Racconto sul sesso adolescenziale e sul teatro di paese, di Riccardo Lera

Racconto sul sesso adolescenziale e sul teatro di paese, di Riccardo Lera
 
Raggiunta la pubertà, il problema “sesso” ci esplose nella testa. Per dissimulare nel riso le difficoltà che 'sta cosa nuova si presentava in tutta la sua prepotenza, nacque fra noi ragazzi di paese uno slang per riuscire ad esorcizzare tutte le ansie che, più o meno coscientemente, ci assalivano. 
Cos'era mai questa tensione che ci faceva parlare dei nostri mutamenti fisici e mentali? Nessuno ci capiva niente. In palestra erano, sotto la doccia, continue guerre di confronto sessuale, scientificamente misurate col centimetro. Sono certo che Trump le avrebbe apprezzate moltissimo. Chi ne usciva vincitore, probabilmente tornava a casa rinfrancato, per il perdente era notte fonda. 
Dal punto di vista centimetrico mi collocai nell'anonimato garantito dalla media, ma figurati se, per tali argomenti, si poteva essere lasciati in pace. Il membro “normale” di un mio amico fu esteticamente giudicato, da un'apposita commissione di probi viri, come il più brutto della provincia. Tuttavia la cosa non lo infastidì. Anzi ricordo come tutto sommato gli dispiacque perdere tale primato quando, di fronte alla nudità di P., un qualcosa da far impallidire il più esaltato degli artisti dell'avanguardia cubista, tutti si rimase senza parole, per poi acclamare il P., all'unanimità, come il possessore della verga più orrenda dell'universo. 
Ma al di là di queste apparentemente futili problematiche anatomiche, erano tuttavia quelle fisiologiche a picchiarci nella testa come un martello pneumatico. Il testosterone di ciascuno di noi ululava alla vista di una qualsiasi ragazza. Per raffreddare gli spiriti bollenti, i più arditi del gruppo si lanciarono nell'idea della costruzione di un club, un proto-pied a térre, al quale anch'io collaborai senza tuttavia coltivare speranze.

Trovata la stanza, un monolocale defilato rispetto al centropaese, questo fu arredato alla meno peggio e suddiviso in una zona ballo, in una area bar ed infine in uno sgabuzzino per la gestione delle scelte musicali e degli effetti luminosi speciali. Un vero gioiello per i mezzi economici in nostro possesso, ed alcuni di noi con aria trionfante riuscirono pure a portarci una ragazza. 
Personalmente avevo alcuni problemi. Mi ero innamorato. Senza alcuna speranza, ma mi ero innamorato. Sembravo la reincarnazione vivente del dolce stil nuovo. Scrivevo poesie, decantavo le qualità dell'amata agli amici più cari (in realtà delle autentiche carogne che non persero mai un'occasione per prendermi per i fondelli), respingevo con determinazione ogni altrui azione volta ad oscurare le di Lei sublimi qualità. Ero veramente rimbecillito. 
Verso i 16 - 17 anni, qualcuno iniziò comunque a fare le cose sul serio. Si fidanzò. Ovviamente non si diceva così, ma alcune coppie si formarono e ancor oggi legalmente sposate, resistono. Altri ancora, più dotati, si diedero allo sport più difficile e da tutti ambito: quello del latin-lover militante. Lo Stiv fu fra questi, ma maestro per eccellenza si rivelò il L. Ancor oggi, a detta di alcuni, coltiverebbe questa attività fisica con risultati strabilianti. 
Nel lasso di tempo del formarsi delle coppie, operazione che richiese alcuni anni, si formarono due gruppi distinti: gli accoppiati e gli "scoppiati". Questi ultimi cercavano vari surrogati alla solitudine fisica, fino al peccaminoso possesso di riviste pornografiche. Reagire alla carenza dell'attenzione femminile, della quale si avvertiva una necessità superiore a quella dell'ossigeno, era compito arduo ma, fra tutte le carte che un ragazzo può giocare, io scelsi decisamente la peggiore. Quella della stravaganza. 
Poi ci fu la grana del ‘73, quando sbagliarono l'intervento alla mia gamba destra, azzoppandomi del tutto. E per me fu notte fonda. L'essere strano e originale ad ogni costo divenne una sorta d'imperativo categorico. Divenni la star del grottesco, del tragicomico. Fu su questa onda di violenta reazione psicologica che nacque la mia esperienza teatrale vissuta a Serravalle.
"U g’a e kü naigru gme a fasa da a kudreina" riferito a uno dei tre Re Magi, in luogo di “U g’a a fasa naigra gme e ku d’ina kudreina”, è un lapsus quasi epocale nella storia del teatro a Serravalle. Detto dei “Luigini" e incassato nel tufo del Monte Castello, si trova dietro la Casa del Giovane. A memoria d'uomo è stato, ancor prima dei cinematografi, l'unico centro di divertimento per il paese. Con me, Robi, Aldo e alcuni altri, quel locale ha vissuto i suoi ultimi splendori, per poi essere affossato dalle misure legislative nate a seguito dell'incendio del Cinema Statuto di Torino. In quegli anni ‘70 ci si è recitato un po' di tutto. Dai testi dialettali, alla riduzione dei classici fabulistici, da Goldoni ad Eduardo. 
Si provava senza riscaldamento, abbondantemente anche sotto lo zero. Le sedie di legno della platea erano in gran parte sbrecciate, il palco era contornato da quinte pericolanti ed un pannello elettrico, più pericoloso di un cavo dell’alta tensione, garantiva l'accensione delle luci. Non esisteva la toilette ed il camerino era ricavato in una grotta. 
Il mio debutto come attore avvenne in un ruolo drammatico, quello di Erode, in Gelindo. Gelindo è una commedia assai diffusa nei paesi dell'alessandrino. Rivede, con gli occhi degli umili pastori, la nascita di Gesù e si recita sempre in dialetto, tranne il terzo atto, noiosisssimo, in cui in italiano Erode, con un lungo monologo, medita la ben nota strage degli innocenti. Vestivo una mantella porpora ed avevo il capo cinto da una corona di cartone dorato con al centro, a mo' di pietra preziosa una verde pallina di Natale. Un bel ruolo, non c'è che dire, per un futuro pediatra.
Furono comunque i "vecchi" a farla da padrone. La serata della rappresentazione teatrale visse su particolari assurdi ed esilaranti. Anche il pubblico fece la sua parte, al punto che, dal punto di vista dello spettacolo, non so se si potesse fare una distinzione fra il palco e la platea. 
"Tilàtlu e mé scialétu" gridò dalle prime file una donna che aveva prestato a Franco Bobbio il proprio indumento. Il suggeritore, Gein Mazzarello, era così infervorato nel suo ruolo da coprire le voci degli attori. Marco Bricola esplose la propria stanchezza sostituendo un: 
"A soun propriu stànku, im kasa propriu e brasa" con un più significativo "im kasa propriu e bàle".Biava esternò la propria ammirazione alla Madonna di turno definendola "bela gme Isa Fuster (Ira Furstemberg n.d.a.). Medoro (il Bobbio) entrò in scena letteralmente scaraventato da Gigino Ferrari, poiché ritardava il momento della propria entrata. Disgraziatamente a costui rimase in mano un kriss malese, residuo fra le quinte di qualche pesca di beneficienza dell'Addolorata, con il quale si stava inopinatamente trastullando nell'attesa. Questo oggetto "di pace", venne inauditamente riposto nella gerla dei doni che i pastori preparavano per il Bambin Gesù. 
Questa spontaneità di paese rinnovava una tradizione assai antica e che raccoglieva aneddoti chilometrici. L’apice del tragicomico si raggiunse pochi anni dopo la fine della seconda guerra mondiale, quando venne rappresentata una riduzione teatrale della vita di Gesù. Non era stata ancora edificata la casa del Giovane, col bar, i bagni e ogni altra moderna comodità. Per i bisogni fisiologici, in oratorio non restava che la buca del suggeritore a garantire un minimo di privacy. E così fu che durante l’episodio della resurrezione di Lazzaro, l’interprete di turno, fu calato in quello spazio, vestito candidamente con un bianco lenzuolo. Di fronte al pubblico in rispettoso silenzio sul palco entrò Gesù con i dodici apostoli. 
“Lazzaro risorgi!”
“A soun tutu sporku ‘d merda!” sussurò dalla buca un desolatissimo Lazzaro.
Gesù rimase interdetto per qualche secondo.
“Lazzaro risorgi!” provò a ripetere alzando il tono della voce.
“At digu ka sòun tutu sporku ‘d merda” supplicò l’altro da sotto.
L’imbarazzo cresceva perchè la commedia non andava avanti. 
“Lazzaro risorgi!” fece allora irato il Cristo.
““A te ditu ka sòun tutu sporku ‘d merda” ribattè il Lazzaro deciso a non risorgere in quella condizione.
“E merda o no merda sorta fea da lì!” concluse urlando il Messia.
Dopo l’esordio con Gelindo mi appassionai sempre di più a quell'hobby. Attore solitamente di spalla o coprotagonista, costituii negli anni una coppia di ferro con Robi Botta. Fui Vinicio Vaccarone, il Re in Cenerentola, Mangiafuoco e la Volpe, Simon Maroele, Antonio di Stefano ed altri personaggi, da me sempre sottolineati in maniera solitamente caricaturale.
Avevo le chiavi: ero io ad aprire e sempre io a chiudere. Ci sono rientrato pochi anni fa. Per chi ha visto in “Nuovo Cinema Paradiso” la bella scena del protagonista che, da adulto, rientra nel vecchio cinematografo pronto per la demolizione, sarà più facile comprendere la mia commossa melanconia di quel momento.



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