree, come ciondoli dal naso, che tintinnano di solitudine, ma ancora – da quanto ormai? – la lingua salata e mostruosa mi consuma la pelle, i pensieri, strusciandomi il ventre sul ventre, della sabbia. Ancora. Mi annoda e m’incastra fra buste plastiche, rifiuti dal fondo del mare, le reti abusive, i rami marci lasciati morire. Un ammasso di cose poco pesanti, fra cui anche il mio cuore, che naufraga e naufragano, ancora naufraga, ancora. Verdeacqua, bolle, ventre, onda, schiuma, ventre, verdeacqua, bolle, alghe sugli occhi, ventre, fauci dell’onda, schiuma, saliva, ventre, verdacqua, vetro dal naso, ventre, bacio dell’onda, battigia, ventre, risacca, verdeacqua, sacchetto, biglie di vetro, ventre, lingua dell’onda, spuma, ventre, sabbia, risucchio, sospiro, verdeacqua…
Eppure ho visto qualcosa laggiù. Una barca bianca, quasi immobile.
Ventre sul fondale, agito le braccia per nascondermi all’onda. La oltrepasso e nuoto, ventre sul fondale, nuoto fino al blu scuro, terribile, freddo. La barca! Eccola a pochi metri, pare morbida, la raggiungo in superficie. É mia, l’ho trovata. Una barca di donna. La osservo, arrivano le diomedee, mi raccontano la sua storia. Mi dicono di portarla via, o la seppelliranno là, sopra quella isola. Lei non avrebbe voluto. Vipsania? Non puoi più parlare con nessuno.
Come stracci di medusa le mie gambe provano a intrecciarsi alle gambe bianche di Vipsania, Giulia Vipsania morta, quasi gonfia di mare grigio. No, non lasciarti risucchiare dalle Trametis – isole “tramite”, fra il nulla e il niente – eri morta, sulle punte aride delle loro scogliere, sei pur morta ora, lasciati aiutare, ti trascino io sulla mia spiaggia che baciavi da lontano. É facile innamorarsi dell’onda, ti prende lei con la sua lingua, ti pregna il ventre, di sale, di bolle di vetro e verdeacqua. Senti come piangono le diomedee! E ci lanciano piume bianche per riempirci di delicatezza; gonfiamo le nostre matasse come vele, umane, non umane, animali come loro, le arenne diomedee, che un tempo erano umane; rotoliamo piano, avvinghiamoci l’un l’altra per fare peso, altrimenti vivremo qui, in perpetua sospensione. Abbracciami Vipsania con i tuoi polsi molli, la dolcezza di cadavere, sei un piccolo pesce capovolto – pensavi anche tu a quelle mani lontane che custodivano fra i palmi il tuo cuore come un soffice uovo di carta? – la tua pelle sfavilla e quasi mi acceca, la sfioro (per contemplare l’universo sfogliarsi d’argento fra le mie dita), lento galleggiare, così lenta, ondeggiare, pigro, perdi le tue squame, brillano sul fondale, ventri sul fondale, in scala minore, Giulia Minore, dolce palpitare di pesci interiori; hai le labbra che si sfaldano ma i capelli legati.
Ti scioglierai con me, ci scioglieremo i capelli sulla riva, fra viscere marine, i nostri nodi di carne, banchi di mani e alghe tenere. Vipsania. Verdeacqua.
[Dedicato a Giulia Minore, Giulia Vipsania Agrippina, nipote di Augusto, rimasta in esilio 20 anni sulle isole Tremiti per aver amato un uomo non suo, morta in mare nel tentativo di raggiungere la mia spiaggia, Schiapparo, la spiaggia di nessuno, la spiaggia del SubUranio, la spiaggia della Controra. Dedicato anche a chi ama le cose lontane, irraggiungibili, solo per il dolce gusto di naufragare.]
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