L’eredità che lasciamo. Riflessioni verso una rottamazione positiva, Carlo Baviera

by, Carlo Baviera
Ormai è passato molto tempo dalla ricorrenza del 25 Aprile. Che c’entra il 25 Aprile ora? E’ che io, in quei giorni, ma anche dopo (anche ora che ci si interroga sui risorgenti autonomismi e sono messe in discussione le ragioni del sentirsi accomunati da una stessa Patria), mi sono interrogato sul fatto che i nostri padri (e nonni) hanno avuto il compito storico della resistenza e della liberazione, e hanno saputo lasciarci, di conseguenza,  una Italia libera democratica repubblicana; e poi hanno lavorato alla ricostruzione del Paese, che è merito anche delle nostre sorelle e fratelli maggiori. E mi chiedevo quale sia l’eredità che la nostra generazione lascia ai figli e nipoti (parlo dell’Italia).
Per me il merito si può condensare in poche parole, che possono sintetizzarsi in società più aperta, con più opportunità, e sensibilità pacifica e internazionale. Infatti siamo vissuti fortunatamente in pace per 70 anni; (almeno fino a 10 anni fa) si è fatto crescere l’ideale Europeo; si è sconfitto il terrorismo; si è realizzato un welfare inclusivo e universalistico; ottenuti una serie di diritti; sviluppata (almeno per un certo periodo) la partecipazione democratica che si tramuta oggi in coscienza civile e in cittadinanza attiva; creata una sensibilità ambientale più marcata che si manifesta in impegni per la difesa dei territori, per il recupero e il restauro di bellezze artistiche e monumentali, e una maggiore consapevolezza contro inquinamenti e corruzione.

Poi anche noi abbiamo colpe, errori, dimenticanze, e molto di negativo; come ogni generazione. Lo stesso ’68 (importante e fondamentale per certi versi) ha prodotto anche eccessi e sbandamenti che si pagano ancora a livello educativo e di valori, soprattutto. Noi però dobbiamo essere consapevoli dei nostri compiti, responsabilità e meriti. Adesso tocca ad altri, con altri compiti e obiettivi, da lasciare a loro volta come testimone.
C’è chi ha voluto commentare quelle mie riflessioni (fatte pubblicamente sui social) sottolineando un poco ironicamente: “pensavo che indicassi, fra l’eredità che lasciate, il debito pubblico”. Ecco al fondo del ragionamento la battuta pungente, caustica, un poco irridente un poco bruciante. <In cauda venenum> avrebbero detto i latini (se ricordo bene, perché il latino era la mia bestia nera alla medie): è nel fondo che si nascondono i pericoli, i veleni, i trabocchetti. Il debito pubblico esiste, non si può nasconderlo o minimizzare, e peserà sulle nuove generazioni.
Però, se il debito pubblico è uno degli aspetti negativi (l’ho detto, ce ne sono anche altri) non lo si può addossare ad una intera generazione come rappresentasse uno sbandamento collettivo, come la sbornia devastante di un popolo. E’ una colpa aver fatto avanzare le condizioni di vita di tante persone, di aver riconosciuto tutele e diritti sociali, di aver fatto avanzare in fatto di benessere e dignità una generazione? Credo proprio di no. La colpa semmai va imputata alla cultura consumista, al benessere sfrenato, all’arricchimento esagerato imposto dal mercato, dal turbo capitalismo, dai modelli della modernità individualista ed egocentrica: questa era la nuova religione che ci ha distolto dai concetti di bene comune, di responsabilità, di solidarietà.
A volte ci ha obbligati a rincorrere quei disvalori, imponendo consumi divertimenti comodità, come massima esperienza e frontiera della libertà. Si sono indeboliti, se non uccisi, i corpi intermedi, le occasioni di relazione vera e collettiva tra le persone sostituendole con programmi TV e computer (ore davanti ai media, soprattutto i bambini), si è pensato la famiglia tradizionale come un qualcosa di superato, i sindacati come impedimento all’utilizzo più snello e produttivo dei lavoratori. E si potrebbe continuare.
Perciò colpevolizzare una generazione rispetto al debito pubblico può essere un modo per imporre le proprie ricette da parte del cosiddetto establishment per rimettere in ginocchio chi si regge con il proprio lavoro (sempre più incerto e precario) e ridurre i redditi, anziché ridurre i bisogni artificiali o diminuire il costo della vita.
Il mercato e la produzione spingono verso esigenze nuove, forzano ad acquisti e servizi molte volte inutili, e allo stesso tempo si vuole comprimere il potere d’acquisto delle persone. Si vuole ridurre le tasse (giusto) ma tagliando servizi essenziali, mai i veri sprechi; tagliando gli stipendi o le ore di lavoro e mai intervenendo su chi si arricchisce in modo equivoco.
Il discorso porterebbe lontano, e non era questo il motivo di questo intervento.
Il motivo era semplicemente quello di riportare in evidenza il bello, il positivo che è stato realizzato da chi è nato, grossomodo, nel decennio dell’immediato dopoguerra. Io ho proposto un mio elenco. Forse altri individuerà altri punti da enfatizzare.
L’importante è, almeno per una volta e non per chiudere gli occhi di fronte alle realtà negative che pure ci sono, lasciare da parte il veleno e pensare davvero alle tante conquiste della seconda metà del XX secolo.
Le nazioni che hanno raggiunto la democrazia, l’aumentato benessere generale, la sconfitta di malattie secolari (lasciamo da parte le polemiche sui vaccini), la maggiore collaborazione tra nazioni, l’aver costruito pacificamente una realtà sovrannazionale come l’Europa: grandi risultati di una generazione.
E, tornando all’Italia, non mi sembrano da snobbare leggi come il nuovo Diritto di famiglia, il Servizio Sanitario Nazionale, la Scuola Media unica, la legge sulle Autonomie locali, quella sul sistema integrato di interventi e servizi sociali
E non è da meno la maturazione di una coscienza rispettosa dell’ambiente (la Legge sugli ecoreati – del 2015), dei diritti di minoranze, della partecipazione civica, di una cittadinanza attiva, di una reazione (anche se non sempre chiaramente visibile) che scatta contro  corruzioni, deturpazioni della bellezza, e per la difesa della Carta Costituzionale quale riferimento fondamentale della vita democratica.
Queste cose dobbiamo rivendicarle come nostra eredità e considerarle come avanzamento rispetto alla generazione precedente. Poi ognuno è libero di essere pessimista e di vedere sempre e comunque il bicchiere mezzo vuoto; ma con questo spirito non ci sarà neanche la voglia di darsi nuovi obiettivi e di migliorare ciò che non funziona ancora bene.







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