QUADERNO DEI FIORI, di rebeccastories

Morirebbe, lei, persa fra le vostre barbe. Fiori suoi coi capelli, con la pelle torrida e le unghie vere – aguzze, per trattenerla più a lungo – con il grano dritto sulle guance e i fiumi elettrici sotto al naso.
Sempre detto che i fiori debbano dormire insieme ai baffi, piuttosto che sulle molli chiome delle donne. I fiori, la barba, la morbidezza e le linee rigide. Sono contrari che non si annullano affatto, sprigionano il sapore di una bellezza infinita.
Tu, ramo di pesco, e i tuoi polpastrelli eccitati di corde, proprio adesso tamburelli sul centro molle del suo palmo…ah le comete! Che incanti folgorati, le può vedere, scoppiettano una dopo l’altra sopra il nido di pelle. Potresti quasi scorgere le scie bruciate sui suoi polsi se non le coprisse con le maniche. Si avvicina, naso contro naso, si dissolve sulla linea dolce fra barba e labbro, fra erba chiara e petali.
E poi ci sei tu, ramo di magnolie profumate, incastri il tuo collo al suo e non c’è verso che si stacchino più i vostri gambi. Anche tu con quelle dita risolute, a bussarle piano sulla testa – picchiettii regolari – per diffondere meglio il piacere sciolto che ha raggrumato in mezzo al cranio. I tuoi occhi devono ancora germogliare, non farlo! Anche lei ti prega, lasciali così socchiusi, sempreverdi.
I petali di susino? Li ricordiamo ancora, fin troppo. Immensi petali che succhiano via tutto il calore di una vita. Lei muore proprio adesso, sgretolata sopra la tua foto. In quale buco fra i pensieri si è nascosto il tuo odore?
Fiori scuri di ciliegio, germogli di melo, tutti quanti prosciugati, essiccati in fretta dal suo respiro affannoso. Misere polveri di fiori morti. Tutti fiori suoi, tra i capelli.

Tranne uno.
Corona di papavero nero. Mai odorato, mai colto, mai sgualcito fra le sue braccia. Sappiamo che esisti davanti ai nostri occhi chiusi. Ogni singolo senso bagnato grida invano tue parole, nel nulla, ma è solo un’eco a notte fonda, nessuno sentirà.
La tua grafia, tutto ciò che ci hai lasciato, gli irrequieti solchi su cui scivoliamo minuscole, come sfere di penne, ci bastano quelli. Abbiamo solo quelli. Bastano le tueg gonfie d’acqua a sussurrarci le vertigini più innominate. Bastano le tue t affilate a mostrarci quanto fossero fasulle – accessorie – le vertigini dei profumi esauriti.
    Vorrei abbracciarti senza carne, vorrebbe lei abbracciarti con la carne. Tu in compagnia della mia assenza. Noi in compagnia della tua assenza. In compagnia di assenze. E basta. Sei tu la nostra essenza d’assenza nel vuoto del cosmo sotto al cuscino? Hai braccia trasparenti, le hai sempre avute.
É dentro la solitudine, dentro al silenzio, al buio, e nel vuoto, e nel nulla, e nel sublime, e nella paura, che lei le sente annodate a sé.
Ma.
Mi chiedo, si chiede, potremmo forse provare di più? Se ci trovassimo insieme, sui nostri piedi di foglie umide, di carne e solo di carne, dentro lo stesso cubo spaziotemporale? Io, lei, tu. Me lo chiedo continuamente. Potremmo forse provare di più se potessimo sorseggiarti, come tutti, dal fondo del suo naso? Mi dico subito che no, assolutamente, lei ti prosciugherebbe subito, non voglio che lo faccia, non vuole, poi mi dico, ma forse, forse si? Forse sarai tu a prosciugare noi? Ci brilla qualcosa dentro, ma poi io dico che no, assolutamente…non lo so, me lo chiedo, ogni ora. L’ora moglie d’oro, in cui ti scrive parole di nascosto sul materasso, l’ora in cui mi leggi, l’ora di ieri, l’ora di un giorno sbagliato, l’ora in cui lei dorme, è sempre ora, qui dentro.
    Lei ha sognato che impalavi il suo collo ad un albero, con un grosso spillo, spegnendole la vita. Il dolore fulminante. Ma non poteva più fare nulla, davanti agli occhi solo un’immagine ipnotica. Una parete di crosta sulla quale una muffa senape pulsava a tratti d‘arancione, a tratti di rosso. E poi c’era quel ritmo, quel suono profondamente ovattato, ancestrale, infinito. I mugolii dell’oblio. Lo so che hai sognato anche tu, lei ti ha visto. Lei frascame umido e caldo, io tela tersa, trasparente. E Tu…tu, solo: noi.
    Sono ancora un morbido uovo fra le tue braccia di carne non di carne, bada di non stringere mai con forza, altrimenti mi schiuderei in alba liquida e, colando sul mare, (come brividi) ti amerei. Papavero nero, eppure te l’ho detto che il tuo miele saprebbe di dolce corteccia fluida, con una punta acre di veleno, e l’aroma lontano del castoreum; lo berremmo dentro al cuore cavo di un limone. Ne vorrei un cucchiaino adesso, per favore; nella nostra tazza, finché dura questa schiuma sulla pozza della noia. Finché vive il ragno e la sua tela dentro ai seni della mora. Finché dura. Finché dura?
    Ti prego scavati più a fondo le occhiaie buie, seppelliscimi dentro. Scriveremo il tuo nome lungo tutte le nostre  ossa.

[triangolo amoroso fra me, un’altra me, un altro me…e tante altre barbe]



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