“La proibizione”: il piacere del dominio e della sottomissione

“La proibizione”: il piacere del dominio e della sottomissione

La proibizione, Valentina Durante (Laurana, 2019)
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Avevo scoperto e apprezzato la prosa di Valentina Durante circa un anno fa, quando avevo letto Il ratto, Ofeliaun racconto giunto alla nostra redazione in anonimato e che sarebbe poi finito sul primo numero dell’Ircocervo.
Negli ultimi giorni, dagli scaffali della mia biblioteca, ho visto fare capolino il suo primo romanzo, che ho scoperto essere uscito in primavera. L’ho preso in prestito e ho incominciato subito a leggerlo: non è passato molto che ho iniziato a chiedermi, con sorpresa, perché nei mesi trascorsi non ne avessi sentito parlare, perché non lo avessi mai incontrato in libreria o tra i finalisti di un concorso letterario.
Sia chiaro: non mi stupisce il fatto che le dinamiche editoriali muovano i libri tra librerie e premi non necessariamente secondo il loro valore, e che per questo opere validissime spesso non ricevano la risonanza che meritano. È un destino frequente, ahimè; ma che si rivela ancora più ingiusto in casi come quello de La proibizione, che avrebbe meritato e merita un’attenzione e un riconoscimento decisamente maggiori.
Il romanzo mette in scena una storia familiare morbosa e per questo affascinante. Leni vive in una bella casa di campagna da sola con sua zia Eleonora. Cresce sotto la sua egida, ignorando perché sia priva di genitori. La zia racconta diverse versioni, tutte poi smentite con una nuova storia. La menzogna diventa una componente fondamentale nella maturazione di Leni, fino a quando la zia confessa che sua madre non era morta durante il parto o chissà cos’altro, ma era andata via dopo che lei, a circa tre anni, era caduta dal terrazzino e sua madre l’aveva salvata. Leni viene a scoprire di possedere, come lei, il dono di guarire le persone, ed essere poi condannata a perderle.
Zia Eleonora le riferisce anche che lei ha un altro dono: non affezionarsi alle persone, essere costretta a non legarsi mai troppo a qualcuno, ma non è chiaro, ancora una volta, se sia menzogna o verità; se davvero sia così o se invece è solo un modo escogitato dalla zia perché Leni resti sempre con lei e non stringa rapporti profondi con qualcun altro, e dunque, credendo di non potersi affezionare, di conseguenza non si affezionerà mai. Il rapporto tra Leni e sua zia è morboso, insano. La donna esercita un potere psicologico sulla ragazza, finalizzato a mantenere un controllo pervasivo su di lei. Leni non deve amare nessuno, non deve desiderare altro che non sia presente in quella casa; non deve desiderare d’essere altrove da quella casa.
Dietro modi cordiali e spirito raffinato e colto, la zia tesse una trama invisibile, perversa, maligna, entro la quale tiene imprigionata la ragazza. Il suo è un dominio subdolo e infido: ogni prevaricazione, ogni esercizio di possesso, ogni imposizione di volontà vengono presentati come una necessità finalizzata al suo bene e al suo vantaggio. La zia non si mostra mai arcigna, violenta, prepotente, ma sempre, in fondo, bonaria e impassibile. Anche quando arriva a perpetrare degli abusi sessuali su Leni, fa credere che stia facendo qualcosa di naturale, di giusto.
La peggiore violenza si rivela esattamente quella camuffata, normalizzata, banalizzata.
Leni, dunque, si reputa libera, ma si dimostra ingabbiata nella casa della zia, schiava del suo giogo di gelosie, ansie e ossessioni. Quando la ragazza si scopre incinta, di un concepimento frutto di relazioni riprodotte in maniera altrettanto insana e prive di vero legame per via del presunto dono, zia Eleonora si svela ancor più disposta a tutto per mantenere saldo il suo dominio, che inizia a esercitare anche sul bambino, Daniele. La donna isola il bambino dal mondo come ha fatto con Leni, e a sua volta isola madre e figlio l’una dall’altro, innescando contrasti e tensioni tra di loro. Impedendo che si amino e che abbiano un rapporto sano, mantiene incontrastata la sua egemonia. La vicenda va avanti e assume sembianze via via diverse, più esacerbate, sulle quali è opportuno tacere.
Durante ha scritto un romanzo intrigante sul potere e sulla sottomissione, nonché sul piacere che deriva tanto dal primo quanto dal secondo. Il possesso e la prevaricazione creano assuefazione nei carnefici ma soprattutto nelle vittime. Si fa masochismo. L’autrice ricama e descrive un rapporto così complesso con un tale nitore che è qualità rara per un esordiente. Senza sfuggire mai alle insidie e alle difficoltà di affrontare una simile materia letteraria, anzi, osa insinuarsi nei meandri più profondi di questo rapporto e negli abissi della psiche di Leni. E ci restituisce un quadro intrigante, articolato, giustamente contraddittorio; e, per chi scrive, non è affatto facile riuscirci senza cadere nel banale, nel mellifluo, nel già sentito, se non addirittura nel ridicolo.
Come avevo avuto modo di apprezzare con Il ratto, Ofelia, Durante ha una capacità encomiabile di descrivere le sensazioni, i turbamenti, i dilemmi interiori, insomma di dare forma e apparenza a ciò che ne è privo. Ci riesce attraverso una prosa elegante, che è densa ed elaborata ma al tempo stesso mantiene soavità e leggerezza, e ancor più attraverso la potenza simbolica delle immagini: in un’azione, un oggetto, una qualsiasi sembianza riesce a inserire un arsenale vastissimo di frame, significati, evocazioni (la valigia, l’oleandro, ecc.).
In particolare, come nel racconto già citato, lo fa attraverso l’utilizzo di un animale quale correlativo oggettivo del protagonista. Nel primo caso era appunto un topo, qui è la volta della farfalla (ma esplicitarlo sarebbe fare un torto a chi vorrà leggere il libro). L’uomo si riflette nell’animale e viceversa, svelando una comunione di destini ed esistenze. Guardando l’essere non umano, l’umano osserva se stesso.
Chiaramente, trattandosi di un’opera prima, il romanzo non manca di alcuni difetti, come la presenza di alcune parti lunghe e pleonastiche, le quali sembrano l’effetto di una volontà di arricchire la narrazione di dettagli e descrizioni che, in realtà, rallentano e fanno impigliare la lettura, risultando talvolta anche ridondanti: ad esempio la descrizione dei taglieri o dei disegni di Daniele che avrebbero potuto richiedere uno spazio minore. Si tratta di casi, per fortuna isolati, che dimostrano come spesso sia preferibile procedere per sottrazione piuttosto che per addizione.
Ciononostante, La proibizione si dimostra un romanzo ben scritto e ben pensato, interessante e di qualità, meritevole di maggiori letture e attenzioni, e che non sfigurerebbe al cospetto di alcuni romanzi premiati e chiacchierati usciti nel corso dell’anno. Con questa prova di esordio, Valentina Durante si rivela anche nella forma lunga, dopo la forma breve, una scrittrice di tutto rispetto.
Piccolo post-scriptum: nota di demerito per il retro di copertina, che mostra una frase che il lettore farebbe bene a non leggere, in quanto pare suggerire una soluzione a un finale che in realtà lascia ampio spazio alle interpretazioni.
Giuseppe Rizzi

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