LA FINANZA OCCIDENTALE DOMINA IL MONDO

E' ancora l'Occidente a dominare il mondo, ma finanziariamente non politicamente.
Il lungo, esaustivo e interessante articolo che vi propongo, è stato scritto da Alessandro Pansa, collaboratore della rivista di geopolitica Limes, deceduto pochi giorni fa, figlio del più noto Gianpaolo Pansa, giornalista e scrittore. Rivela una verità sconosciuta ai più, su quali siano gli effettivi campi di battaglia nei quali si stanno combattendo le guerre per il dominio globale, che solo in ultima istanza possono essere i conflitti bellici, ma più spesso le strategie di espansione e sfruttamento si giocano sul controllo dei brevetti e dei tribunali internazionali e condizionando le legislazioni nazionali ma soprattutto internazionali in ambito commerciale, oltre che possedendo le maggiori banche mondiali e di conseguenza controllando le banche centrali che creano denaro dal nulla. Fornisce anche alcune proposte valide su come si dovrebbe porre rimedio a questa situazione di grave ingiustizia e squilibrio che porterà inevitabilmente a conflitti sociali e ulteriori perdite di credibilità e potere di intervento della politica nazionale e sovranazionale (ad es. l'UE), sempre più asservita ed impotente.
Claudio Martinotti Doria

LA FINANZA OCCIDENTALE DOMINA IL MONDO
Pubblicato in: CHI COMANDA IL MONDO - n°2 - 2017

[Carta di Laura Canali]
24/02/2017
Il nostro pianeta è un campo di battaglia dove si compete per la distribuzione del potere relativo agli scambi di prodotti e servizi a più alto valore aggiunto. La prevalenza delle istituzioni finanziarie e delle banche americane e anglosassoni.

1. Nessuno controlla il mondo è il titolo di un famoso libro 1. Riassume la convinzione che le società occidentali abbiano perduto la capacità di guidare l’evoluzione dell’ordine internazionale, i processi di sviluppo sociale ed economico, i mercati finanziari, le controversie diplomatiche e la competizione tra sistemi politici.
In effetti: l’economia dei paesi emergenti cresce a tassi maggiori di quelli realizzati in Occidente; l’internazionalizzazione della tecnologia appare un dato di fatto; la produzione industriale e il commercio internazionale si sviluppano secondo modalità che non sembrano più determinabili da Stati Uniti, Europa e Giappone; la finanza sembraincontrollabile; la forza militare di molte nazioni emergenti sta crescendo, tanto in termini relativi che assoluti; persino le crisi militari – è il caso della Siria – sembrano poter essere affrontate senza la partecipazione degli Usa, circostanza mai accaduta dalla fine della seconda guerra mondiale.

La politica, di conseguenza, ha assunto forme inedite. Le istituzioni dei paesi emergenti, quando sono diverse dalla democrazia liberale, appaiono – e si ritengono – «alternative credibili» e non «deviazioni temporanee da una strada a senso unico verso la convergenza globale» 2. Esse, infatti, sembrano assicurare opportunità di crescita e – fatto assai più importante – di sviluppo alle società che governano; resilienza; tempestività di risposta – anche grazie alla minore necessità di gestire il consenso – alle sollecitazioni di un sistema globalizzato; comportamenti più assertivi nella difesa del ruolo internazionale di un paese e nella gestione di crisi diplomatiche.
La globalizzazione, appunto. Per molti è questa la vera causa efficiente della perdita di baricentro del mondo, del suo mutato equilibrio o maggiore disequilibrio. In una sorta di nemesi della storia o di eterogenesi dei fini, la liberalizzazione dei movimenti di capitale, la deregolamentazione dei mercati finanziari, l’internazionalizzazione della tecnologia e l’imposizione di regole al commercio internazionale – sostenute prima di tutto dai governi britannico e statunitense – avrebbero finito con il rivoltarsi contro coloro che hanno voluto, costruito, dotato di dignità intellettuale e difeso questo sistema, frammentando e trasferendo al resto del mondo un potere che per secoli era stato appannaggio dei sistemi occidentali.
A questi ultimi non resterebbe che adattarsi. Accettare il mutato corso della storia che descrive, dal punto di vista tanto economico che politico, un mondo multipolare dominato dai mercati, che a loro volta non sono controllati da nessuno e allocano capitali e investimenti là dove migliore è il rapporto tra rischio e rendimento. In questo scenario, le sole cose che i paesi occidentali possono fare sono le seguenti.
A) Creare le condizioni per essere apprezzati dai mercati stessi: attuare rigorose politiche di finanza pubblica; «rendere sostenibili» (spesso un eufemismo per non dire «restringere») i sistemi di welfare; assicurare elevati rendimenti del capitale; sostenere iniziative di deregolamentazione e liberalizzazione.
B) Accettare la competizione tecnologica e industriale con altri paesi e sistemi, adattando a quest’ultima i mercati del lavoro e i sistemi di sviluppo e produzione di beni e servizi.
C) Smetterla di pensare che «la democrazia liberale sia l’unica forma legittima di governo» 3 e accettare l’esistenza di altri sistemi politici, più in grado del nostro di favorire lo sviluppo delle società che governano.
L’ortodossia accademica, tanto dell’economia e della finanza quanto della scienza politica e delle relazioni internazionali, ha prodotto una sterminata letteratura a sostegno di queste tesi 4.
Carta di Laura Canali
2. Non è detto che la realtà corrisponda del tutto a questa rappresentazione. Se l’essenza della globalizzazione sono l’internazionalizzazione della tecnologia e la libertà dei movimenti di capitale, il mondo è attraversato da conflitti volti a controllare tanto lo sviluppo tecnologico quanto i mercati finanziari. La liberalizzazione degli scambi commerciali, sancita simbolicamente dal passaggio dal Gatt alla Wto, ha innescato una strenua concorrenza per il controllo della proprietà intellettuale, «il mattone chiave della nuova economia» 5.
Nel momento in cui sono trasferibili i beni e i servizi ma non la tecnologia, la libera circolazione delle merci si riduce di significato: è come se l’hardware fosse disponibile a tutti ma il software no. Ed è infatti questa restrizione che perseguono in particolare i paesi ricchi e sviluppati. Lo fanno attraverso le politiche seguenti.
A) Regolamentazioni competitive – e progressivamente più favorevoli alle imprese – in materia di brevetti e diritti d’autore per ciò che concerne la durata, l’estensione, la tutela rispetto ai concorrenti.
B) Imposizione di norme internazionali volte a limitare lo sviluppo della tecnologia nei paesi emergenti. L’accordo Trips (Trade Related Aspects of Intellectual Property Rights) stipulato nell’ambito della Wto ha vietato la pratica del reverse engineering, per decenni elemento trainante dello sviluppo dei paesi emergenti (inclusa l’Italia del secondo dopoguerra) 6.
C) Concessione di sussidi alla produzione di tecnologia. Si pensi al programma statunitense Sbir (Small Business Innovation Research) o ai crediti fiscali all’innovazione assicurati dalla Francia, che ha pure varato una legge per il controllo azionario pubblico delle società a elevato contenuto tecnologico. Il sostegno pubblico porta inevitabilmente con sé vincoli all’esportazione della tecnologia (technology transfert); obblighi di incorporare una quota di tecnologia nazionale nei beni acquistati dalla pubblica amministrazione (il Buy America, ad esempio).
D) Utilizzo degli strumenti legali per difendere la proprietà intellettuale. Le cause e gli arbitrati miliardari a tutela dei brevetti – così come i tentativi compiuti dai governi di influenzare la nomina dei giudici delle Corti internazionali e la definizione delle legislazioni applicabili – costituiscono altrettante battaglie di una guerra commerciale senza esclusione di colpi. Alla quale partecipano attivamente il Patent Office statunitense e l’European Patent Office (Epo), con sede in Germania, diretto da un francese. Google e Apple spendono di più per acquisire e proteggere legalmente brevetti di quanto investano direttamente in ricerca e sviluppo 7.
La strategia ha avuto successo. Negli ultimi anni si è assistito a una vera e propria «corsa alla brevettazione»: le richieste inoltrate all’Epo sono aumentate del 32% nel periodo 2005-15, quelle avanzate al Patent Office americano del 29%, specie nei settoridigital communication (+47%), computer technology (+41%) e biotechnology (+53%). Ma si tratta di una crescita che ha riguardato prevalentemente i paesi occidentali, che detengono quasi l’80% del patrimonio tecnologico globale. Il resto del mondo produce, in termini relativi, meno proprietà intellettuale oggi di dieci anni fa.
Il gap tecnologico – cioè il tempo che occorre a un gruppo selezionato di economie emergenti per disporre di una dotazione tecnologica comparabile a quella di un paniere di paesi occidentali – è cresciuto dal 2005 a oggi da 12 a 16 anni 8.
Sono numerose le conseguenze di questi fenomeni. La prima è un incremento relativo dell’attività di ricerca e sviluppo svolta dalle grandi imprese. Quelle con una capitalizzazione di mercato superiore ai dieci miliardi di dollari hanno visto crescere – nel periodo 2005-15 – la propria quota di investimenti in ricerca e sviluppo dal 28% al 35% delle spese complessive sostenute dal settore privato in questa attività 9.
I rendimenti di scala crescenti delle nuove tecnologie 10 favoriscono processi di concentrazione industriale e la creazione di monopoli o oligopoli costituiti da gruppi multinazionali che impongono standard produttivi a livello mondiale e condizionano le strutture regolamentari tanto dei loro paesi di origine quanto dei mercati di sbocco. I flussi di cassa generati dalla commercializzazione di beni ad alta tecnologia stimolano le acquisizioni di imprese dotate di un buon patrimonio di brevetti ma non in grado di competere con i più importanti gruppi del loro settore. Oltre il 65% del prezzo 11 al quale sono state acquisite imprese nei settori ad alta tecnologia negli ultimi vent’anni deriva dalla valutazione della loro proprietà intellettuale.
Anche la tutela di quest’ultima avviene secondo procedure caratterizzate da una crescente asimmetria: le risoluzioni arbitrali delle controversie sui brevetti – nelle quali sono favorite le grandi imprese, tanto per le risorse che sono in grado di impegnare quanto per il maggior potere che hanno di scegliere la legislazione di riferimento – sono state nel 2015 maggiori del 38% rispetto al 2005. Al tempo stesso, si è ridotto il numero di giudizi tenuti presso le Corti ordinarie dove, viceversa, lo svantaggio delle imprese minori dovrebbe essere più contenuto. Il 70% circa dei contenziosi si è concluso a favore dell’azienda di maggiori dimensioni 12.
Il mondo, dunque – più che un luogo dove le imprese commerciano liberamente e i governi si occupano di minimizzare i costi di transazione, come vorrebbe la retorica della globalizzazione – appare come un campo di battaglia dove si combattono guerre per la distribuzione del potere negli scambi di prodotti e servizi a più elevato valore aggiunto. E l’Occidente, questa battaglia, non l’ha perduta.

3. Un fenomeno analogo si è prodotto sui mercati finanziari. È cresciuta la dimensione degli intermediari che richiedono libertà dei movimenti di capitale, mercati omogenei e meno regolamentati dove ricercare opportunità di profitto, necessarie per sostenere il corso delle azioni e realizzare consistenti aumenti di capitale a loro volta indispensabili per finanziare la crescita.
I progressi nelle tecnologie informatiche consentono di sfruttare economie di scala e di gamma che giustificano l’incremento dei volumi e della presenza geografica degli operatori. Il processo si è completato con il passaggio da un sistema di sorveglianza diretto (tutto ciò che non è espressamente permesso è vietato) a uno indiretto (tutto ciò che non è espressamente vietato è permesso) e con l’introduzione di coefficienti patrimoniali che lasciano «liberi gli intermediari di assumere qualunque rischio purché dispongano di un capitale commisurato all’entità dei medesimi» 13.
La globalizzazione finanziaria – un’iniziativa dei governi statunitense e inglese per imporre le regole e il ruolo del sistema bancario anglosassone – ha dunque sconvolto le relazioni tra paesi, tra banche e governi, tra mercati e imprese.
La «tecnologia finanziaria», controllata dai grandi intermediari occidentali, prevale sul capitale. Quest’ultimo – la cui accumulazione è oggi concentrata nei paesi emergenti – ha perso di peso ed è diventato una sorta di «materia prima». In quanto tale vale poco perché la libertà di movimento lo rende praticamente infinito, e acquista rilevanza solamente quando, per generare un rendimento adeguato, viene «lavorato» dalle banche che lo incorporano in attività finanziarie da collocare sui mercati.
La riforma del sistema finanziario britannico del 1986 (il «Big Bang»); il Banking and Branching Efficiency Act statunitense del 1994, che eliminò le restrizioni sulle attività bancarie da uno Stato all’altro; l’abolizione, nel 1999, del Glass-Steagall Act che separava le attività bancarie commerciali da quelle di investimento; la frustrazione dei tentativi di applicare la legge Dodd-Franks del 2009; l’ampliamento della possibilità per i fondi pensione e le compagnie di assicurazione di investire sul mercato azionario americano, sono altrettanti strumenti per il sostegno del sistema finanziario occidentale e il controllo dei flussi di capitali 14.
I presupposti del benessere di un paese e della sua influenza nel mondo risiedono nella capacità di governare enormi trasferimenti di liquidità. Chi controlla i movimenti di capitale finanzia i percorsi di sviluppo della tecnologia e dei sistemi industriali e quindi la distribuzione del potere sui mercati dei beni e dei servizi.
I processi di liberalizzazione sono serviti ai maggiori intermediari per consolidare l’influenza sui mercati e acquisire capacità globali. Nel 2015, le cinque maggiori banche americane detenevano il 45% delle attività bancarie statunitensi, rispetto al 25% del 2000 15. Nel mondo, 42 banche – tutte di origine occidentale tranne cinque cinesi – gestiscono il 50% delle attività finanziarie globali 16.
L’Occidente, dunque, non ha perso potere rispetto al resto del mondo. Semmai ne hanno assai meno i governi occidentali. È certamente vero che lo sviluppo economico e il rafforzamento politico di Cina, India e altri paesi stanno ridefinendo il baricentro del mondo. Tuttavia, un significativo processo di distribuzione del potere è avvenuto all’interno dell’Occidente: la competizione per il controllo della tecnologia e dei mercati finanziari ha contribuito a trasferire enormi quote di potere dai governi alle principali istituzioni finanziarie e industriali. Le prime influenzano le politiche finanziarie degli Stati, gli investimenti pubblici – specialmente in infrastrutture – e l’evoluzione dei sistemi di welfare. Le seconde condizionano la dotazione tecnologica di un paese, il suo sistema industriale, le politiche per il mercato del lavoro, la distribuzione delle strutture produttive.
Le istituzioni finanziarie e industriali, nel sistema attuale, debbono rispondere prevalentemente ai requisiti stabiliti dai mercati (e pensare che la rivista Forbes, nell’ottobre 1951, aveva definito i capi delle grandi imprese «statisti industriali»…) e dispongono di una funzione obiettivo che non incrocia se non per caso quella dei cittadini.
Ci sono tre parti in commedia: il sistema finanziario, quello industriale e quello politico. Mentre i sistemi finanziario e industriale sono internazionali – vengono cioè governati dalle regole del mercato globale – quelli politici sono essenzialmente nazionali, a volte addirittura locali.
Semplificando ma non troppo, ogni sistema dispone di un suo referente: gli investitori, gli azionisti, i cittadini elettori. Senonché, gli investitori e gli azionisti possono «votare con i piedi», cioè spostare i loro capitali e vendere le loro azioni. E possono farlo tutti i giorni. Gli elettori decidono solamente quando vengono chiamati a farlo e, per di più, esercitando la loro sovranità in un ambito assai più ristretto di quello in cui operano le banche e le imprese, almeno quelle che contano. Cosicché le loro esigenze si infrangono contro un sistema sul quale le politiche dei singoli paesi hanno ben poco potere.
È comprensibile, pertanto, lo scarso fascino – al quale si possono far in un certo senso risalire alcuni sorprendenti risultati elettorali recenti – esercitato dalla democrazia liberale e la conseguente significativa riduzione del ruolo geopolitico dell’Occidente. Siamo divenuti una società polarizzata, dove convivono ricchezza e diseguaglianza. Principalmente a causa di un processo tecnologico che favorisce una redistribuzione del reddito senza precedenti, riducendo i salari reali, sganciandoli dalla produttività e mettendo a rischio la sopravvivenza della classe media, vera cifra distintiva delle società occidentali, mentre ovunque nel mondo si trovano i ricchi e i poveri. Dall’inizio del secolo – al contrario di quanto accaduto nella seconda metà del Novecento – il reddito di impresa viene allocato per circa il 35% al lavoro e il 65% al capitale, la cui liquidità viene assicurata dagli intermediari.
Il sistema finanziario amplifica il fenomeno. La tendenza a chiedere ai paesi meno solidi politiche di rigore che spesso divengono recessive, la preferenza per la liquidità delle imprese e per i loro risultati a breve termine, l’affidare ai mercati il nostro benessere sono altrettante spinte verso un mondo più polarizzato: nel film Gran Torino, Clint Eastwood viene licenziato perché il fondo pensione dell’azienda del vicino di casa aveva preteso una ristrutturazione che aumentasse i profitti della società per cui Eastwood lavorava.
Rispetto al passato, sono cresciuti i ricchi che non lavorano e ancor di più i poveri che lavorano. La ricchezza finanziaria pesa più del reddito da lavoro: la prima è concentrata, il secondo insufficiente. «Possiamo avere la democrazia o possiamo avere la ricchezza concentrata nelle mani di pochi, ma non possiamo averle entrambe» 17.
Non è certo che le società occidentali reggano gli eccessivi livelli di diseguaglianzacui la globalizzazione della finanza le costringe. Un sistema democratico postula un accettabile livello di equità, senza il quale è a rischio la coesione sociale, si affievolisce il senso di appartenenza e viene svuotato il principio di sovranità. L’Occidente corre un pericolo significativo: le nazioni falliscono quando le loro istituzioni, un tempo inclusive, divengono escludenti e piegano economia e regole del gioco al servizio delle élite costituite 18.
Carta di Laura Canali
4. La democrazia, un prodotto tipico dell’Occidente, come d’altronde la globalizzazione, è lenta – «non corre», scriveva Tocqueville, perché «ci vuole più di un giorno per decidere del benessere dei cittadini». E si rivela dunque sempre meno in grado di governare i processi tecnologici, industriali e finanziari globali, che tendono a svuotare di significato i suoi istituti.
Cresce così la consapevolezza della nostra inadeguatezza, rafforzata dagli insensati e dannosi tentativi di esportare le nostre istituzioni sulle ali degli F18. Eppure non siamo portatori di istanze e valori così risibili. Li abbiamo costruiti in quattro secoli di elaborazioni filosofiche e religiose, ma anche di iniziative politiche. Ma non siamo più convinti di avere la storia dalla nostra parte.
Il nostro mondo sembra dunque essere immerso nella seconda fase del ciclo di accumulazione descritto da Braudel 19. Periodo caratterizzato dall’investimento del capitale in strumenti finanziari, dall’espansione dei mercati e della liquidità che favoriscono una crescita fondata sull’effetto ricchezza alimentato da bolle speculative. Quando queste scoppiano il debito accumulato diventa insostenibile e la depressione è dietro l’angolo.
Questa tesi spiega perché, ad esempio, le classi dirigenti sembrano essere meno interessate al welfare: quest’ultimo era funzionale al primo dei cicli definiti da Braudel, caratterizzato da una società fondata sull’investimento nell’industria manifatturiera. Che richiedeva personale «assistito» da garanzie pubbliche su salute e previdenza 20. La minore domanda di manodopera e la prevalenza dell’effetto ricchezza rispetto a quello di reddito, tipica di un sistema fondato su profitti finanziari, hanno reso meno rilevanti i meccanismi di protezione sociale.
Senonché, il capitalismo rischia di andare verso il tramonto. Vuoi per colpa della finanza – come sostiene Braudel – vuoi perché «i conflitti per il dominio della tecnologia emarginano l’economia capitalista e la concorrenza che ne è l’essenza, favorendo il monopolio» 21, secondo quanto afferma Severino. Ma poiché il capitalismo può esistere senza la democrazia mentre quest’ultima difficilmente potrebbe sopravvivere senza il primo, è il capitalismo che va salvato, in parte anche da se stesso 22.
E come salvarlo? Attraverso un processo di redistribuzione del potere all’interno dei sistemi occidentali che ridia spazio al ruolo e all’autonomia dei governi e conferisca valore al concetto di sovranità popolare, intesa come impegno degli istituti elettivi (diretti o indiretti) a rispettare – ma anche a interpretare e rendere compatibile con le «condizioni al contorno» – la funzione di preferenza dei cittadini.


5. Tale percorso deve partire affrontando il tema più pervasivo e influente: la dimensione dei mercati finanziari e le condizioni che questi impongono agli Stati e alle società che questi ultimi governano. Per essere meno instabili 23 e autoreferenziali, più controllabili e maggiormente compatibili con i bisogni della società, i mercati debbono diventare più piccoli. D’altronde, così grandi non servono.
Il valore delle attività finanziarie mondiali a fine 2015 ammontava a 741 trilioni di dollari 24, solamente un terzo dei quali (249 trilioni) era costituito da attività riferibili alla produzione di beni e servizi (azioni, obbligazioni, prestiti bancari), mentre 492 trilioni erano rappresentati da strumenti sintetici che nulla hanno a che vedere con investimenti industriali o iniziative commerciali.
Dove intervenire? Iniziamo con lo stabilire che l’introduzione di una distinzione tra capitali a lungo e a breve termine (applicata dall’Ocse sino alla metà degli anni Ottanta e poi abolita) e un differente trattamento fiscale dei loro movimenti limiterebbe i flussi a breve – vera causa delle eccessive dimensioni e dell’instabilità dei mercati – non scoraggerebbe gli investimenti a lungo termine e ripristinerebbe la separazione tra capitali «benefici» e «dannosi».
In un mercato meno ampio sarebbe più agevole introdurre forme di separazione operativa e specializzazione funzionale degli intermediari. Segregando le attività svolte in proprio (portafogli di proprietà, prestiti alla clientela) da quelle per conto terzi (asset management); insieme, distinguendo le attività di negoziazione di titoli da quelle di finanziamento di investimenti. Si ridurrebbero la dimensione media delle banche, la necessità di far crescere le masse gestite e i fabbisogni di capitale. Sarebbe utile una riforma dei coefficienti patrimoniali tale da incentivare il finanziamento degli investimenti industriali e limitare la propensione all’emissione di strumenti derivati non correlati con iniziative produttive e commerciali.
Più in generale, si dovrebbe prendere atto che la sola regolamentazione indiretta degli intermediari è insufficiente quando non distorsiva e immaginare una più efficace combinazione tra sorveglianza diretta e indiretta.
I mercati azionari adotterebbero un comportamento più lungimirante e meno impopolare se si ristrutturassero i parametri di remunerazione del management; si disincentivassero gli acquisti di azioni proprie (buyback) che sottraggono denaro agli investimenti; si vietasse di corrispondere dividendi infra-annuali (ciò raffredderebbe la ricerca di profitti a breve termine). E si reintroducessero le imposte di successione, impedendo che fortune immense, anziché essere messe al servizio di nuove iniziative imprenditoriali, finiscano in mano a eredi che vivranno di rendita e senza merito per intere generazioni. La ricchezza diventerebbe meno influente e quindi meno pericolosa per la democrazia.
Un ridimensionamento dei mercati e un loro maggior controllo non lascerebbe indifferente il campo di battaglia della tecnologia. In presenza di mercati finanziari meno aggressivi, i governi potrebbero ridurre la durata dei brevetti su tecnologie sviluppate con il supporto di fondi pubblici e obbligare i beneficiari di questi ultimi al pagamento diroyalties da destinare a iniziative di diffusione della conoscenza.
Verrebbe favorita la creazione di «esternalità positive» e la restituzione alla società di parte dei capitali pubblici investiti per sviluppare tecnologie incorporate in prodotti commercializzati dalle imprese private; si potrebbero trasferire ai paesi emergenti le tecnologie «medie», in grado di sviluppare occupazione qualificata in quelle economie.
Inoltre, poiché l’attuale paradigma tecnologico induce alla formazione di monopoli, una rigorosa regolamentazione delle concentrazioni e dell’abuso di posizione dominante ridurrebbe il livello di conflittualità tra gruppi industriali e tra paesi. Sarebbe allora possibile limitare per legge il ricorso agli arbitrati internazionali sui brevetti, una forma di giudizio asimmetrica che tende a tutelare l’interesse privato e a non tener conto di quello pubblico.
Infine, dovrebbe essere riesaminato il ruolo delle organizzazioni economiche internazionali. Questi istituti, che sino a pochi anni orsono hanno tutelato le politiche più ortodosse, di recente hanno preso atto della necessità di rivedere alcuni assiomi della globalizzazione. Se saranno in grado di mostrarsi meno attenti agli interessi degli intermediari finanziari e delle grandi imprese manifatturiere, potranno dare un significativo contributo a rendere più «intelligente» la globalizzazione.
Perché, ad esempio, non richiedere l’introduzione di un salario minimo adeguatamente elevato a tutti i paesi membri della Wto? Sarebbe nell’interesse dei cittadini dei paesi emergenti o più poveri, ma al tempo stesso tutelerebbe dalla concorrenza al ribasso i lavoratori delle nazioni avanzate, contribuendo altresì alla distribuzione meno distorta del reddito d’impresa. Se i governi di queste ultime e le organizzazioni sovranazionali si facessero portatori di un processo volto a redistribuire il potere che una globalizzazione incontrollata ha affidato a relativamente poche istituzioni, contribuirebbero a ricostruire il rapporto tra governanti e governati, a ridare significato alla democrazia liberale e a rafforzare la leadership dell’Occidente.
Già, ma a chi spetta questo compito? Sino al 23 giugno del 2016, e poi magari anche sino all’8 novembre dello stesso anno, avremmo detto al «Nordatlantico». Quell’insieme tutto sommato piuttosto omogeneo di storia, cultura, regole e istituzioni composto da Stati Uniti ed Europa. Ma gli Usa sono oggi guidati da un’amministrazione che non sembra interessata a quel «moderato multilateralismo» 25 che ha caratterizzato la miglior leadership americana del secondo dopoguerra.
Dunque resta l’Europa, pur stretta tra il neoisolazionismo americano e una Russia geopoliticamente ambiziosa ma non in grado di governare processi globali. Eppure l’Europa, anche da sola, può fare molto. È il più grande mercato di beni e servizi al mondo, intermedia quasi il 30% delle attività finanziarie globali e gode del maggiore patrimonio di infrastrutture – tangibili e immateriali – del pianeta.
Le decisioni che l’Unione Europea assume in fatto di brevetti, proprietà intellettuale, regolamentazione bancaria e finanziaria, allocazione degli investimenti pubblici condizionano le scelte di imprese, banche e governi. La ridefinizione del rapporto tra la politica e i mercati potrebbe costituire quell’impegno il cui adempimento – non facile, è evidente – ridarebbe ruolo e significato all’Ue. Le istituzioni europee non sarebbero più percepite come una sovrastruttura dannosa e autoreferenziale. Inizierebbe così una nuova fase della storia del Vecchio Continente, segnata dalla riconquista di una leadership che in passato si era guadagnata con le armi e della quale sembra avere smarrito il senso.

Note
1. C.A. Kupchan, Nessuno controlla il mondo, Milano 2013, il Saggiatore.
2. Ivi, p. 105.
3. R. Kagan, «End of Dreams, Return of History», Policy Review, agosto-settembre 2007, n. 144, pp. 18-19.
4. Per un’ampia rassegna della letteratura al riguardo cfr. i riferimenti bibliografici di D. Held, A. McGrew, Globalismo e antiglobalismo, Bologna 2010, il Mulino; D. Rodrik, La globalizzazione intelligente, Roma-Bari 2014, Laterza; R. Reich, Come salvare il capitalismo, Roma 2015, Fazi Editore.
5. R.B. Reich, Come salvare il capitalismo, Roma 2015, Fazi Editore, p. 46.
6. R.R. Nelson, The Changing Institutional Requirements for Technological and Economic Catch Up, New York 2004, Columbia University.
7. C. Chien, Reforming Software Patents», Houston Law Review, vol. 50, n. 2, 2012, pp. 323-388.
8. Elaborazione su dati US Patent Office, European Patent Office, vari anni.
9. Elaborazione su dati Fortune ed Economist Intelligence Unit, vari anni.
10. G. Grossman, E. Helpman, Innovation and Growth in the Global Economy, Cambridge MA 1991, Mit Press.
11. R.B. Reich, op. cit., cap. 5.
12. Cfr. Rivista di analisi giuridica dell’economia, Bologna, il Mulino.
13. F. Saccomanni, «Introduzione» a S. Romano, Breve storia del debito da Bismarck a Merkel, Vitale & Co., Milano 2015, p. XIX.
14. Cfr. D. Rodrik, op. cit. cap. 5, pp. 137-156.
15. Federal Deposit Insurance Corporation, 2000 e 2014.
16. Cfr. tra gli altri, E&Y, Running the Numbers, BCM market update, aprile 2106. La presenza delle banche cinesi dipende dall’intermediazione dell’enorme debito contratto dalle imprese nazionali, pari al 160% del pil, ma esse non sono in grado di svolgere un ruolo significativo sui mercati internazionali.
17. Cfr. I. Dillar, Mr. Justice Brandeis, Great American, St. Louis 1942, The Modern View Press, p. 42.
18. D. Acemoğlu, J.A. Robinson, Perché le nazioni falliscono, Milano 2013, il Saggiatore.
19. F. Braudel, La dinamica del capitalismo, Bologna 1982, il Mulino; Id., I giochi dello scambio, Torino 1984, Einaudi.
20. Cfr. Z. Bauman, Vite che non possiamo permetterci, Milano 2015, Mondadori, p. 25 ss.
21. E. Severino, Capitalismo senza futuro, Milano 2012, Rizzoli, capp. 2 e 9, pp. 27 e 73.
22. Cfr. M. Salvati (a cura di), Capitalismo e democrazia, Bologna 2009, il Mulino.
23. Cfr. H.P. Minsky, Potrebbe ripetersi?, Torino 1984, Einaudi.
24. Fonti: Fmi, Bri, World Federation of Exchanges.
25. Il termine venne coniato da H.D. White, negoziatore americano degli accordi di Bretton Woods.


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