Nel borgo del fantasy: L'emblema del lupo (4a parte)


30 ottobre 1847

Quello che ancora ignoravo, purtroppo, era che il presentimento avuto dalla Sharez, stava per verificarsi e che ormai, mi trovavo sull'orlo di un baratro.
Avendo avuto davanti a tutta la corte la benedizione dell’imperatore potevo avere libero accesso a tutti i locali del palazzo; potevo permettermi di parlare e porre domande al personale indaffarato nelle varie incombenze e persino curiosare tra i vari documenti della biblioteca e della segreteria.
Fu allora che mi capitò tra le mani la ricevuta di un bizzarro pagamento, effettuato a favore del mercante di stoffe, trovato ucciso qualche giorno prima. Mi saltò all'occhio come una coincidenza sin troppo casuale.
Inoltre, si trattava della fornitura di una notevole quantità di seta di vari colori. A chi poteva servire quel quantitativo ingente di stoffe pregiate se non alla sartoria del palazzo?
Per i chiarimenti decisi di recarmi dal sarto dell’imperatore, dei cui servigi, sapevo approfittassero anche alcuni alti dignitari di corte, molto vicini al trono.
«Mastro Akinori. Posso entrare?» gli domandai sulla porta del suo laboratorio. Si trattava di un omino piccolo di statura, che si muoveva veloce, indaffarato com'era a dare ordini ai suoi giovani collaboratori che scattavano, a loro volta, come tante molle ogni volta che Akinori impartiva un ordine.
Al suono della mia voce, il sarto si voltò stupito, poi mi venne incontro e s’inchinò, salutandomi.
«Con questa visita mi concedi un grande onore, comandante Hamamoto.»
Ricambiai il saluto: «Il piacere è anche mio, mastro Akinori. Ma sono qui per un motivo ben preciso. Dimmi, saresti disposto a rispondere a qualche domanda?»
Lui mi guardò, sorpreso da quella strana richiesta, ma non fece obiezioni, anzi, si mostrò disponibile: «In cosa posso esserti utile, comandante?»
«Ho trovato la ricevuta di un ingente pagamento di stoffe eseguito a favore di un mercante. Mi sai dire chi ha effettuato l’ordine?»
«Gli ordini della sartoria vengono emessi dietro mia specifica richiesta. Ma non capisco, hai trovato qualcosa che non va in quella ricevuta?»
Quel suo sguardo preoccupato m’indusse alla prudenza.
«No, mastro Akinori. Nulla di strano, se non che il quantitativo di stoffe ordinato mi sembrava esagerato. Ti ricordi per conto di chi lo hai effettuato?»
«Certo! Buona parte della seta doveva essere impiegata per le vesti di Hiroshito Katamura, uno dei cugini dell’imperatore.»
Cercai di rimanere impassibile anche se, in cuor mio, quella rivelazione mi aveva basito.
«Devo dedurre che il sovrano sappia della conclusione dell’affare. Giusto?»
Il sarto rimase un attimo sconcertato, quindi rispose, dubbioso: «Presumo di sì, comandante. Ma permettimi comunque di chiarire che eseguo sempre gli ordini di qualche dignitario di corte confidando nella buona fede di tutti.»
Sorrisi, rassicurandolo: «Non ho mai dubitato della tua onestà, mastro Akinori.» quindi, con un lieve inchino mi congedai, seguito dal suo sguardo intento.
Mi misi subito alla ricerca di Hiroshito e lo trovai nelle stalle. Stava sellando il suo cavallo e trasalì appena mi vide. Il mio arrivo lo aveva messo in allarme.
«Stavo cercando proprio te, Hiroshito Katamura.» lo interpellai in modo brusco.
Continuò a sistemare i finimenti della sua cavalcatura, ma mi accorsi che la sua espressione e il suo colorito mutarono in modo repentino.
Non poteva evitare di rispondere, per cui tornò a guardarmi: «Perdona, comandante Hamamoto, ma vado di fretta. Devo portare a termine un compito affidatomi dall'imperatore
Gli stallieri erano impegnati nei recinti esterni e in quel momento eravamo soli. Decisi che era arrivato il momento di conoscere tutta la verità: «Non ti lascerò andare se non mi saranno chiari i motivi della morte improvvisa dei miei genitori.»
Smise di fingere la sistemazione delle briglie e mi affrontò «Sono forse accusato di qualcosa al riguardo, comandante?»
Estrassi la ricevuta da una tasca sventolandogliela davanti al viso.
«Mi piacerebbe sapere fino a che punto intrattenevi affari con questo losco individuo.»
Lui diede un’occhiata sommaria al documento, poi, in modo seccato rispose: «Non capisco a cosa ti riferisci e ora ti pregherei di spostarti, mi stai impedendo di partire.»
Era montato in sella e da quell'altezza mi dominava. Afferrai con forza le redini e piantai i piedi sull'impiantito, in quel modo, se avesse spronato il cavallo, sarei riuscito a trattenerlo.
«Il tuo comportamento va fuori da ogni regola. All'imperatore non piacerà il trattamento riservato a un suo caro cugino.»
Strattonai il cavallo che iniziava a dare segni d’insofferenza. La velata minaccia di Hiroshito, non mi colpì più di tanto. Ero sempre stato pronto ad affrontare le conseguenze delle mie azioni e qualunque risvolto avesse avuto quella faccenda, non mi sarei sottratto alle mie responsabilità.
«Scendi da cavallo e affrontiamo la questione come due uomini d’onore. Sempre che tu sappia cos'è l’onore.»
Hiroshito ignorò l’ingiuria e cercò di resistere alla trazione che imponevo al suo cavallo bersagliandogli i fianchi di sproni. La povera bestia, avvertendo dolore, s’imbizzarrì e iniziò a impennarsi.
La situazione per me diventava pericolosa; stavo rischiando di rimanere colpito dagli zoccoli e Hiroshito, vedendomi in difficoltà, continuò a infierire sull'animale anche con il frustino.
«Ora basta! Hai eluso per troppo tempo la mia brama di giustizia!» esclamai, afferrandolo per uno stivale e torcendogli la caviglia. Lui emise un grugnito di dolore e cercò invano di resistere, scalciando come un forsennato, ma poi fu costretto a smontare.
Aveva una corporatura molto più esile della mia, così mi fu facile scaraventarlo sul terreno e immobilizzarlo con le cosce strette intorno al suo torace.  
Lo afferrai per il bavero attirandone il volto a pochi centimetri dal mio. Aveva gli occhi sbarrati per il terrore e tremava come una foglia.
«Non puoi mettermi le mani addosso. Sei un samurai e non è onorevole, per un guerriero tuo pari, confrontarsi con una persona che non è avvezza a combattere!»
Gli risposi con disprezzo: «Ti considero solo un vigliacco, Hiroshito e, comunque, voglio soltanto sapere per quale motivo hai ordinato l’uccisione di mio padre.»
Dimenticando la sua paura, i suoi occhi si colmarono d’odio. «Non credo proprio ti farà piacere saperlo!»
Era un’ingenua ammissione di colpa e, in quel momento, avvertii la collera che montava dentro di me: «Prova a spiegarmi e forse avrai salva la vita!» gli sibilai sulla faccia.
Lui tacque per qualche istante e io lessi sul suo viso l’indecisione. Stava ponderando le eventuali conseguenze di una confessione. Lo vidi sbirciare intorno. Evidentemente voleva sincerarsi che nessuno fosse in ascolto, in caso contrario la sua parola sarebbe valsa quanto la mia. Allora lo scrollai con forza: «Parla maledetto! Dimmi perché l’hai fatto!»
I suoi occhi si ridussero a due fessure; la sua voce era colma di rancore:
«L'odiavo con tutta la mia anima e volevo vendicarmi! Non solo mi aveva portato via la donna che amavo, tempo fa, ma l’imperatore lo aveva anche nominato shogun e gli aveva assegnato il territorio e il titolo che erano miei di diritto.»
Finalmente era tutto chiaro.
«Allora sei stato tu a violentare mia madre!»
«Ci siamo divertiti molto quel giorno. Tu non puoi nemmeno immaginare quanto urlava e quanto piacere  traevo da quelle urla.»  rispose con un ghigno diabolico.
Era troppo. La collera troppo a lungo repressa esplose nella mia testa accecandomi.
Lo afferrai e mi sollevai, trascinandolo in piedi, poi, lo scaraventai con violenza contro la parete della stalla.
Non ebbi nemmeno la soddisfazione di assestare un pugno, perché il destino di quel vigliacco era già segnato.
Il corpo di Hiroshito volò nell'aria come un fantoccio senza vita e la sua schiena si piantò nelle punte acuminate di un forcone appeso alla parete e usato dagli stallieri per rimuovere la paglia.
Hiroshito non emise un grido, ma sul suo volto rimase stampata una smorfia incredula di indicibile orrore.


8 maggio 1902

Strizzai gli occhi sul diario del nonno. Fuori si era ormai fatto buio e gli ideogrammi iniziavano a confondersi l’uno con l’altro.
Mi stavo stirando quando la paratia iniziò a scorrere, lasciando intravedere il volto preoccupato di mia zia.
Se ne stava sull'uscio con le ginocchia posate sul cuscino di seta e mi preparava una ciotola di riso condito con una crema deliziosa di cui solo lei conosceva la ricetta.
«Adesso basta, Aiashi. Si è fatto tardi. Riprenderai la lettura domani, quando tornerai da scuola.»
Continuai a stirarmi, soddisfatto come un gatto che abbia appena catturato un topo. Ero stanco, un po’ per via della lunga permanenza nella stessa posizione e un po’ perché eravamo a fine giornata.
«Hai ragione zia. Ma dimmi, posso fermarmi qui da te per la notte?»
«Per me va bene. Ma occorre avvertire tua madre affinché non stia in pena.» disse alzandosi. Ne ammirai l’ineccepibile portamento, mentre avanzava nella stanza. Poi, dispose il cibo sul tavolino basso e m’invitò a sedermi.  Con grazia infinita prese posto di fronte a me porgendomi la ciotola fumante.
«Appena finito di gustare questa prelibatezza farò una corsa, zia.»
Le sfuggì un sorriso. Era una donna molto discreta nei modi e difficilmente lasciava trapelare i suoi stati d’animo, tuttavia, sapevo quanto piacere provasse nel ricevere i complimenti e non lesinavo di farglieli, quando lo ritenevo opportuno.
Mangiai di gusto, sotto il suo sguardo divertito, mentre lei masticava con pacatezza i suoi bocconi.
Ammiravo mia zia. Oltre a essere molto bella era la classica donna giapponese, educata fin da piccola a occuparsi del benessere della famiglia, senza mai trascurare la sua persona, la cultura e l’arte. Era considerata un’eccellente pittrice, con un senso del colore che, oltre a essere un pregio assai raro, era anche caratteristico del suo stile.
«Zia» le dissi, tornando al diario del nonno «hai interrotto la mia lettura proprio in un punto interessante e sono molto curioso di sapere cosa accade adesso. Mi puoi anticipare qualcosa?»
Lei mi guardò, ma aveva un’espressione talmente indecifrabile, che non riuscii a intuirne i pensieri.
«Credo che non sarebbe giusto. Non pensi sia più interessante scoprirlo da te?»
Aveva ragione, quindi, non insistetti.
Quella sera, avvolto dal tepore dalle coltri, mi addormentai presto e, nel cuore della notte, ritornò il mio incubo.
Arrancavo in una fitta bufera di neve. I fiocchi erano esageratamente grandi, forse quanto un mio pugno e cadevano provocando un sonoro tonfo.
Il mio passo affondava nel manto candido e assai soffice, lasciando profonde orme del mio passaggio.
Mi voltai a osservarle, sempre uguali, distanziate in un modo regolare, come ogni passo fosse misurato, per poi perdersi all’infinito alle mie spalle.
Da dove venivo? Ma soprattutto, dove mi stavo recando con quel tempo? Che motivo avevo d’affannarmi in quel modo?
Il vento sibilava in modo lugubre sferzandomi la pelle del viso, l’unica parte del mio corpo rimasta scoperta.
Ma come ero vestito? Sotto a un ampio mantello, indossavo una corazza di cuoio, con in testa un elmo e una maschera che rappresentava il muso di un lupo, mentre sulla schiena sentivo gravare il peso di uno scudo rettangolare.
In una mano impugnavo un grande arco da combattimento che, in quel frangente, mi serviva anche da appoggio.
I pensieri vagavano confusi nella mia mente, come la danza dei fiocchi intorno a me.
Ero consapevole di essere Aiashi Hamamoto, il discendente di Vento che sibila tra le montagne e, nello stesso tempo, sentivo di essere l’eroico samurai.
Il mio respiro si era fatto affannoso, difatti, ero conscio che il mio fisico era quello di un adolescente mentre il cuore, che pompava il sangue con gran vigore, avvertivo essere quello di un guerriero.
All’improvviso mi parve che il vento mi portasse un richiamo, così tesi i sensi e le orecchie in modo da poter discernere la provenienza.
Era una richiesta di soccorso? Qualcuno, folle e avventato almeno quanto me, si era avventurato nel corso della tempesta e si era smarrito?
Il richiamo si ripeté più volte, inspirandomi un’angoscia senza fine.
La visibilità era scarsa e limitata a pochi metri e, per quanto mi sforzassi, non riuscivo a captare da dove provenisse il suono. In quelle condizioni, sarebbe stato difficile prestare soccorso alla persona in difficoltà.
Poi, all'improvviso, la danza fino allora fitta dei fiocchi si diradò e mi apparve, distintamente, la figura imponente di un lupo grigio.                           
"Vieni con me, Vento che sibila tra le montagne, ho bisogno del tuo aiuto!"
Mi fermai basito. Mi ero sbagliato confondendo un ululato per il lamento di una persona in cerca di soccorso. Ma anche il lupo aveva commesso un errore, scambiandomi per il mio antenato. Dovevo chiarire subito la questione.
«Non sono affatto chi credi che io sia!»
Il lupo si avvicinò e il sangue mi si gelò nelle vene, più per la paura che per il freddo. Iniziò ad annusarmi con dovizia le gambe e il kimono che indossavo sotto l’armatura, poi emise un ringhio sonoro e guardandomi fisso negli occhi, esclamò: " Eppure indossi la sua corazza e porti il suo elmo e il tuo volto è identico al suo. Vuoi forse ingannarmi, umano? Vuoi venire meno al patto millenario che esiste tra le nostre due specie?"
Il tono, nella mia mente, risuonò minaccioso. Il lupo ringhiò ancora una volta e io d’istinto arretrai di un passo.
"Forse hai ragione. Forse non sei tu il fido alleato di tante battaglie. Un vero samurai non avrebbe reagito con la tua stessa codardia."
Quell'offesa mi sferzò la pelle pari a uno schiaffo e con uno scatto d’orgoglio obiettai: «Non sono di certo un guerriero, ma non mi tiro indietro in caso di bisogno!»
Gli occhi del lupo si ridussero a due fessure in cui balenò una luce sinistra: "Sei disposto a seguirmi ovunque io vada e ad aiutarmi a risolvere il mio problema?"
Per un attimo tentennai. Sentivo che stavo per cacciarmi in un mare di guai, ma non potevo tirarmi indietro.
La mia voce tremò più di quanto avessi voluto, quando con ostentata fierezza risposi: «La tua stirpe ha aiutato mio nonno molto tempo prima che io nascessi, non posso esimermi dal contraccambiare.»
Il muso del lupo si aprì in un ghigno diabolico, poi si volse e come era apparso, si dileguò. Mi ritrovai solo, confuso e infreddolito, mentre la bufera tornava a intensificarsi.
Dov'è finito? pensai, mentre cercavo di ripararmi col mantello dalle gelide folate di vento.
Un lugubre ululato si espanse, guidandomi verso un’unica direzione.
Dove mi voleva condurre quella belva?
La risposta arrivò un centinaio di metri più avanti, quando all'improvviso, mi ritrovai sull'orlo di un pendio scosceso.
Il lupo era lì, sul ciglio, fermo e in attesa.
«Perché mi hai condotto qui? Cosa posso fare per te?»
"Poco fa è caduta una valanga che ha travolto il rifugio in cui si trovava la mia famiglia. Io e miei compagni li abbiamo cercati scavando a lungo, ma l’albero cavo in cui si erano riparati è stato trascinato giù per questo pendio e per noi è impossibile scendere per riprendere le ricerche. Ho bisogno del tuo aiuto per questo, umano."
«Devo calarmi in questo baratro?» domandai con voce incerta, soprattutto perché solo in quel momento mi ero reso conto di essere circondato da un’orda di lupi che mi studiavano, emettendo profondi brontolii di gola.
"Non temere! Finché dimostrerai amicizia non ti aggrediranno."
Seppure quelle parole non mi rassicurassero molto, tornai comunque a studiare con attenzione il pendio.
"Se tentassimo noi la discesa, ci sfracelleremmo sul fondo. Solo tu puoi aiutarmi a salvare i miei cuccioli e la loro madre."
Non risposi. Non potevo. La mia mente analitica era proiettata a trovare una possibile soluzione. Per scendere, forse, avevo già ideato un modo, seppur impegnativo e pericoloso, ma anche ammesso che fossi riuscito a raggiungere il fondo e a salvare la cucciolata, come avrei fatto a risalire?
«Mi occorrerebbero delle corde.» rimuginai a voce alta.
"In questo non posso esserti utile. Devi trovare un’altra soluzione." rispose il lupo.
Allora dovevo per forza cercare un’altra via d’uscita. Il mio sguardo si concentrò sul fondo del precipizio, ma la valanga aveva travolto e coperto con un copioso strato di neve e detriti sia il pendio che la vallata sottostante. Tronchi d’alberi, sterpaglie e massi erano disseminati lungo tutto il fronte della slavina e formavano irti e pericolosi ostacoli. Inoltre, dalla mia posizione, non era possibile capire se esisteva un modo di risalire o di scendere.
Guardai il lupo per dirgli che non vi era possibilità di riuscita e che non me la sentivo di rischiare la vita in quella folle impresa. Lui mi fissò a sua volta e forse indovinò quello che mi apprestavo a comunicargli, tuttavia, non ravvisai ostilità nel suo portamento, al contrario, nei suoi occhi lessi una muta preghiera.
Fu quella sua tacita, accorata richiesta che m’indusse a rivedere la mia decisione. «Va bene! Tenterò!»  
Il lupo annuii: "Te ne sarò grato!"
Sotto lo sguardo attento del branco, slacciai lo scudo che portavo di traverso sulla schiena e lo posi, dalla parte più levigata, sulla neve ghiacciata.
Era abbastanza grande e robusto da potervi salire sopra e servire da scivolo per facilitarmi la discesa. Prima di avviarmi, raccomandai la mia salute alle stelle, quindi, mi lasciai scivolare lungo il pendio.
Come avevo previsto, oltre alla difficoltà della ripida discesa, non fu affatto semplice evitare gli ostacoli che mi si presentavano all'improvviso davanti. Non potevo distrarmi un secondo e né perdere la concentrazione necessaria. Ogni momento rischiavo di rovinare giù per il pendio e rompermi l’osso del collo. Fu terribile la sensazione del vento che mi spingeva, facendo gonfiare il mantello alle mie spalle e dandomi la sensazione di volare. Avevo trovato un minimo di equilibrio tenendo le braccia larghe e le ginocchia divaricate in una determinata posizione, ma il vento, mi contrastava, sospingendomi da una parte all'altra e costringendomi a lottare per rimanere in piedi.
Non so quanto perdurò quella che vissi come un’ interminabile odissea. So soltanto che il mio fiato era corto quando, finalmente, mi trovai sul fondo. Ringraziai il cielo e le stelle per avermi assistito e protetto e quando guardai su in alto, al ciglio, compresi di aver compiuto un’impresa pazzesca.
Non persi tempo a rimuginare e avviai subito le ricerche della cucciolata. Per fortuna, gli uggiolii dei piccoli e i lamenti della madre, mi guidarono verso di loro. L’albero in cui era la tana, era semisepolto dalla neve, ma era servito anche da riparo e la paglia e le foglie che erano state utilizzate per il nido, avevano attutito la rovinosa caduta.  Mi diedi da fare per liberare ed estrarre il tronco, un po’ scavando con la spada e un po’ con le mani.  I cuccioli, che dovevano avere poco più di un mese, vennero fuori a uno a uno, uggiolando e scodinzolando, felici di essere liberi, mentre la madre rimaneva ancora rannicchiata all'interno.
Mi chinai per capirne il motivo e solo allora mi accorsi che era ferita. Perdeva sangue da una brutta ferita alla testa e teneva gli occhi socchiusi. Cosa potevo fare? Si trattava di un animale selvatico e se avessi allungato la mano per aiutarla a uscire, probabilmente mi avrebbe morso.
Tuttavia, l’atteggiamento tranquillo della femmina, m’indusse ad agire. Tesi le braccia, e con le mani, la invitai a strisciare avanti. Per un attimo mi guardò negli occhi, poi sospirò e si acciambellò di nuovo. Forse aveva compreso che ero lì solo per aiutarla. Nella speranza che avesse davvero capito, mi feci coraggio, l’afferrai con delicatezza e iniziai a tirare. Evidentemente sofferente e debilitata dalla perdita di sangue, lei si oppose ringhiando e lasciandomi capire che non aveva intenzione di uscire dal rifugio.
Nell'osservarla meglio, le sue condizioni si rivelarono peggiori di quanto mi erano apparse in un primo momento. Infatti, subito dopo iniziò a rantolare, non reagendo più alle mie sollecitazioni. La lupa doveva avere freddo, perché il suo corpo era scosso da tremiti incontrollabili. Capii che per lei non c’era più nulla da fare. Decisi allora di lasciarla morire in pace e per donarle un minimo di sollievo, accostai al suo corpo tutto il materiale soffice e caldo che lei stessa si era procurata per rendere più confortevole la tana per i suoi cuccioli.
Poi, posi una carezza sul dorso della femmina ormai in stato letargico e, con sommo rammarico, la lasciai al suo triste destino.
Mi riposai un attimo, guardandomi intorno. Ora il problema era come uscire da quella trappola infernale.
Non era proprio il caso di pensare di risalire a mani nude quella china così ripida. Nemmeno un provetto scalatore avrebbe tentato l’impresa senza gli attrezzi idonei, per cui, l’unico modo era la discesa. Dovevo solo trovare un sentiero.
Feci la conta dei cuccioli: otto in tutto e si reggevano a malapena sulle corte zampette. Non erano certo in grado di camminare da soli sul manto nevoso. Come fare? Poi, mi ricordai del mantello e mi balenò l’idea di utilizzarlo come un sacco. Così mi apprestai a unire i due lembi dell’orlo annodandoli insieme, quindi, dopo avervi sistemato quattro dei cuccioli, lo ripiegai come fosse un sacco, fermandolo sulla schiena, gli ultimi quattro li sistemai tra le pieghe capaci del kimono e nelle tasche interne.
I cuccioli si accoccolarono gli uni sugli altri e si acquietarono. Ora potevo avventurarmi nuovamente sulla neve ghiacciata.
Mentre mi avviavo sul mio improvvisato scivolo, sperai che da lassù il grande lupo grigio stesse seguendo ogni mio movimento e che non mi perdesse di vista, anche se la cosa mi sembrava assai improbabile.
Per fortuna, quello che dall'alto mi era sembrato un abisso senza alcuna via d’uscita, finì per sboccare in uno stretto canalone sinuoso, così continuai a scivolare, con la speranza di non finire in qualche crepaccio.
Per mia fortuna, così non avvenne e, accompagnato da un silenzio spettrale, rotto soltanto dal sibilo del vento che mi sospingeva alle spalle, in pochi minuti mi ritrovai in una grande radura e lì mi fermai.
Il branco era già lì, in mia attesa. Evidentemente, avevano trovato una via alternativa che girava intorno al pendio e che gli aveva permesso di precedermi.
Il lupo grigio mi si avvicinò, guardandomi fisso. Scrollai la testa e lui capì che per la sua compagna non avevo potuto fare nulla.
Prelevai i cuccioli dalle tasche e liberai quelli che avevo riposto nel mantello consegnandoli al padre.
Mi venne ancor più vicino e solo allora notai che stringeva qualcosa tra i denti. Me la depose ai piedi e disse:
"Sei stato coraggioso Aiashi Hamamoto e questo tuo gesto non lo dimenticherò mai."
Mi aveva riconosciuto per la persona che ero, non più per il mio antenato e questo mi fece piacere.
Annuii, poi mi chinai per raccogliere l’ oggetto.
«Cos'è?» domandai, rigirandolo tra le mani.
"Un potentissimo amuleto. Portalo sempre con te. Si tratta di un dono prezioso che potrà esserti utile nel caso che ti trovassi in difficoltà."
L’osservai con attenzione e mi avvidi che era una zanna. Una lunga zanna incisa con misteriosi ideogrammi.
"Apparteneva al primo lupo che stipulò l’ accordo con un tuo antenato, migliaia e migliaia di anni fa, mentre l’incisione è stata portata a termine e poi consacrata, proprio dal tuo avo. Ricorda, se ti trovassi in pericolo e ti occorresse aiuto, basterà che tu strofini la formula arcana incisa e il talismano si accenderà per prestarti soccorso."
Mentre m’inchinavo per ringraziarlo, sentii una voce in lontananza scandire il mio nome: «Aiashi… Aiashi, svegliati»
                                              
Riaprii gli occhi confuso, avevo la vista annebbiata e impiegai qualche secondo per distinguere il volto di mia zia chino su di me. Mi stava guardando con espressione angosciata:
«Hai avuto un incubo! Era un po’ che cercavo di svegliarti, senza riuscirci. Ti agitavi e borbottavi, a volte urlavi. Mi hai spaventata!»
«Scusami zia.» mormorai imbarazzato, guardandomi intorno. Ero al sicuro, nella mia stanza e il battito del mio cuore si stava normalizzando.  Con quell'incubo avevo vissuto un’esperienza terrificante. L’intera vicenda era stata talmente chiara, da sembrarmi reale.
La zia continuava a scrutarmi con ansia, allora cercai di rassicurarla: «Stai tranquilla e torna a dormire, zia. Ora sto bene.» le dissi, adagiandomi nel tepore delle coltri.
Lei mi sorrise: «Se hai bisogno, chiamami.» poi, col suo fare pacato, uscì silenziosamente dalla mia stanza.
Mi concentrai su ogni particolare del sogno. Rivissi l’incredibile discesa effettuata sullo scudo a mo’ di surf e solo allora mi avvidi di stringere un’oggetto tra le mani. Con estrema lentezza aprii il pugno e riconobbi un’antica zanna di lupo.
Il mio cuore perse qualche battito. Allora non era stato un sogno?

continua...


racconto pubblicato sul sito Scrivere                                     
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